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Letteratura italiana Einaudi Le città invisibili di Italo Calvino

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Letteratura italiana Einaudi

Le città invisibili

di Italo Calvino

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Letteratura italiana Einaudi

Edizione di riferimento:Einaudi, Torino 1972

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1Letteratura italiana Einaudi

I

Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che diceMarco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sueambascerie, ma certo l’imperatore dei tartari continua adascoltare il giovane veneziano con piú curiosità e attenzio-ne che ogni altro suo messo o esploratore. Nella vita degliimperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio perl’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquista-to, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinun-ceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come divuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti do-po la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda neibracieri; una vertigine che fa tremare i fiumi e le monta-gne istoriati sulla fulva groppa dei planisferi, arrotola unosull’altro i dispacci che ci annunciano il franare degli ulti-mi eserciti nemici di sconfitta in sconfitta, e scrosta la ce-ralacca dei sigilli di re mai sentiti nominare che imploranola protezione delle nostre armate avanzanti in cambio ditributi annuali in metalli preziosi, pelli conciate e gusci ditestuggine: è il momento disperato in cui si scopre chequest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le me-raviglie è uno sfacelo senza fine né forma che la sua corru-zione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possamettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci hafatto eredi della loro lunga rovina. Solo nei resoconti diMarco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraversole muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d’undisegno cosí sottile da sfuggire al morso delle termiti.

Le città e la memoria. 1.

Partendosi di là e andando tre giornate verso levante,l’uomo si trova a Diomira, città con sessanta cupoled’argento, statue in bronzo di tutti gli dei, vie lastricate

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in stagno, un teatro di cristallo, un gallo d’oro che cantaogni mattina su una torre. Tutte queste bellezze il viag-giatore già conosce per averle viste anche in altre città.Ma la proprietà di questa è che chi vi arriva una sera disettembre, quando le giornate s’accorciano e le lampademulticolori s’accendono tutte insieme sulle porte dellefriggitorie, e da una terrazza una voce di donna grida:uh!, viene da invidiare quelli che ora pensano d’aver giàvissuto una sera uguale a questa e d’esser stati quellavolta felici.

Le città e la memoria. 2.

All’uomo che cavalcava lungamente per terreni selva-tici viene desiderio d’una città. Finalmente giunge a Isi-dora, città dove i palazzi hanno scale a chiocciola incro-state di chiocciole marine, dove si fabbricano a regolad’arte cannocchiali e violini, dove quando il forestiero èincerto tra due donne ne incontra sempre una terza, do-ve le lotte dei galli degenerano in risse sanguinose tra gliscommettitori. A tutte queste cose egli pensava quandodesiderava una città. Isidora è dunque la città dei suoisogni: con una differenza. La città sognata conteneva luigiovane; a Isidora arriva in tarda età. Nella piazza c’è ilmuretto dei vecchi che guardano passare la gioventú; luiè seduto in fila con loro. I desideri sono già ricordi.

Le città e il desiderio. 1.

Della città di Dorotea si può parlare in due maniere:dire che quattro torri d’alluminio s’elevano dalle suemura fiancheggiando sette porte dal ponte levatoio amolla che scavalca il fossato la cui acqua alimenta quat-tro verdi canali che attraversano la città e la dividono in

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nove quartieri, ognuno di trecento case e settecento fu-maioli; e tenendo conto che le ragazze da marito di cia-scun quartiere si sposano con giovani di altri quartieri ele loro famiglie si scambiano le mercanzie che ognunaha in privativa: bergamotti, uova di storione, astrolabi,ametiste, fare calcoli in base a questi dati fino a saperetutto quello che si vuole della città nel passato nel pre-sente nel futuro; oppure dire come il cammelliere chemi condusse laggiú: “Vi arrivai nella prima giovinezza,una mattina, molta gente andava svelta per le vie verso ilmercato, le donne avevano bei denti e guardavano drittonegli occhi, tre soldati sopra un palco suonavano il clari-no, dappertutto intorno giravano ruote e sventolavanoscritte colorate. Prima d’allora non avevo conosciutoche il deserto e le piste delle carovane. Quella mattina aDorotea sentii che non c’era bene della vita che non po-tessi aspettarmi. Nel seguito degli anni i miei occhi sonotornati a contemplare le distese del deserto e le pistedelle carovane; ma ora so che questa è solo una delletante vie che mi si aprivano quella mattina a Dorotea”.

