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1 DANNO NON PATRIMONIALE E DANNO ESISTENZIALE di Gianluigi Morlini Giudice del Tribunale di Reggio Emilia Reggio Emilia, 18 ottobre 2014 * * * * * Sommario: - 1. L’evoluzione giurisprudenziale in tema di risarcimento del danno patrimoniale. - 2. La nascita del danno biologico e l’ampliamento del danno morale. - 3. Il panorama giuridico prima dell’intervento delle Sezioni Unite e la problematica del danno esistenziale. - 4. L’intervento delle Sezioni Unite con le sentenze n. 26972-5/2008. - 5. Il panorama giuridico dopo l’intervento delle Sezioni Unite e le possibili prospettive. - 6. Il superamento delle Sezioni Unite da parte di Cass. Sez. III n. 1361/2014. - Bibliografia 1. L’EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE IN TEMA DI RISARCIMENTO DEL DANNO PATRIMONIALE In un notissimo e molto stimolante articolo pubblicato nel 1985 sulla rivista ‘Contratto e Impresa’, il professor Francesco Galgano parlava delle “mobili frontiere del danno ingiusto”, e qualificava la nozione di danno ingiusto giuridicamente risarcibile come quella di un “universo in espansione”. L’icastica immagine dell’area del danno risarcibile come quella di un “universo in espansione”, fotografa perfettamente l’evoluzione di un sistema che, effettivamente, dagli anni Sessanta in poi ha costantemente visto l’ampliarsi dei confini del danno che può essere oggetto di risarcimento. Sul punto, può forse osservarsi che l’espansione di cui puntualmente parlava il professor Galgano, è stata integrata da una riforma cosiddetta passiva, nel senso che si è verificata senza modificazioni legislative o pronunce di illegittimità costituzionale, ma semplicemente con una

DANNO NON PATRIMONIALE E DANNO ESISTENZIALE · 2014-10-21 · sua dimensione economicistica e non personale; sia con il principio costituzionale di uguaglianza, posto che, a parità

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DANNO NON PATRIMONIALE

E DANNO ESISTENZIALE

di Gianluigi Morlini

Giudice del Tribunale di Reggio Emilia

Reggio Emilia, 18 ottobre 2014

* * * * *

Sommario:

- 1. L’evoluzione giurisprudenziale in tema di risarcimento del danno patrimoniale.

- 2. La nascita del danno biologico e l’ampliamento del danno morale.

- 3. Il panorama giuridico prima dell’intervento delle Sezioni Unite e la problematica del danno

esistenziale.

- 4. L’intervento delle Sezioni Unite con le sentenze n. 26972-5/2008.

- 5. Il panorama giuridico dopo l’intervento delle Sezioni Unite e le possibili prospettive.

- 6. Il superamento delle Sezioni Unite da parte di Cass. Sez. III n. 1361/2014.

- Bibliografia

1. L’EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE IN TEMA DI RISARCIMENTO DEL

DANNO PATRIMONIALE

In un notissimo e molto stimolante articolo pubblicato nel 1985 sulla rivista ‘Contratto e

Impresa’, il professor Francesco Galgano parlava delle “mobili frontiere del danno ingiusto”, e

qualificava la nozione di danno ingiusto giuridicamente risarcibile come quella di un “universo in

espansione”.

L’icastica immagine dell’area del danno risarcibile come quella di un “universo in espansione”,

fotografa perfettamente l’evoluzione di un sistema che, effettivamente, dagli anni Sessanta in poi ha

costantemente visto l’ampliarsi dei confini del danno che può essere oggetto di risarcimento.

Sul punto, può forse osservarsi che l’espansione di cui puntualmente parlava il professor

Galgano, è stata integrata da una riforma cosiddetta passiva, nel senso che si è verificata senza

modificazioni legislative o pronunce di illegittimità costituzionale, ma semplicemente con una

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mutata interpretazione, da parte della giurisprudenza di merito prima e di legittimità poi, dei precetti

codicistici, riletti alla luce di una rinnovata sensibilità rispetto ai valori costituzionali in gioco.

Laddove poi la Corte Costituzionale è intervenuta, non ha fatto altro che ‘blindare’ gli approdi cui

la giurisprudenza era già autonomamente giunta, con sentenze interpretative di rigetto (cfr., ex

pluribus, la celebre Corte Cost. n. 184/1986 sul danno biologico, o la più recente, ma altrettanto

nota, Corte Cost. n. 233/2003 sulla risarcibilità del danno non patrimoniale in caso di lesione di

valori costituzionalmente protetti).

Tale espansione ha inizialmente riguardato la materia del danno patrimoniale, ed è stata incentrata

su una rilettura ampliativa del danno ingiusto di cui all’articolo 2043 c.c. Solo successivamente, ed

in particolare a partire dalla nascita del danno biologico, è stata l’area del danno non patrimoniale

ad essere oggetto di espansione, e l’interesse della giurisprudenza si è allora andato focalizzando

sull’articolo 2059 c.c.

E’ forse proprio con le sentenze di Cass. Sez. Un. n. 26972-5/2008 che si ha la prima inversione di

tendenza rispetto a questo costante ampliamento dell’area di danno risarcibile, avendo dette

sentenze di fatto ristretto sensibilmente l’area del danno non patrimoniale risarcibile, come si dirà

più oltre.

Ma andiamo con ordine, ed iniziamo dall’evoluzione giurisprudenziale in tema di articolo

2043 c.c., tramite la rilettura della nozione di danno ingiusto ed il conseguente ampliamento della

categoria del danno patrimoniale risarcibile.

Il danno ingiusto è la lesione di un interesse altrui meritevole di protezione secondo l’ordinamento

giuridico. La risarcibilità di ogni danno qualificabile come ingiusto è una clausola generale posta

dall’art. 2043 c.c., che sancisce il principio di atipicità dell’illecito civile, in antitesi a quello della

tipicità dell’illecito penale: quando non è la legge a stabilire che un dato danno è ingiusto, la

valutazione è rimessa all’apprezzamento del giudice, che decide caso per caso, ed il problema è

allora vedere quale sia la corretta nozione di danno ingiusto.

Volendo schematizzare, ai limitati fini che qui interessano, l’evoluzione interpretativa circa

l’articolo 2043 c.c., può dirsi che si è inizialmente qualificato il danno ingiusto come lesione dei

soli diritti soggettivi assoluti, mentre si sono successivamente ricompresi anche i diritti relativi, le

situazioni di mero fatto ed infine si è arrivati a ritenere ingiusta anche la lesione degli interessi

legittimi. Va peraltro chiarito che tale sequenza è una sequenza logica, ma non rigorosamente

cronologica: infatti, il passaggio dal risarcimento dei soli diritti assoluti ai diritti relativi è stato

segnato dalla celebre sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 26/1/1971 n. 174/1971

(cd. sentenza Meroni), ma è stato preceduto da pronunce che avevano risarcito la lesione di alcune

situazioni di fatto, quali il possesso.

Più specificamente:

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- l’iniziale orientamento giurisprudenziale era quello di intendere in senso restrittivo il danno

ingiusto, ancorando la sua nozione alla lesione di un diritto assoluto. In particolare, le ipotesi di

danno ingiusto erano date dalla lesione di un diritto della personalità, di un diritto reale (per

esempio, proprietà o servitù), di un diritto al mantenimento o agli alimenti in seguito

all’omicidio di una persona a ciò tenuta;

- la nozione di danno ingiusto come lesione di un diritto assoluto è stata presto ampliata per il

riconoscimento della risarcibilità di situazioni di fatto, quali l’aspettativa di prestazioni familiari

ed il possesso;

- è con la famosa e già citata sentenza Meroni che la giurisprudenza estende l’applicabilità

dell’art. 2043 c.c. anche ai diritti di credito, riconoscendo come potenzialmente risarcibile il

danno subìto da una società di calcio ad opera di un automobilista che procura lesioni ad un

calciatore contrattualmente obbligato con la società stessa. In tale sentenza, peraltro, la

Cassazione chiarisce che il principio della risarcibilità della lesione del diritto di credito

presuppone il rispetto di due condizioni, quali l’estinzione dell’obbligazione e l’infungibilità

della prestazione;

- già negli anni immediatamente successivi alla pronuncia del 1971, la Cassazione perfeziona

però il proprio orientamento, facendo cadere i limiti precedentemente posti alla risarcibilità del

diritto di credito: si considera così risarcibile la lesione del credito anche nelle ipotesi in cui il

fatto del terzo non estingue il rapporto obbligatorio ed anche nel caso la prestazione sia

fungibile;

- un ulteriore ampliamento della tutela aquiliana si ha con l’inquadramento nell’art. 2043 c.c.

anche della lesione della libertà contrattuale. L’ipotesi più frequente è quella delle false

informazioni del terzo (spesso una banca) sulle condizioni di solvibilità di controparte,

informazioni che inducono a concludere un contratto che non si sarebbe altrimenti concluso: il

danno ingiusto è qui visto nella depauperazione del patrimonio dell’informato. Lo stesso

concetto, con riferimento alla falsa attestazione di qualità del bene, è poi formulato nelle celebre

sentenza De Chirico (Cass. 4/5/1982 n. 2765/1982): in tale vicenda, il famoso pittore aveva di

fatto certificato come originale, firmandolo con firma autenticata sul retro, un quadro non suo, e

fu quindi condannato a risarcire il danno subito da chi aveva da altri comperato tale quadro

confidando nella firma di De Chirico;

- con la storica sentenza n. 500/1999, le Sezioni Unite della Cassazione ritengono poi ammissibile

anche il risarcimento degli interessi legittimi, per lunghi anni negato senza esitazione alcuna

dall’unanime giurisprudenza.

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Detto dell’evoluzione interpretativa sull’art. 2043 c.c., deve osservarsi che, per lungo tempo,

anche il danno alla persona è stato visto come rientrante nella nozione di danno patrimoniale,

nell’ambito di una visione della vita meramente produttivistica.

Per anni si è infatti identificato il danno all’integrità fisica della persona “nella perdita economica

che deriva da una determinata modificazione peggiorativa della capacità economica” (Gentile).

In base a questo principio, la valutazione del danno risarcibile non si fonda sulla menomazione

fisica in sé, ma prende in considerazione solo le conseguenze economiche della stessa. Sulla scorta

di tale impostazione, il poliedrico pensatore Melchiorre Gioia, all’inizio dell’Ottocento enuncia la

famosa regola del calzolaio: “un calzolaio, per esempio, eseguisce due scarpe ed un quarto al

giorno; voi avete indebolito la sua mano che non riesce più a fare che una scarpa: voi gli dovete il

valore di una fattura di una scarpa ed un quarto moltiplicato pel numero de’ giorni che gli restano

di vita, meno i giorni festivi”.

Evidente ratio di tale concezione è che si vale per quanto si lavora e quindi per ciò che si guadagna:

ricondurre il danno non già alla lesione in sé considerata, ma limitarlo al mancato guadagno,

significa infatti considerare l’integrità fisica e la salute dell’uomo non come valori in sé, ma come

semplici strumenti produttivi di forza lavoro, con conseguente mercificazione della persona umana.

Il primo passo, seppure molto parziale, per correggere il sistema descritto, è quello della creazione

del danno patrimoniale presunto: pur rimanendo saldo il principio di danno come menomazione

della capacità di guadagno, partendo dal danno effettivo si giunge anche a risarcire il danno

determinato con criteri presuntivi, per tutelare chi non è ancora produttore di reddito. Peraltro, tali

criteri presuntivi sono largamente discrezionali, se non addirittura arbitrari, fonti di incertezze,

equivoci ed ingiustizie.

Per lumeggiare l’arretratezza giurisprudenziale in tema di danno alla persona agli inizi degli anni

Settanta, e quindi in un periodo storico in cui la Cassazione con la sentenza Meroni pur compiva

sostanziali passi avanti in tema di tutela del credito, basta citare il famoso caso Gennarino (Trib.

Milano 18/1/1971): riguardo alla menomazione subita da un bambino, si afferma che “la sua

prevedibile attività futura, e l’ammontare del presumibile reddito futuro, vanno determinati in base

al lavoro svolto dal padre, dovendosi ritenere che il bambino, nel futuro, svolgerà la stessa

professione del padre e raggiungerà un eguale grado di specializzazione” (nella specie, un

manovale generico). Infatti, la sistemazione teorica del danno presunto rimane fermamente

agganciata ad una visione produttivistica della vita, ribadendosi che “il bene la cui compromissione

costituisce la base del diritto al risarcimento non è l’organismo in sé, ma la sua efficienza...

Possono esistere uomini senza alcun valore. Tale è il caso di coloro che per vecchiaia o malattia o

per altra causa, siano totalmente inetti a qualunque occupazione redditizia” (Trib. Firenze

5/1/1967).

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È evidente come tale impostazione ponga seri problemi di compatibilità sia con il principio

costituzionale di tutela dell’individuo, posto che quest’ultimo viene considerato unicamente nella

sua dimensione economicistica e non personale; sia con il principio costituzionale di uguaglianza,

posto che, a parità di lesioni, si hanno diverse liquidazioni a seconda dei redditi.

Anche prima del riconoscimento del danno biologico, per correggere gli arbìtri e le iniquità che

deriverebbero dalla rigida applicazione dei principi tradizionali, un secondo passo è quello di creare

dei correttivi al sistema, tramite l’individuazione di danni diversi da quelli compromettenti

l’efficienza lavorativa, quali il danno alla vita di relazione, il danno estetico, il danno sessuale, il

danno patrimoniale indiretto ed altro. Il concetto di patrimonialità del danno è quindi comunque più

ampio di quello di perdita patrimoniale, anche prima della creazione della figura del danno

biologico.

Peraltro, va evidenziato che, in questa fase storica, il tentativo di allargare il concetto di

patrimonialità del danno è compiuto non già allargano la nozione di danno non patrimoniale di cui

all’art. 2059 c.c.; ma al contrario, restringendo tale nozione, allargando invece le maglie del danno

patrimoniale ex art. 2043 c.c., norma ritenuta di più facile utilizzazione per concedere la tutela

risarcitoria, con la tecnica cosiddetta dello svuotamento dell’area del danno non patrimoniale a

favore di un incremento dell’area patrimonialistica.

2. LA NASCITA DEL DANNO BIOLOGICO E L’AMPLIAMENTO DEL DANNO

MORALE

Solo però il riconoscimento giurisprudenziale del danno biologico produce una vera e

propria ‘svolta dogmatica’, e la lesione all’integrità fisica viene finalmente a rilevare sotto

l’autonomo profilo del danno non patrimoniale.

E’ noto che la nascita del danno biologico viene ricondotta alla sentenza del Tribunale di

Genova del 25/5/1974, seguita da analoghe pronunce dello stesso Tribunale negli anni successivi,

quale Trib. Genova 20/10/1975. Alle Corti di merito genovesi si affiancano dal 1979 quelle pisane,

dando luogo alla cosiddetta giurisprudenza alternativa. In breve tempo, peraltro, il concetto di

danno biologico è riconosciuto anche sul piano della giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. nn.

87/1979 e 88/1979) e della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 3675/1981, Cass. n. 2396/1993,

Cass. n. 4661/1984, Cass. n. 1130/1985, Cass. n. 3025/1986).

Viene così stabilito che deve essere risarcita la menomazione dell’integrità psicofisica del soggetto

in sé e per sé considerata, a prescindere dall’effettiva incidenza sulla capacità lavorativa e sul

reddito. La persona deve infatti essere tutelata in tutte le sue concrete dimensioni, quali quella

sociale, culturale ed estetica. Il danno biologico può allora essere causato da invalidità,

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menomazioni, deturpazioni, impotenze sessuali, malattie nervose, insonnia, alterazioni mentali e

qualsiasi altra lesione della realtà corporale o mentale della persona.

Si argomenta che il riconoscimento del danno biologico è espressione della crescente attenzione del

diritto per la persona umana nella sua realtà globale ed in tutti i suoi valori. Inoltre, esso trova

conforto anche nelle altre principali esperienze giuridiche, posto che in Gran Bretagna, in Francia e

negli Stati Uniti, il danno alla persona era da tempo considerato tanto sotto l’aspetto economico,

quanto sotto il profilo non patrimoniale.

Può allora riassumere Giannini la nozione di danno biologico in quella di una “qualsiasi ingiusta

violazione dell’integrità psicofisica della persona, che ne modifichi in senso peggiorativo il modo

di essere e che incida negativamente sulla sfera individuale del soggetto nelle sue manifestazioni di

vita giuridicamente rilevanti”. Chiarisce poi la Cassazione che nel danno biologico rientrano tutte

le figure di danno non reddituale, tra le quali il danno estetico, sessuale ed alla vita di relazione.

Detto della nascita del danno biologico tramite una riforma passiva, consistita nella rilettura

delle nome di legge esistenti, già si è segnalata l’opera fondamentale svolta dalla Corte

Costituzionale, consistita nell’attribuire conferma alla via seguita dalle Corti di merito, tramite lo

strumento della sentenza interpretativa di rigetto. In particolare, la sentenza che, per chiarezza

espositiva ed esaustività della motivazione, è giustamente ritenuta come la definitiva teorizzazione

del danno biologico, è quella di Corte Cost. n. 184/1986.