Le città e la memoria. 3.

Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descriver-ti la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti di quan-ti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archidei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tet-ti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non diquesto è fatta la città, ma di relazioni tra le misure delsuo spazio e gli avvenimenti del suo passato: la distanzadal suolo d’un lampione e i piedi penzolanti d’un usur-patore impiccato; il filo teso dal lampione alla ringhieradi fronte e i festoni che impavesano il percorso del cor-teo nuziale della regina; l’altezza di quella ringhiera e ilsalto dell’adultero che la scavalca all’alba; l’inclinazione

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d’una grondaia e l’incedervi d’un gatto che si infila nellastessa finestra; la linea di tiro della nave cannoniera ap-parsa all’improvviso dietro il capo e la bomba che di-strugge la grondaia; gli strappi delle reti da pesca e i trevecchi che seduti sul molo a rammendare le reti si rac-contano per la centesima volta la storia della cannonieradell’usurpatore, che si dice fosse un figlio adulterinodella regina, abbandonato in fasce lí sul molo.

Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la citta s’imbe-ve come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zairaquale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zai-ra. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene comele linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nellegriglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelleantenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ognisegmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, inta-gli, svirgole.

Le città e il desiderio. 2.

Di capo a tre giornate, andando verso mezzodí, l’uo-mo si incontra ad Anastasia, città bagnata da canali con-centrici e sorvolata da aquiloni. Dovrei ora enumerare lemerci che qui si comprano con vantaggio: agata onicecrisopazio e altre varietà di calcedonio; lodare la carnedel fagiano dorato che qui si cucina sulla fiamma di le-gno di ciliegio stagionato e si cosparge con molto origa-no; dire delle donne che ho visto fare il bagno nella va-sca d’un giardino e che talvolta invitano – si racconta – ilpasseggero a spogliarsi con loro e a rincorrerle nell’ac-qua. Ma con queste notizie non ti direi la vera essenzadella città: perché mentre la descrizione di Anastasianon fa che risvegliare i desideri uno per volta per obbli-garti a soffocarli, a chi si trova un mattino in mezzo adAnastasia i desideri si risvegliano tutti insieme e ti cir-

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condano. La città ti appare come un tutto in cui nessundesiderio va perduto e di cui tu fai parte, e poiché essagode tutto quello che tu non godi, a te non resta che abi-tare questo desiderio ed esserne contento. Tale potere,che ora dicono maligno ora benigno, ha Anastasia, cittàingannatrice: se per otto ore al giorno tu lavori come ta-gliatore d’agate onici crisopazi, la tua fatica che dà for-ma al desiderio prende dal desiderio la sua forma, e cre-di di godere per tutta Anastasia mentre non ne sei che loschiavo.

Le città e i segni. 1.

L’uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pie-tre. Raramente l’occhio si ferma su una cosa, ed è quan-do l’ha riconosciuta per il segno d’un altra cosa: un’im-pronta sulla sabbia indica il passaggio della tigre, unpantano annuncia una vena d’acqua, il fiore dell’ibiscola fine dell’inverno. Tutto il resto è muto e intercambia-bile; alberi e pietre sono soltanto ciò che sono.