Il nucleo centrale della pronuncia, di ben cinquanta cartelle, rimane attuale, laddove l’iter

argomentativo attribuisce un valore alla persona al di fuori della capacità di produrre reddito,

riconoscendo che la persona vale di per sé, non per quello che produce, e sancendo che il godimento

della vita in perfette condizioni fisiche è un valore da tutelare. Il danno biologico consiste allora

nella lesione del diritto dell’uomo alla pienezza della vita ed all’esplicazione della propria

personalità morale, intellettuale, culturale. La lesione della salute produce conseguenze dannose

poiché priva l’uomo di quelle facoltà che gli procurano un ideale stato di benessere, ed il

risarcimento reintegra la vittima nella perdita del benessere psicofisico.

Solo dopo oltre venticinque anni dalla prima intuizione giurisprudenziale del Tribunale di

Genova con la citata sentenza del 25/5/1974, anche il Legislatore finalmente riconosce l’esistenza

del danno biologico.

Infatti, l’art. 13 D. Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, sia pure chiarendo che trattasi di una definizione in

via sperimentale e ai soli fini della tutela dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul

lavoro e le malattie professionali, qualifica il danno biologico come “la lesione all’integrità

psicofisica, suscettibile di valutazione medico-legale, della persona”. Coerentemente con la lunga

elaborazione giurisprudenziale precedente, si chiarisce poi che il ristoro di tale danno è determinato

“in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato”.

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Similmente, l’art. 5 comma 3 L. n. 57/2001, riferendosi ai sinistri conseguenti alla circolazione dei

veicoli a motore e dei natanti, definisce il danno biologico come “la lesione all’integrità psicofisica

della persona, suscettibile di accertamento medico-legale” chiarendo che esso “è risarcibile

indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione di reddito del danneggiato”.

Circa la quantificazione del risarcimento del danno biologico, il Legislatore la ha

disciplinata solo negli specifici due casi delle lesioni fino al 9% derivanti dalla circolazione stradale

(cfr. artt. 138 e 139 D.Lgs. n. 209/2005, cd. Codice delle Assicurazioni), e delle lesioni da infortuni

sul lavoro o malattie professionali (cfr. art. 13 commi 2 e 3 D.Lgs. n. 38/2000).

Relativamente alle altre situazioni risarcitorie, a partire dal 1993 la Cassazione ha ritenuto

illegittimo il criterio del triplo della pensione sociale, inizialmente utilizzato dalla maggioritaria

giurisprudenza, sul presupposto che nella liquidazione del danno non patrimoniale è del tutto

irrilevante la capacità di produrre reddito del danneggiato. Pertanto, si è così via via consolidato il

criterio del punto tabellare (attualmente, le tabelle di gran lunga più utilizzate sono quelle elaborate

dai Giudici del Tribunale di Milano), che persegue l’obiettivo di una progressività della somma da

liquidare in corrispondenza di lesioni di grado percentuale più elevato.

Quanto poi alla dibattuta tematica della configurabilità di un danno biologico in caso di

morte, cd. danno tanatologico, occorre distinguere due situazioni.

Nel caso di morte immediata, Corte Cost. n. 372/1994 ha negato la risarcibilità del danno, ed ha in

tal senso orientato la successiva giurisprudenza. Si argomenta in proposito, da un primo punto di

vista, che la morte non costituisce la massima lesione del diritto alla salute, ma incide sul diverso

bene giuridico della vita: ne consegue che la lesione all’integrità fisica con esito letale non può

configurarsi come semplice sottoipotesi della lesione alla salute, la quale implica la permanenza in

vita del soggetto leso con menomazioni invalidanti; e che, in caso di morte, non si può parlare di

danno biologico, atteso che il danno biologico quale lesione del diritto alla salute postula

necessariamente la permanenza in vita del soggetto leso in condizioni menomate. Da una seconda

angolazione, si osserva che per il bene della vita non è concepibile un risarcimento per equivalente,

quale è quello attribuito a titolo di risarcimento per lesioni biologiche, con funzione reintegratoria e

non già sanzionatoria. Inoltre, si evidenzia che, anche da un punto di vista strettamente tecnico-

giuridico, la vittima, finché è in vita, non subisce alcuna perdita, e da morta non è in grado di

acquisire alcun diritto risarcitorio da trasmettere iure hereditario. Da ultimo, si chiarisce che non

vale obiettare come, in tal modo, risulta economicamente più conveniente uccidere che arrecare una

lesione permanente, atteso che nel nostro ordinamento il sistema risarcitorio non costituisce l’unico

mezzo di protezione del diritto alla vita, che è ampiamente tutelato anche in sede penale (cfr. artt.

575 e 589 c.p.).

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Nel caso invece di morte non immediata, la Suprema Corte è consolidata nel ritenere che gli eredi

abbiano diritto ad un risarcimento iure hereditario per il periodo intercorso tra la lesione e la morte

da essa derivata (superata è quindi la tesi di Cass. n. 8204/2003, che commisura il danno non alla

durata effettiva della vita, ma alla speranza di vita futura), laddove tra data dell’incidente e morte

stessa intercorra un apprezzabile periodo di tempo. Il danno biologico va in tal caso calcolato con

riferimento all’inabilità temporanea massima, tenendo però presente che le caratteristiche peculiari

del pregiudizio sofferto rendono il danno, pur se temporaneo, di eccezionale entità, e quindi

necessitante di adeguata personalizzazione (per tutte, Cass. n. 18163/2007).

Consolidatasi la nozione di danno biologico, a partire dal 2003 si assiste poi in

giurisprudenza al sensibile ampliamento dell’area di operatività del danno morale, inteso come

transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima.

In particolare, innovando rispetto alla consolidata posizione della Suprema Corte, che demandava al

Giudice civile l’incidentale ma effettivo accertamento dell’elemento oggettivo e soggettivo del

reato, prima la Cassazione (cfr. Cass. nn. 7281/2003, 7282/2003, 7283/2003, Cass. n. 3871/2004,

Cass. n. 6748/2004, Cass. n. 20814/2004), poi la Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost. n.

233/2003), hanno ritenuto che, ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale ex artt. 2059 c.c.

e 185 c.p.c., non osta il mancato positivo accertamento della colpa dell’autore, laddove essa, come

nei casi di cui agli artt. 2050-2054 c.c., debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione

civilistica di legge, e se, ricorrendo la colpa, il fatto sia qualificabile come reato. Inoltre, una lettura

costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., impone comunque di ritenere risarcibile il danno

non patrimoniale anche al di fuori delle ipotesi di reato, laddove vengano lesi valori costituzionali,

posto che in caso contrario vi sarebbero diritti della persona, non aventi natura economica ma

ritenuti inviolabili dalla Carta fondamentale, privi di tutela (Cass. n. 8827/2003, Cass. n.

8828/2003).

L’allargamento dell’ambito operativo dell’art. 2059 c.c., con la possibilità di una tutela risarcitoria

anche in assenza di reato, consente da un lato di ricostruire l’area del danno risarcibile nella

bipartizione danni patrimoniali ex art. 2043 c.c.-danni non patrimoniali ex art. 2059 c.c.; dall’altro

lato, di fare confluire nella sede naturale dell’art. 2059 c.c. tutti i danni non patrimoniali, compreso

il danno biologico (cfr. Cass. n 8827/2003, Cass. n. 8828/2003, Cass. n. 16525/2003, Cass. n.

16716/2003, Cass. n. 19057/2003, Cass. n. 2050/2004, Cass. n. 3399/2004, Cass. n. 4118/2004),

che invece Corte Cost. n. 184/1986 aveva collocato nell’ambito dell’art. 2043 c.c. proprio

all’evidente fine di rendere possibile il risarcimento anche in assenza di reato.

Inoltre, abbandonata la ricostruzione di Corte Cost. n. 184/1986 relativa al biologico come danno-

evento, cioè sempre presente in ogni fatto illecito causante pregiudizio alla persona e per questo

sempre risarcibile, si ricostruisce il biologico, al pari di ogni altra forma di danno, come un danno-

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conseguenza. Discende che la parte deve allegare i fatti e provare il pregiudizio, pur se è ben

possibile ricorrere, in base al prudente apprezzamento del Giudice, a fatti notori od a massime di

comune esperienza, e comunque utilizzare il parametro di liquidazione equitativa di cui agli artt.

1226 e 2056 c.c. (Cass. n. 8827/2003, Cass. n. 8828/2003, Cass. n. 12124/2003, Cass. n.

16946/2003, Cass. n. 17429/2003).