Finalmente il viaggio conduce alla città di Tamara. Cisi addentra per vie fitte d’insegne che sporgono dai mu-ri. L’occhio non vede cose ma figure di cose che signifi-cano altre cose: la tenaglia indica la casa del cavadenti, ilboccale la taverna, le alabarde il corpo di guardia, la sta-dera l’erbivendola. Statue e scudi rappresentano leonidelfini torri stelle: segno che qualcosa – chissà cosa – haper segno un leone o delfino o torre o stella. Altri segna-li avvertono di ciò che in un luogo è proibito – entrarenel vicolo con i carretti, orinare dietro l’edicola, pescarecon la canna dal ponte – e di ciò che è lecito – abbevera-re le zebre, giocare a bocce, bruciare i cadaveri dei pa-renti. Dalla porta dei templi si vedono le statue deglidei, raffigurati ognuno coi suoi attributi: la cornucopia,la clessidra, la medusa, per cui il fedele può riconoscerli

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e rivolgere loro le preghiere giuste. Se un edificio nonporta nessuna insegna o figura, la sua stessa forma e ilposto che occupa nell’ordine della città bastano a indi-carne la funzione: la reggia, la prigione, la zecca, la scuo-la pitagorica, il bordello. Anche le mercanzie che i ven-ditori mettono in mostra sui banchi valgono non per sestesse ma come segni d’altre cose: la benda ricamata perla fronte vuol dire eleganza, la portantina dorata potere,i volumi di Averroè sapienza, il monile per la caviglia vo-luttà. Lo sguardo percorre le vie come pagine scritte: lacittà dice tutto quello che devi pensare, ti fa ripetere ilsuo discorso, e mentre credi di visitare Tamara non faiche registrare i nomi con cui essa definisce se stessa etutte le sue parti.

Come veramente sia la città sotto questo fitto involu-cro di segni, cosa contenga o nasconda, l’uomo esce daTamara senza averlo saputo. Fuori s’estende la terravuota fino all’orizzonte, s’apre il cielo dove corrono lenuvole. Nella forma che il caso e il vento dànno alle nu-vole l’uomo è già intento a riconoscere figure: un velie-ro, una mano, un elefante...

Le città e la memoria. 4.

Al di là di sei fiumi e tre catene di montagne sorgeZora, città che chi l’ha vista una volta non può piú di-menticare. Ma non perché essa lasci come altre città me-morabili un’immagine fuor del comune nei ricordi. Zoraha la proprietà di restare nella memoria punto per pun-to, nella successione delle vie, e delle case lungo le vie, edelle porte e delle finestre nelle case, pur non mostran-do in esse bellezze o rarità particolari. Il suo segreto è ilmodo in cui la vista scorre su figure che si succedonocome in una partitura musicale nella quale non si puòcambiare o spostare una sola nota. L’uomo che sa a me-

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moria com’è fatta Zora, la notte quando non può dormi-re immagina di camminare per le sue vie e ricorda l’ordi-ne in cui si succedono l’orologio di rame, la tenda a stri-sce del barbiere, lo zampillo dai nove schizzi, la torre divetro dell’astronomo, la edicola del venditore di coco-meri, la statua dell’eremita e del leone, il bagno turco, ilcaffè all’angolo, la traversa che va al porto. Questa cittàche non si cancella dalla mente e come un’armatura oreticolo nelle cui caselle ognuno può disporre le coseche vuole ricordare: nomi di uomini illustri, virtú, nu-meri, classificazioni vegetali e minerali, date di battaglie,costellazioni, parti del discorso. Tra ogni nozione e ognipunto dell’itinerario potrà stabilire un nesso d’affinità odi contrasto che serva da richiamo istantaneo alla me-moria. Cosicché gli uomini piú sapienti del mondo sonoquelli che sanno a mente Zora.

Ma inutilmente mi sono messo in viaggio per visitarela città: obbligata a restare immobile e uguale a se stessaper essere meglio ricordata, Zora languí, si disfece escomparve. La Terra l’ha dimenticata.

Le città e il desiderio. 3.

In due modi si raggiunge Despina: per nave o percammello. La città si presenta differente a chi viene daterra e a chi dal mare.

Il cammelliere che vede spuntare all’orizzonte dell’al-tipiano i pinnacoli dei grattacieli, le antenne radar, sbat-tere le maniche a vento bianche e rosse, buttare fumo ifumaioli, pensa a una nave, sa che è una città ma la pen-sa come un bastimento che lo porti via dal deserto, unveliero che stia per salpare, col vento che già gonfia levele non ancora slegate, o un vapore con la caldaia chevibra nella carena di ferro, e pensa a tutti i porti, allemerci d’oltremare che le gru scaricano sui moli, alle

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osterie dove equipaggi di diversa bandiera si romponobottiglie sulla testa, alle finestre illuminate a pianterre-no, ognuna con una donna che si pettina.

Nella foschia della costa il marinaio distingue la formad’una gobba di cammello, d’una sella ricamata di frangeluccicanti tra due gobbe chiazzate che avanzano dondo-lando, sa che è una città ma la pensa come un cammellodal cui basto pendono otri e bisacce di frutta candita, vi-no di datteri, foglie di tabacco, e già si vede in testa aduna lunga carovana che lo porta via dal deserto del mare,verso oasi d’acqua dolce all’ombra seghettata delle pal-me, verso palazzi dalle spesse mura di calce, dai cortili dipiastrelle su cui ballano scalze le dannzatrici, e muovonole braccia un po’ nel velo e un po’ fuori dal velo.

Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si op-pone; e cosí il cammelliere e il marinaio vedono Despi-na, città di confine tra due deserti.

Le città e i segni. 2.

Dalla città di Zirma i viaggiatori tornano con ricordiben distinti: un negro cieco che grida nella folla, un paz-zo che si sporge dal cornicione d’un grattacielo, una ra-gazza che passeggia con un puma legato al guinzaglio. Inrealtà molti dei ciechi che battono il bastone sui selciatidi Zirma sono negri, in ogni grattacielo c’è qualcuno cheimpazzisce, tutti i pazzi passano le ore sui cornicioni,non c’è puma che non sia allevato per un capriccio di ra-gazza. La città è ridondante: si ripete perché qualcosaarrivi a fissarsi nella mente.

Torno anch’io da Zirma: il mio ricordo comprendedirigibili che volano in tutti i sensi all’altezza delle fine-stre, vie di botteghe dove si disegnano tatuaggi sulla pel-le ai marinai, treni sotterranei stipati di donne obese inpreda all’afa. I compagni che erano con me nel viaggio

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invece giurano d’aver visto un solo dirigibile librarsi trale guglie della città, un solo tatuatore disporre sul suopanchetto aghi e inchiostri e disegni traforati, una soladonna–cannone farsi vento sulla piattaforma d’un vago-ne. La memoria è ridondante: ripete i segni perché lacittà cominci a esistere.

Le città sottili. 1.

Isaura, città dai mille pozzi, si presume sorga sopraun profondo lago sotterraneo. Dappertutto dove gli abi-tanti scavando nella terra lunghi buchi verticali sono riu-sciti a tirar su dell’acqua, fin là e non oltre si è estesa lacittà: il suo perimetro verdeggiante ripete quello delle ri-ve buie del lago sepolto, un paesaggio invisibile condi-ziona quello visibile, tutto ciò che si muove al sole èspinto dall’onda che batte chiusa sotto il cielo calcareodella roccia.

Di conseguenza religioni di due specie si dànno aIsaura. Gli dei della città, secondo alcuni, abitano nellaprofondità, nel lago nero che nutre le vene sotterrranee.Secondo altri gli dei abitano nei secchi che risalgono ap-pesi alla fune quando appaiono fuori della vera dei poz-zi, nelle carrucole che girano, negli argani delle norie,nelle leve delle pompe, nelle pale dei mulini a vento chetirano su l’acqua delle trivellazioni, nei castelli di tralic-cio che reggono l’avvitarsi delle sonde, nei serbatoi pen-sili sopra i tetti in cima a trampoli, negli archi sottili de-gli acquedotti, in tutte le colonne d’acqua, i tubiverticali, i saliscendi, i troppopieni, su fino alle girando-le che sormontano le aeree impalcature d’Isaura, cittàche si muove tutta verso l’alto.