3. IL PANORAMA GIURIDICO PRIMA DELL’INTERVENTO DELLE SEZIONI UNITE

E LA PROBLEMATICA DEL DANNO ESISTENZIALE

Come già sopra accennato, a seguito delle sentenze di Cass. nn. 8827/2003 ed 8828/2003,

cui si è immediatamente conformata la successiva giurisprudenza, il sistema risarcitorio abbandona

definitivamente la tripartizione del danno, disegnata da Corte Cost. n. 184/1986, tra danno

patrimoniale ex art. 2043 c.c., danno biologico ex artt. 2043 c.c. e 32 Cost., danno morale ex art.

2059 c.c.; e il sistema viene piuttosto ad essere ricostruito in base ad una struttura bipolare, che vede

affiancarsi il danno patrimoniale ex art. 2043 c.c. ed il danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.

A sua volta, il danno non patrimoniale viene articolato in danno biologico, morale soggettivo ed

esistenziale (cfr. Corte Cost. n. 233/2003, Cass. n. 9861/2007, Cass. n. 13546/2006, Cass. n.

15022/2005, Cass. n. 9801/2005, Cass. n. 8827/2003, Cass. n. 8828/2003, Cass. n. 16525/2003, che

superano l’inquadramento dell’esistenziale nell’art. 2043 c.c. operato da Cass. n. 7713/2000), posto

che danno morale, biologico ed esistenziale, integrano nozioni distinte e descrivono pregiudizi tra

loro diversi (Cass. n. 13546/2006, Cass. n. 20355/2005, Cass. n. 20323/2005, Cass. n. 20205/2005,

Cass. n. 729/2005).

Il danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., infatti, non può più essere identificato soltanto con il

danno morale soggettivo, ed a seguito di una lettura costituzionalmente orientata della norma deve

ricomprendere anche i casi in cui si verifica un’ingiusta lesione dei valori della persona

costituzionalmente garantiti, dalla quale lesione conseguono pregiudizi non suscettibili di

valutazione economica e risarcibili senza soggezione al limite derivante dalla riserva di legge

correlata all’art. 185 c.p. (espressamente Cass. n. 20205/2005, Cass. n. 19354/2005, Cass. n.

15022/2005; cfr. anche Cass. n. 14302/2006, Cass. n. 20323/2005, Cass. n. 10482/2004, Cass. n.

16525/2003, Cass. n. 8828/2003, Cass. n. 8827/2003). Infatti, è ben vero che per il danno

patrimoniale vige il principio della atipicità (riferendosi l’art. 2043 c.c. genericamente al “danno

ingiusto”), mentre per il danno non patrimoniale vige l’opposto principio della tipicità (riferendosi

l’art. 2059 c.c. ai soli “casi previsti dalla legge”); ma una lettura costituzionalmente orientata della

norma impone di ritenere il riferimento rivolto non solo alla legge ordinaria, ma anche ai casi di

lesione di valori della persona umana costituzionalmente protetti, quali salute, famiglia e

10

reputazione (Cass. n. 9861/2007, Cass. n. 9510/2007). Ed il danno non patrimoniale, poi, è

riconosciuto anche in favore delle persone giuridiche (Cass. n. 2367/2000).

Prima allora delle sentenze di san Martino, il sistema risarcitorio era delineato in questi

termini: danno patrimoniale risarcito ex art. 2043 c.c., norma interpretata dalla giurisprudenza nella

sua massima estensione possibile, così come sopra delineato; danno non patrimoniale risarcito ex

art. 2059 c.c., nelle forme del danno biologico, morale ed esistenziale.

In particolare, il danno biologico, inteso come lesione dell’integrità psico-fisica rilevante sotto il

profilo medico-legale, viene normalmente accertato nella sua esistenza e nella sua consistenza da un

CTU; il danno morale, inteso come sofferenza patita dalla vittima e turbamento del suo stato

d’animo, viene sostanzialmente presunto iuris et de iure e considerato in re ipsa ogni qual volta si è

in presenza di un danno biologico, e viene compensato con una somma normalmente compresa tra

un quarto ed un mezzo di quella liquidata a titolo di danno biologico; l’eventuale ulteriore danno

esistenziale, consistente in una forzosa rinuncia ad un facere che comporta un benessere areddituale

ed è riferito a valori costituzionalmente protetti, deve invece essere rigorosamente provato, e viene

compensato con una liquidazione equitativa.

Proprio sulla sottocategoria del danno cosiddetto esistenziale, e direi esclusivamente su tale

posta di danno, si è, dall’inizio degli anni Duemila, sviluppato un acceso dibattito dottrinale-

giurisprudenziale, culminato con l’emanazione delle sentenze di Cass. Sez. Un. nn. 26972-5/2008.

La categoria del danno esistenziale è stata definita come l’alterazione delle proprie abitudini di vita

relazionale, tramite la forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative fonte di

compiacimento o di benessere per il danneggiato, ovvero la necessità di dovere fare qualcosa di

insoddisfacente, in ogni caso impedendo la piena realizzazione della propria persona: consiste in

ogni pregiudizio areddituale del soggetto, che alteri le abitudini di vita e gli assetti relazionali dello

stesso, inducendo a scelte di vita diverse quanto all’espressione ed alla realizzazione della sua

personalità nel mondo esterno (in dottrina, cfr. in particolare la cd. scuola triestina, che fa capo al

professor Cendon ed alla professoressa Ziviz. In giurisprudenza, la prima sentenza di legittimità che

parla di danno esistenziale è Cass. n. 7713/2000, seguita poi da Cass. nn. 1516/2001, 4881/2001,

6507/2001, 9009/2001, 15449/2002, 12124/2003, 16716/2003, Cass. n. 16946/2003, 6732/2005,

19345/2005, 13546/2006, 2311/2007; l’approdo alle Sezioni Unite, che si riteneva avesse

definitivamente consacrato la figura, vi è stato con Cass. Sez. Un. n. 6572/2006, resa nella materia

lavoristica, e cioè in uno dei settori dove il danno esistenziale è stato massimamente studiato ed

applicato, in particolare con riferimento al mobbing ed al demansionamento).

A differenza del biologico, il danno esistenziale sussiste indipendentemente da una lesione fisica o

psichica suscettibile di accertamento e valutazione medico-legale (cfr. art. 13 D. Lgs. n. 38/2000 e

art. 5 L. n. 57/2001); rispetto al morale, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo

11

della vittima, non consiste in una sofferenza od in un dolore, ma nella rinuncia ad un’attività

concreta ed in un peggioramento della qualità della vita; diversamente dal patrimoniale, prescinde

da una diminuzione della capacità reddituale (Cass. n. 13546/2006, Cass. Sez. Un. n. 6572/2006,

Cass. n. 8827/2003, Cass. n. 8828/2003).

Efficacemente, si è sottolineato che se il danno morale consiste in un “sentire”, il danno

esistenziale consiste in un “non potere fare più, in un potere fare in modo diverso, o, ancora, in un

dovere fare a causa della lesione subita” (Tar Lombardia n. 3438/2005).

Evidente ratio della individuazione di tale forma di danno è quella di estendere il meccanismo di

tutela risarcitoria alla lesione di interessi costituzionalmente protetti pur se diversi dal diritto alla

salute, che non possono quindi essere ricompresi nel danno biologico (Cass. n. 16716/2003, Cass. n.

9009/2001).

Nella casistica giurisprudenziale di legittimità, a proposito di riconoscimento di danno

esistenziale, possono essere segnalati: morte di un prossimo congiunto (Cass. n. 13546/2006, Cass.

n. 11761/2006, Cass. n. 15022/2005, Cass. n. 4118/2004), lesione del rapporto parentale (Cass. n.

8828/2003, Cass. n. 8827/2003, Cass. n. 1516/2001), molestie sessuali (Cass. n. 143/2000), perdita

o compromissione della capacità sessuale (Cass. n. 2311/2007), ritardato versamento dal padre al

figlio dell’assegno di mantenimento (Cass. n. 7713/2001), mancata comunicazione alla moglie della

propria impotenza sessuale (Cass. n. 9801/2005), illegittima levata di protesto (Cass. n. 6732/2005,

Cass. n. 4881/2001), lesione dell’onore e della reputazione altrui pur in assenza di reato (Cass. n.

5677/2005), comunicazione al datore di lavoro di notizie lesive della reputazione personale del

lavoratore (Cass. n. 6507/2001), mancato riposo settimanale del lavoratore (Cass. n. 9009/2001),

licenziamento illegittimo (Cass. n. 7980/2004), mobbing (Cass. n. 9009/2001, Trib. Agrigento

1/2/2005, Trib. Milano 28/2/2003, Trib. Pinerolo 6/2/2003, Trib. Pisa 6/10/2001, Trib. Forlì

15/3/2001), demansionamento (Cass. n. 19965/2006, Cass. n. 17774/2006, Cass. n. 21282/2006,

Cass. Sez. Un. n. 6572/2006, Cass. n. 10361/2004, Cass. n. 10157/2004, Cass. n. 8904/2003, Cass.

n. 7980/2004, Cass. n. 1307/2000).

Nella giurisprudenza di merito, si è poi parlato di danno esistenziale a proposito di: immissioni

intollerabili (App. Milano 14/2/2003, App. Milano 6/12/2001, Trib. Milano n. 17595/2003, Trib.

Gorizia 24/9/2001, Trib. Venezia 27/9/2000, Trib. Milano 21/10/1999, Giudice di Pace Frosinone

11/10/2001), ridotta godibilità dell’abitazione (Trib. Ivrea n. 977/2004, Trib. Roma 10/10/2001,

App. Aquila 27/2/2001, Trib. Roma 18/5/2003), rinuncia forzata ai rapporti sessuali con il coniuge

(Trib. Lecce 5/10/2001), violenza sessuale al congiunto (Trib. Agrigento 4/6/2001), vacanza

rovinata, nascita di bambino indesiderato o con malformazioni (App. Perugia 15/12/2004, Trib.

Busto Arsizio 17/7/2001, Trib. Locri 6/10/2000), violazione da parte del genitore degli obblighi di

assistenza morale e materiale verso il figlio (Trib. Venezia 30/6/2004 n. 1292/2004), lesioni subite

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come danno ingiusto (Tar Lombardia n. 3438/2005), lite temeraria ex art. 96 c.p.c. (Trib. Bologna

27/1/2005).

Circa il meccanismo risarcitorio, si è evidenziato come, nel caso di lesione di un interesse

costituzionalmente protetto, quale ad esempio quello di cui agli artt. 2-29-30 Cost., il pregiudizio

conseguente integra un danno non patrimoniale che va risarcito indipendentemente dal fatto che vi

sia l’accertamento di un reato e pur se il danneggiante è ritenuto responsabile in base a presunzione

o responsabilità oggettiva, in ragione della natura del valore inciso.

Infatti, una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. impone di ritenere inoperante

detto limite, al fine di potere accordare sempre tutela a quelle situazioni riconosciute nella

Costituzione quali diritti inviolabili inerenti la persona, pur se non aventi natura economica, che

necessariamente esigono una tutela almeno risarcitoria (Cass. n. 15022/2005, Cass. n. 9801/2005,

Cass. n. 20814/2004, Cass. n. 14488/2004, Cass. n. 10482/20004, Cass. n. 19057/2003, Cass. n.

17429/2003, Cass. n. 16716/2003, Cass. n. 12124/2003, Cass. n. 10482/2003, Cass. n. 8827/2003,

Cass. n. 8828/2003).

D’altronde, se è ben vero che, nella prospettiva del legislatore codicistico, il risarcimento del danno

non patrimoniale era subordinato all’accertamento di un fatto di reato (cfr. artt. 2059 c.c. e 185

c.p.), è altrettanto vero che, in progresso di tempo, si sono espressamente riconosciuti, sul piano

legislativo, casi di risarcimento del danno non patrimoniale al di fuori delle ipotesi di reato (cfr. art.

2 comma 1 L. 117/1988 sulla responsabilità civile dei magistrati per la privazione della libertà

personale nell’esercizio di funzioni giudiziarie e danni derivanti da ingiusta detenzione; art. 29

comma 9 L. 675/1996, ora art. 152 comma 2 D.Lgs. n. 196/2003, sull’illecita raccolta di dati

personali; art. 44 comma 7 DLGS 286/1998 sull’adozione di atti discriminatori per motivi razziali,

etnici e religiosi; art. 2 comma 1 L. 89/2001 sull’irragionevole durata del processo).

Il danno esistenziale è poi stato inteso come danno diretto, non di rimbalzo, e danno-

conseguenza, non danno-evento, volendo usare la nota terminologia di Corte Cost. n. 184/1996.

Ne consegue che la parte deve allegare i fatti e provare il danno, pur se è ben possibile ricorrere, in

base al prudente apprezzamento del Giudice, a fatti notori, a massime di comune esperienza o

presunzioni, e comunque utilizzare il parametro di liquidazione equitativa di cui agli artt. 1226 e

2056 c.c. (Cass. n. 19965/2006, Cass. Sez. Un. n. 6572/2006, Cass. n. 13546/2006, Cass. n.

15022/2005, Cass. n. 20989/2004, Cass. n. 10361/2004, Cass. n. 17429/2003, Cass. n. 16946/2003,

Cass. n. 12124/2003, Cass. n. 8827/2003, Cass. n. 8828/2003).

Con riferimento all’aspetto processuale, la domanda di risarcimento del danno non

patrimoniale formulata in termini generali, non può essere dal Giudice intesa con limitato

riferimento a sole alcune voci di danno, atteso che una tale limitazione è rimessa, in ossequio al

principio della domanda, alla scelta del danneggiato che si limiti a far valere solo alcune delle tre

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voci della categoria del danno non patrimoniale (Cass. n. 13546/2006, Cass. n. 1583/2005, Cass. n.

22987/2004).

In ogni caso, occorre evitare il rischio di duplicazione del risarcimento, ed il Giudice deve

assicurare che sia raggiunto un giusto equilibrio tra le varie voci che concorrono a determinare il

complessivo risarcimento tra le varie forme di danno (Cass. n. 4118/2004, Cass. n. 16946/2003,

Cass. n. 8828/2003).

Così delineato il sistema, deve dirsi che, in realtà, l’unica questione interpretativa che

sembrava davvero in discussione, prima delle sentenze di san Martino 2008, era quella dogmatica se

il danno esistenziale fosse un’autonoma categoria giuridico-sistematica, relativa ad una specifica

tipologia di danno ontologicamente diversa dal danno morale e dal danno biologico (tesi propugnata

dai cosiddetti esistenzialisti); ovvero una categoria meramente descrittiva di danni comunque già

meritevoli di risarcimento (tesi dei cosiddetti non esistenzialisti).

Infatti, non più revocata in dubbio l’effettiva risarcibilità delle singole “lesioni di specifici valori

costituzionalmente protetti” (cfr. Cass. n. 15022/2005 e Cass. n. 14488/2004), essendo comunque

sempre risarcibile il “danno da lesione di valori della persona” (Cass. n. 10482/2004), la

Cassazione aveva talvolta negato la riconducibilità delle varie ipotesi di danno qui in discussione ad

un’unitaria nozione di danno esistenziale (Cass. n. 15022/2005, Cass. n. 14488/2004), confutando

l’autonomia della categoria giuridico-sistematica e riservando ad essa una mera funzione

descrittiva; talaltra aveva invece fatto uso della generale categoria del danno esistenziale (Cass. n.

19354/2005, Cass. pen. 22/1/2004, Cons. Stato nn. 125/2006, 1096/2005 e 4/2005, Corte dei Conti

n. 224-a/2004).

4. L’INTERVENTO DELLE SEZIONI UNITE CON LE SENTENZE N. 26972-5/2008

Negli ultimi anni, il confronto tra le tesi esistenzialiste ed antiesistenzialiste si è fatto sempre

più intenso, creando una vera e propria contrapposizione di scuole sul piano dottrinale ed una netta

frattura su quello giurisprudenziale. Innumerevoli, infatti, sono state le sentenze e le note pubblicate

su questa materia in tutte le principali riviste giuridiche; e gli accenti sono risultati spesso anche

esasperati, al punto che alcuni osservatori hanno parlato di toni da ‘tifo da stadio’ piuttosto che da

vera e propria dialettica giuridica.

Da più parti, quindi, è stato auspicato un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite per prendere

posizione sulle questioni in discussione, come si è detto sostanzialmente relative all’inquadramento

sistematico del danno esistenziale ed alla sua modalità risarcitoria.

E’ allora in questo clima ed in relazione all’elaborazione giurisprudenziale sopra riassunta, che si è

innestato l’intervento delle Sezioni Unite con le pronunce nn. 26972-5/2008, intervento peraltro che

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si è spinto ben oltre le problematiche realmente oggetto del conflitto, per operare invece una

complessiva ricostruzione dell’intero sistema del danno non patrimoniale.

Punto di partenza della riflessione operata dalla Suprema Corte è la conferma della

bipolarità del danno, articolato in patrimoniale ex art. 2043 c.c. e non patrimoniale ex art. 2059 c.c.

Le due ipotesi, tuttavia, si differenziano in punto di evento dannoso, poiché mentre per il danno

patrimoniale vige il principio della atipicità (riferendosi l’art. 2043 c.c. genericamente al “danno

ingiusto”), per il danno non patrimoniale vige l’opposto principio della tipicità (riferendosi l’art.