Inviati a ispezionare le remote province, i messi e gliesattori del Gran Kan facevano ritorno puntualmente allareggia di Kemenfú e ai giardini di magnolie alla cui ombra

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Kublai passeggiava ascoltando le loro lunghe relazioni. Gliambasciatori erano persiani armeni siriani copti turcoman-ni; l’imperatore è colui che è straniero a ciascuno dei suoisudditi e solo attraverso occhi e orecchi stranieri l’imperopoteva manifestare la sua esistenza a Kublai. In lingue in-comprensibili al Kan i messi riferivano notizie intese in lin-gue a loro incomprensibili: da questo opaco spessore sonoroemergevano le cifre introitate dal fisco imperiale, i nomi e ipatronimici dei funzionari deposti e decapitati, le dimensio-ni dei canali d’irrigazione che i magri fiumi nutrivano intempi di siccità. Ma quando a fare il suo resoconto era ilgiovane veneziano, una comunicazione diversa si stabilivatra lui e l’imperatore. Nuovo arrivato e affatto ignaro dellelingue del Levante, Marco Polo non poteva esprimersi altri-menti che con gesti, salti, grida di meraviglia e d’orrore, la-trati o chiurli d’animali, o con oggetti che andava estraendodalle sue bisacce: piume di struzzo, cerbottane, quarzi, e di-sponendo davanti a sé come pezzi degli scacchi. Di ritornodalle missioni cui Kublai lo destinava, l’ingegnoso stranieroimprovvisava pantomime che il sovrano doveva interpreta-re: una città era designata dal salto d’un pesce che sfuggivaal becco del cormorano per cadere in una rete, un’altra cittàda un uomo nudo che attraversava il fuoco senza bruciarsi,una terza da un teschio che stringeva tra i denti verdi dimuffa una perla candida e rotonda. Il Gran Kan decifrava isegni, però il nesso tra questi e i luoghi visitati rimaneva in-certo: non sapeva mai se Marco volesse rappresentareun’avventura occorsagli in viaggio, una impresa del fonda-tore della città, la profezia d’un astrologo, un rebus o unasciarada per indicare un nome. Ma, palese o oscuro che fos-se, tutto quello che Marco mostrava aveva il potere degliemblemi, che una volta visti non si possono dimenticare néconfondere. Nella mente del Kan l’impero si rifletteva inun deserto di dati labili e intercambiabili come grani di sab-bia da cui emergevano per ogni città e provincia le figureevocate dai logogrifi del veneziano.

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Col succedersi delle stagioni e delle ambascerie, Marcos’impratichí della lingua tartara e di molti idiomi di nazio-ni e dialetti di tribú. I suoi racconti erano adesso i piú pre-cisi e minuziosi che il Gran Kan potesse desiderare e nonv’era quesito o curiosità cui non rispondessero. Eppureogni notizia su di un luogo richiamava alla mente dell’im-peratore quel primo gesto o oggetto con cui il luogo erastato designato da Marco. Il nuovo dato riceveva un sensoda quell’emblema e insieme aggiungeva all’emblema unnuovo senso. Forse l’impero, pensò Kublai, non è altroche uno zodiaco di fantasmi della mente.

– Il giorno in cui conoscerò tutti gli emblemi, – chiese aMarco, – riuscirò a possedere il mio impero, finalmente?

E il veneziano: – Sire, non lo credere: quel giorno saraitu stesso emblema tra gli emblemi.

II

– Gli altri ambasciatori mi avvertono di carestie, diconcussioni, di congiure, oppure mi segnalano miniere diturchesi nuovamente scoperte, prezzi vantaggiosi nellepelli di martora, proposte di forniture di lame damascate.E tu? – chiese a Polo il Gran Kan. – Torni da paesi altret-tanto lontani e tutto quello che sai dirmi sono i pensieriche vengono a chi prende il fresco la sera seduto sulla so-glia di casa. A che ti serve, allora, tanto viaggiare?

– È sera, siamo seduti sulla scalinata del tuo palazzo,spira un po’ di vento, – rispose Marco Polo. – Qualsiasipaese le mie parole evochino intorno a te, lo vedrai da unosservatorio situato come il tuo, anche se al posto dellareggia c’è un villaggio di palafitte e se la brezza portal’odore d’un estuario fangoso.