2059 c.c., norma di rinvio, ai soli “casi previsti dalla legge”).

Il primo dei tre casi previsti dalla legge per la risarcibilità del danno non patrimoniale, è allora l’art.

185 c.p., e cioè la sussistenza di un reato, anche solo incidentalmente accertato dal Giudice civile

(Cass. n. 3747/2001, Cass. n. 3536/2000, Cass. n. 1643/2000), pure con la colpa presunta secondo

le disposizioni di legge civilistiche (Cass. n. 238/2007, Cass. n. 720/2006, Cass. n. 15044/2005,

Cass. n. 20814/2004, Cass. n. 15179/2004, Cass. n. 10489/2004, Cass. n. 6383/2004, Cass. n.

4906/2004, Cass. n. 4359/2004, Cass. n. 7283/2003, Cass. n. 7282/2003, Cass. n. 7281/2003, Corte

Cost. n. 233/2003) ed anche se il reo non è imputabile, ad esempio perché infraquattordicenne

(Cass. n. 11198/1990, Cass. n. 3664/1985, Cass. n. 565/1985, Cass. Sez. Un. n. 6651/1982). In tale

ipotesi, per espressa scelta normativa, risarcibili sono i danni derivanti da qualsiasi lesione, non solo

dalla lesione di valori costituzionalmente protetti. La responsabilità civile del reo sussiste poi “non

soltanto in relazione all’offesa del bene oggetto della specifica tutela penale, ma anche in relazione

ad ogni altro interesse riconducibile nell’ambito della condotta delittuosa in virtù di un nesso

eziologico” (Cass. pen. n. 7259/2004).

Da una seconda angolazione, il danno non patrimoniale è risarcibile in tutti i casi in cui il

risarcimento è previsto dalle leggi ordinarie (art. 89 c.p.c. per uso di espressioni offensive durante

un procedimento civile; art. 158 comma 3 L. n. 633/1941 sulla violazione del diritto d’autore; art. 2

comma 1 L. n. 117/1988 sulla responsabilità civile dei magistrati per la privazione della libertà

personale nell’esercizio di funzioni giudiziarie e danni derivanti da ingiusta detenzione; art. 44

comma 7 D.Lgs. n. 286/1998 sull’adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici e

religiosi; art. 2 comma 1 L. n. 89/2001 sull’irragionevole durata del processo; art. 4 comma 5

D.Lgs. n. 216/2003 sulla discriminazione sul lavoro; art. 15 comma 2 D.Lgs. n. 196/2003

sull’illecita raccolta di dati personali; art. 125 D.Lgs. n. 30/2005 sulla violazione del marchio

industriale; art. 3 comma 3 L. n. 67/2006 sulle discriminazioni dei disabili; art. 37 comma 3 e 55

quinquies comma 7 D.Lgs. n. 198/2006 sulla discriminazione tra uomo e donna per l’accesso alla

fornitura di beni e servizi).

Infine e da una terza angolazione, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai

diritti costituzionali inviolabili, ed in ragione quindi di un’interpretazione costituzionalmente

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orientata dell’art. 2059 c.c., il risarcimento per danni non patrimoniali spetta anche per la lesione di

“diritti inviolabili” della persona previsti dalla Costituzione. Rispetto peraltro alla posizione delle

sentenze gemelle n. 8827 ed 8828 del 2003, da un lato il riferimento è non già a tutti i diritti

“costituzionalmente protetti” o “di rango costituzionale”, ma solo a quelli ritenuti inviolabili

(indicati limitatamente nella salute ex art. 32; nella famiglia ex artt. 2, 29 e 30; nell’identità

personale di reputazione, immagine, nome, riservatezza e dignità, ex artt. 2 e 3); dall’altro lato, la

tutela è altresì limitata dal filtro risarcitorio rappresentato dal fatto che il diritto deve essere inciso

oltre una soglia minima di offensività rappresentata da “gravità dell’offesa” e “serietà del danno”,

atteso che il sistema imporrebbe un grado minimo di tolleranza in base all’art. 2 Cost.

(“palesemente non meritevoli della tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i

pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed ogni altro tipo d’insoddisfazione

concernenti gli aspetti più disparati della vita quotidiana”).

Il catalogo di tali danni, peraltro, non costituisce numero chiuso, ma, in virtù dell’art. 2 Cost., può

essere oggetto di un’interpretazione evolutiva, con riferimento a nuovi interessi emergenti nella

realtà sociale. Né è prospettabile un’illegittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c., così come

interpretato dalle sentenze gemelle del 2003, per l’opzione di risarcire, al di fuori dei casi previsti

dalla legge, solo i danni non patrimoniali da lesione di diritti costituzionalmente protetti, atteso che

la tutela risarcitoria minima ed insopprimibile vale soltanto per la lesione dei diritti inviolabili.

Tutto ciò posto, spiegano poi le Sezioni Unite che il danno non patrimoniale va risarcito

quale che sia la fonte di responsabilità, contrattuale od extracontrattuale, posto che se da un lato

manca nell’ambito della responsabilità contrattuale una norma analoga a quella dell’art. 2059 c.c.,

dall’altro la risarcibilità del danno non patrimoniale in ambito contrattuale si fonda comunque

sull’art. 1174 c.c.

Secondo le sentenze qui in commento, il danno non patrimoniale è poi un danno-conseguenza, che

deve essere allegato e provato, non già un danno-evento (conformi le successive Cass. Sez. Un. n.

3677/2009, Cass. n. 531/2014); ed anche in caso di lesione di valori della persona, va respinta la tesi

che parla di danno in re ipsa.

In uno dei più noti passaggi delle sentenze di san Martino 2008, si statuisce che il danno non

patrimoniale non può essere articolato in sottocategorie.

Nell’ambito dell’unitaria e generale categoria del danno non patrimoniale, non emergono infatti

distinte sottocategorie variamente etichettate, ma si concretizzano solo specifici casi determinati

dalla legge. Solo ai fini descrittivi, si parla di danno morale; di danno biologico, ora riconosciuto

normativamente dagli artt. 138 e 139 Cod. Ass., per la lesione della salute; di danno da perdita

parentale per la lesione dei diritti della famiglia; di danno esistenziale per mancato godimento del

riposo settimanale o per demansionamento, nel caso di lesioni del diritto al lavoro.

16

Quindi, per un verso, deve essere superata la tradizionale categoria del danno morale soggettivo

transeunte, che non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili

pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio. Per altro verso, non può farsi riferimento ad una

generica sottocategoria del danno esistenziale, perché attraverso questa si finisce per riportare anche

il danno non patrimoniale nell’ambito dell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione

dell’apparentemente tipica figura categoriale del danno esistenziale.

E’ allora compito del Giudice, secondo la Suprema Corte a Sezioni Unite, accertare

l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato dalla parte, a prescindere dal nome attribuitogli,

“garantendo l’integrale risarcimento del danno, ma non oltre”.

Ciò posto, deve ritenersi che al danno biologico vada “riconosciuta portata tendenzialmente

omnicomprensiva, confermata dalla definizione normativa adottata dal D.Lgs. n. 209/2005”.

Pertanto, determina una “duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione di danno biologico

e morale… sovente liquidato in percentuale del primo”: il morale deve infatti essere liquidato

personalizzando le tabelle del biologico.

Egualmente, determina duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di danno morale e danno

da perdita del rapporto parentale.

Possono poi solo costituire voci del biologico i pregiudizi esistenziali concernenti aspetti relazionali

della vita conseguenti a lesioni dell’integrità psicofisica.

Certamente incluso nel biologico, se derivante da lesione psicofisica, è il pregiudizio da perdita o

compromissione della sessualità ed altresì il cd. danno estetico.

Il Giudice deve invece liquidare il solo danno morale a ristoro della sofferenza psichica provata

dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte e che sia rimasta

lucida durante l’agonia.

5. IL PANORAMA GIURIDICO DOPO L’INTERVENTO DELLE SEZIONI UNITE

Alla luce di quanto sopra e pur nella consapevolezza che ogni schematizzazione, se

eccessiva, rischia di essere lacunosa, può dirsi che sono due i principali arresti della pronuncia delle

Sezioni Unite: l’adesione alla tesi antiesistenzialista e la negazione dell’autonomia concettuale

anche della figura del danno morale.

Da una prima angolazione, si è detto che viene operata un’inequivoca adesione alla tesi

cosiddetta antiesistenzialista. Infatti, per un verso e sotto un profilo dogmatico, viene recisamente

negata l’esistenza di un’autonoma categoria giuridico-sistematica che riporti ad unità tutte le ipotesi

di danno qualificate come esistenziali; per altro verso e sotto un profilo più strettamente pratico, del

pregiudizio esistenziale viene data una nozione estremamente ridotta, atteso che il risarcimento è

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subordinato alla lesione di diritti inviolabili della persona previsti dalla Costituzione, e solo al caso

di loro incisione connotata da gravita dell’offesa e serietà del danno.

Così facendo, in buona sostanza, la Cassazione aderisce ad una delle due ricostruzioni

oggettivamente presenti nel panorama giurisprudenziale-dottrinale, negando autonomia concettuale

alla categoria del danno esistenziale e componendo l’oggettivo contrasto tramite l’opzione per la

tesi antiesistenzialista (sul punto, può essere utile osservare che la Suprema Corte, in motivazione,

attinge per intere pagine dalla relazione predisposta per le Sezioni Unite dal Massimario della

Corte, relazione redatta dal collega Rossetti, da sempre uno dei più convinti ed autorevoli esponenti

della scuola antiesistenzialista); pur se poi, tramite il riferimento ai diritti costituzionalmente

inviolabili incisi in modo grave e serio, fornisce una definizione di pregiudizio esistenziale più

ridotta di quella che gli stessi antiesistenzialisti avevano in precedenza proposto.

Nel caso invece del secondo arresto, relativo alla negazione dell’autonoma configurazione

anche del danno morale, sul presupposto che il danno non patrimoniale non può essere articolato in

sottocategorie e che il danno biologico ha portata tendenzialmente omincomprensiva del danno non

patrimoniale, deve osservarsi che trattasi di pronuncia in ordine ad una tematica ove nessun

contrasto si era in precedenza verificato, essendo l’intera giurisprudenza di merito e di legittimità da

anni pacifica nel senso esattamente contrario a quello indicato dalle Sezioni Unite. Mai, infatti, era

stato argomentato quanto oggetto della pronuncia delle Sezioni Unite, e cioè che, per una sorta di

somatizzazione del danno morale, se la sofferenza degenera in patologia, va risarcito il solo

pregiudizio alla salute, assorbendo tale pregiudizio anche quello morale. Ed anzi, le Corti Superiori

avevano più volte chiarito che danno biologico e morale “hanno natura diversa e non si

identificano in alcun modo” (Corte Cost. n. 293/1996), perché “il danno biologico consiste nella

lesione dell’integrità psicofisica, mentre il danno morale è costituto dalla lesione dell’integrità

morale” (Cass. n. 15760/2006).

Ciò detto, va osservato che la pronuncia ha ricevuto, oltre ovviamente ad apprezzamenti da

parte di alcuni commentatori, una quantità di critiche e di rilievi come forse mai in passato si era

verificato relativamente ad una sentenza delle Sezioni Unite.

Personalmente, sono tre le perplessità che mi sono sorte dalla lettura del lunghissimo

provvedimento.

Il primo dubbio, a mio avviso, nasce del dictum a tenore del quale il danno biologico

esaurisce tendenzialmente il danno non patrimoniale, oggetto quindi di una reductio ad unum.

In realtà, se inizialmente la dottrina aveva fornito del danno biologico una nozione effettivamente

omnincomprensiva (già si è detto che Giannini parlava di “qualsiasi ingiusta violazione

dell’integrità psicofisica della persona, che ne modifichi in senso peggiorativo il modo di essere e

che incida negativamente sulla sfera individuale del soggetto nelle sue manifestazioni di vita

18

giuridicamente rilevanti”), attualmente la definizione di danno biologico fornita dal Legislatore

(“lesione”, che sia “suscettibile di valutazione medico legale”: artt. 13 D.Lgs. 38/2000 in tema di

assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e 138-139 D.Lgs. n. 209/2005 codice delle

assicurazioni), non sembra potere essere esaustiva di ogni pregiudizio non patrimoniale.

Infatti, se la persona è un valore da tutelare in sé, e se il danno biologico presuppone una lesione

suscettibile di valutazione medico-legale, si pone il problema del risarcimento derivante da un

illecito civile che comporti una sofferenza diversa da una lesione dell’integrità psico-fisica

accertabile in via medico-legale.

Il secondo dubbio attiene invece al riferimento, davvero equivoco, operato alla “serietà del

danno” ed alla “gravità dell’offesa” come limite risarcitorio.

In realtà, se tale riferimento attiene alla tipologia della violazione ed alla qualità del bene inciso, si

tratta di una manifesta duplicazione del riferimento ai diritti costituzionalmente inviolabili come

unici diritti la cui violazione consente il risarcimento; se il riferimento attiene invece, come sembra,

all’entità della lesione provocata, introduce una vera e propria ‘franchigia’ risarcitoria, ciò che pare

non possa in alcun modo essere giustificato con il riferimento all’art. 2 Cost., il quale non enuncia

affatto il principio per il quale sarebbero risarciti solo i danni che superano una certa soglia.

Pertanto, si tratta di un inciso più spiegabile con la volontà ‘politica’ di porre un argine al

diffondersi incontrollato dei danni bagatellari, che con l’applicazione di una stringente logica

giuridica.

Da un terzo punto di vista, molto forzata e poco convincente è la ricerca di continuità che la

Cassazione invoca con i propri precedenti, ed in particolare con le sentenze gemelle del 2003 e con

le Sezioni Unite del 2006, ripetutamente citate in motivazione come espressione di principi che

sarebbero meramente ribaditi nelle pronunce di san Martino 2008.

In realtà, le sentenze di Cass. nn. 8827-8828/2003, subordinavano il risarcimento alla semplice

lesione di valori costituzionalmente rilevanti, non già alla ben più ristretta lesione dei soli valori

costituzionalmente inviolabili, e non effettuavano poi alcun riferimento agli ulteriori requisiti della

gravità dell’offesa e della serietà del danno; quanto poi a Cass. Sez. Un. n. 6572/2006, essa, in tema

di demansionamento nel diritto del lavoro, sanciva espressamente l’esistenza della categoria del

danno esistenziale, e cioè quello che le Sezioni Unite del 2008 invece negano.

E’ allora di tutta evidenza che il riferimento, operato per comprovare l’esattezza di quanto si intende

argomentare, a precedenti che hanno un significato difforme da quello che si intende loro assegnare,

più che rafforzare la tesi che si sta svolgendo, contribuisce piuttosto ad indebolirla.

Detto delle mie tre perplessità, penso di poter dire che tre sono anche, almeno finora, le

smentite che le Sezioni Unite hanno dovuto subire.

19

La prima è derivante dal fatto che la Suprema Corte ha in brevissimo tempo suscitato

ripetute sconfessioni, non solo da parte della giurisprudenza di merito, ma anche di legittimità.

Infatti, con riferimento al danno esistenziale, la di poco successiva Cass. Lav. n. 29832/2008

sembra ribadire l’esistenza di tale categoria di danno, “da intendere come ogni pregiudizio di

natura non meramente emotiva ed interiore (ma oggettivamente accertabile), provocato sul fare

areddituale del soggetto che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a

scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo

esterno”; Cass. n. 7875/2009 conferma una pronuncia di merito che aveva liquidato una somma a

titolo di danno esistenziale; Cass. Lav. n. 21223/2009 e Cass. Sez. Un. n. 4063/2010 espressamente

parlano di danno esistenziale a seguito di demansionamento; Cass. n. 10527/2011 e Cass. n.

14402/2011 parlano di danno parentale come danno esistenziale; Cass. Pen. n. 19678/2009

altrettanto espressamente parla di danno esistenziale; Cass. n. 30668/2011, a tutto tondo, definisce il

danno esistenziale come il “pregiudizio al fare aredittuale determinante una modifica peggiorativa

da cui consegue uno sconvolgimento dell'esistenza e in particolare delle abitudini di vita con

alterazione dei modo di rapportarsi con gli altri nell’ambito della comune vita di relazione, sia

all'interno che all'esterno del nucleo familiare”; Cass. n. 2228/2012, parimenti, si riferisce

espressamente al danno esistenziale; Cass. nn. 20292/2012 e 22585/2013 liquida come voce

autonoma di danno quello esistenziale; Cass. n. 1361/2014, est., Scarano, espressamente statuisce

che “deve escludersi che le Sezioni Unite del 2008 abbiano negato la configurabilità e la rilevanza

ai fini risarcitori risarcibilità del c.d. danno esistenziale” il quale costituisce “un peculiare aspetto

del danno non patrimoniale, distinto sia dal danno morale che dal danno biologico, con il quale

concorre a compendiare l’unitaria categoria del danno non patrimoniale”.

Con riferimento poi al danno morale, ancora più nettamente viene smentito l’assunto

dell’inconfigurabilità di una sua autonoma categoria dogmatica, ribadendosi la “autonomia

ontologica del danno morale”, la quale “deve essere considerata in relazione alla diversità del

bene protetto, che attiene alla sfera della dignità morale delle persone” e “pure attiene ad un

diritto inviolabile della persona” (Cass. n. 29191/2008, est. Petti; cfr. poi anche le successive Cass.

n. 28407/2008, Cass. n. 28423/2008, Cass. n. 29191/2008, Cass. n. 379/2009, Cass. n. 479/2009,

Cass. Sez. Un. n. 557/2009, Cass. n. 4053/2009, Cass. n. 10864/2009, Cass. n. 11059/2009, Cass. n.

11701/2009, Cass. n. 13530/2009, Cass. n. 14551/2009, Cass. n. 16448/2009, Cass. n. 20949/2009,

Cass. n. 702/2010, Cass. n. 5770/2010, Cass. n. 9238/2011, Cass. n. 25222/2011, Cass. n.

2228/2012, Cass. n. 16041/2013, Cass. n. 22585/2013, Cass. n. 1361/2014. Cass. n. 4493/2009

addirittura sostiene che, nel giudizio equitativo davanti al Giudice di pace, non opera la limitazione

del risarcimento del danno non patrimoniale ai soli casi di legge; e per Cass. n. 2228/2012 e Cass. n.

20

22909/2012 testualmente “il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al

pari del danno biologico, non è ricompreso in quest’ultimo e va liquidato a parte”).

Sempre in tema di danno morale, le pronunce della giurisprudenza di merito che hanno realmente

seguito l’insegnamento delle Sezioni Unite, evitando la liquidazione automatica, ritenuta

duplicativa, di un ristoro a titolo di danno morale a seguito della liquidazione del danno biologico,

sono state la minoranza; e ciò perché la maggioritaria giurisprudenza di merito, anche laddove ha

dichiarato di volersi adeguare al dictum delle sentenze di san Martino 2008, lo ha fatto in modo solo

formale, maggiorando il punto biologico del medesimo importo in precedenza riconosciuto al

diverso titolo di danno morale od esistenziale. E tale maggiorazione è stata per lo più effettuata

anche al di sopra dei limiti posti dagli articoli 138 e 139 Cod. Ass. (id est 20% per le

micropermanenti e 30% per le macro), dovendo gli stessi essere unicamente riferiti alla

personalizzazione inerente all’aspetto dinamico-relazionale del danno biologico, ma non anche al

danno non patrimoniale inteso omnicomprensivamente, sia perché, all’epoca dell’emanazione della

norma, era pacifica la risarcibilità del danno morale; sia perché, se il pregiudizio una volta chiamato

morale costituisce ora un fattore di personalizzazione di quello biologico, detta personalizzazione

non dovrebbe trovare limiti ab estrinseco.

La seconda smentita è poi arrivata dallo stesso Legislatore, che per ben due volte, sia pure in

normative settoriali, torna a parlare di danno morale come autonoma categoria di danno.

Infatti, con l’introduzione dell’art. 5 comma 1 lettera c) DPR n. 37 del 3/3/2009, dettato in tema di

risarcimento del danno non patrimoniale al personale appartenente alla carriera militare impiegato

in missioni all’estero, expressis verbis qualifica il danno morale come autonoma categoria di danno

non patrimoniale calcolato in percentuale sul danno biologico, esattamente ciò che le Sezioni Unite

ritengono non possibile. Successivamente, con gli artt. 1 e 4 DPR n. 181/2009 in tema di

accertamento e determinazione del danno per le vittime del terrorismo, non solo si tengono distinte

le due voci di danno biologico e morale, ma si offre un’autonoma definizione normativa del danno

morale stesso.

Ciò ha successivamente indotto la stessa Suprema Corte, per un verso a riconoscere che, così

facendo, il Legislatore “ha inequivocabilmente reso manifesta la volontà di distinguere

concettualmente prima ancora che giuridicamente” danno biologico e morale; per altro verso ad

asserire che le Sezioni Unite “in realtà, ad una più attenta lettura, non hanno mai predicato un

principio di diritto funzionale alla scomparsa per assorbimento ipso facto del danno morale nel

danno biologico” (Cass. n. 18641/2011, est. Travaglino; nello stesso senso le successive Cass. Lav.

n. 30668/2011, Cass. n. 19402/2013).

La terza smentita è invece assestata dalle cd. tabelle del Tribunale di Milano valide per il

2009, le quali, dopo avere formalmente dichiarato di volere accogliere l’insegnamento delle Sezioni

21

Unite, sostanzialmente ne disattendono spirito e lettera, introducendo uno standardizzato e

generalizzato appesantimento del punto percentuale biologico, che ora ricomprende direttamente in

sé l’importo monetario del pregiudizio prima riconosciuto a titolo di danno morale, ferma restando

la possibilità di un’ulteriore personalizzazione in aumento con riferimento alle situazioni prima

compensate con la liquidazione del danno esistenziale. Sul punto, è fin ultroneo segnalare

l’importanza, ai fini pratici, di tale novità, in ragione del diffuso utilizzo delle tabelle redatte

dall’Osservatorio per la Giustizia civile del Tribunale di Milano, avendo dette tabelle da anni

assunto un ruolo guida nella materia della liquidazione del danno non patrimoniale, sostanzialmente

riconducendo ad unità, con la loro forte vis attractiva nei confronti della gran parte dei Tribunali

italiani, il panorama giurisprudenziale dapprima molto variegato.

Addirittura, recentemente la stessa Suprema Corte ha ritenuto le tabelle milanesi il metro della

corretta liquidazione del danno non patrimoniale (in questi termini Cass. n. 12408/2011, nella

sostanza confermata e ribadita dalle successive Cass. n. 14402/2011, Cass. n. 17879/2011, Cass. n.

2228/2012, Cass. n. 12464/2012, Cass. n. 19376/2012, Cass. n. 134/2013).

6. IL SUPERAMENTO DELLE SEZIONI UNITE DA PARTE DI CASS. SEZ. III N.

1361/2014

Il sostanziale completo superamento delle ricostruzione teorica operata dalle Sezioni Unite

nel 2008, è però avvenuto all’inizio del 2014, con una monumentale sentenza di 110 pagine delle

terza sezione, relatore Scarano.

Invero, pur predicando apparentemente continuità con il precedente delle sentenza cd. di San

Martino, la Cassazione, all’esito di un iter motivazionale estremamente dotto e puntiglioso, che

enuclea i seguenti principi di diritto:

- la categoria generale del danno non patrimoniale è di natura composita e si articola nelle tre

voci di danno morale, danno biologico e danno esistenziale;

- il danno morale va inteso come patema d’animo o sofferenza interiore o perturbamento

psichico, nonché come lesione della dignità o integrità morale quale massima espressione della

dignità umana;

- il danno esistenziale consiste nello sconvolgimento dell’esistenza sostanziantesi nello

sconvolgimento delle abitudini di vita, con alterazione del modo di rapportarsi con gli altri

nell’ambito della comune vita di relazione, sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare,

ovvero in fondamentali e radicali scelte di vita diversa;

- costituisce danno non patrimoniale il danno da perdita della vita, che va ristorato anche in caso

di morte cosiddetta immediata o istantanea, senza che assumano rilievo né la persistenza in vita,

22

né la cosciente e lucida percezione dell’ineluttabile sopraggiungere della propria fine: il diritto

al risarcimento di tale danno è trasmissibile iure hereditatis e il danno va liquidato

equitativamente, non essendo contemplato dalle tabelle del Tribunale di Milano.

A seguito di tale sentenza, la immediatamente successiva Cass. n. 5056/2014 ha rimesso gli

atti alle Sezioni Unite per dirimere il contrasto, al fine di confermare l’impostazione del 2008 od

aderire alla nuova ricostruzione.

Mi sia permesso chiudere con una battuta.

Si è cercato di dimostrare che, subito dopo l’articolata sentenza delle Sezioni Unite che nega

autonoma esistenza alla categoria del danno morale e fa divieto di calcolare lo stesso in percentuale

sul danno biologico, dapprima si è proceduto liquidare il danno biologico con un importo monetario

ricomprendente automaticamente ed esattamente ciò che prima veniva liquidato a titolo di danno

morale; e successivamente, si è tornato a predicare la autonoma esistenza della categoria del danno

morale del danno esistenziale.

Volendo utilizzare una citazione letteraria per descrivere tale situazione, l’unica che mi viene in

mente è la battuta che, ne ‘Il Gattopardo’, Tomasi di Lampedusa mette in bocca a Tancredi

allorquando egli si rivolge allo zio, Don Fabrizio il principe di Salina: “se vogliamo che tutto

rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.

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