– Il mio sguardo è quello di chi sta assorto e medita, loammetto. Ma il tuo? Tu attraversi arcipelaghi, tundre, cate-ne di montagne. Tanto varrebbe che non ti muovessi di qui.

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Il veneziano sapeva che quando Kublai se la prendevacon lui era per seguire meglio il filo d’un suo ragionamen-to; e che le sue risposte e obiezioni trovavano il loro postoin un discorso che già si svolgeva per conto suo, nella testadel Gran Kan. Ossia, tra loro era indifferente che quesiti esoluzioni fossero enunciati ad alta voce o che ognuno deidue continuasse a rimurginarli in silenzio. Difatti stavanomuti, a occhi socchiusi, adagiati su cuscini, dondolando suamache, fumando lunghe pipe d’ambra.

Marco Polo immaginava di rispondere (o Kublai im-maginava la sua risposta) che piú si perdeva in quartierisconosciuti di città lontane, piú capiva le altre città cheaveva attraversato per giungere fin là, e ripercorreva letappe dei suoi viaggi, e imparava a conoscere il porto dacui era salpato, e i luoghi familiari della sua giovinezza, ei dintorni di casa, e un campiello di Venezia dove corre-va da bambino.

A questo punto Kublai Kan l’interrompeva o immagi-nava d’interromperlo, o Marco Polo immmaginava d’esse-re interrotto, con una domanda come: – Avanzi col capovoltato sempre all’indietro? – oppure: – Ciò che vedi èsempre alle tue spalle? – o meglio: – Il tuo viaggio si svol-ge solo nel passato?

Tutto perché Marco Polo potesse spiegare o immagi-nare di spiegare o essere immaginato spiegare o riuscirefinalmente a spiegare a se stesso che quello che lui cerca-va era sempre qualcosa davanti a sé, e anche se si tratta-va del passato era un passato che cambiava man manoegli avanzava nel suo viaggio, perché il passato del viag-giatore cambia a seconda dell’itinerario compiuto, nondiciamo il passato prossimo cui ogni giorno che passa ag-giunge un giorno, ma il passato piú remoto. Arrivando aogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato chenon sapeva piú d’avere: l’estraneità di ciò che non sei piúo non possiedi piú t’aspetta al varco nei luoghi estranei enon posseduti.

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Marco entra in una città; vede qualcuno in una piazza vi-vere una vita o un istante che potevano essere suoi; al postodi quell’uomo ora avrebbe potuto esserci lui se si fosse fer-mato nel tempo tanto tempo prima, oppure se tanto tempoprima a un crocevia invece di prendere una strada avessepreso quella opposta e dopo un lungo giro fosse venuto atrovarsi al posto di quell’uomo in quella piazza. Ormai, daquel suo passato vero o ipotetico, lui è escluso; non può fer-marsi; deve proseguire fino a un’altra città dove lo aspettaun altro suo passato, o qualcosa che forse era stato un suopossibile futuro e ora è il presente di qualcun altro. I futurinon realizzati sono solo rami del passato: rami secchi.

– Viaggi per rivivere il tuo passato? – era a questo pun-to la domanda del Kan, che poteva anche essere formulatacosí: – Viaggi per ritrovare il tuo futuro?

E la risposta di Marco: – L’altrove è uno specchio in ne-gativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scopren-do il molto che non ha avuto e non avrà.

Le città e la memoria. 5.

A Maurilia, il viaggiatore è invitato a visitare la città enello stesso tempo a osservare certe vecchie cartoline il-lustrate che la rappresentano com’era prima: la stessaidentica piazza con una gallina al posto della stazionedegli autobus, il chiosco della musica al posto del caval-cavia, due signorine col parasole bianco al posto dellafabbrica di esplosivi. Per non deludere gli abitanti oc-corre che il viaggiatore lodi la città nelle cartoline e lapreferisca a quella presente, avendo però cura di conte-nere il suo rammarico per i cambiamenti entro regoleprecise: riconoscendo che la magnificenza a prosperitàdi Maurilia diventata metropoli, se confrontate con lavecchia Maurilia provinciale, non ripagano d’una certagrazia perduta, la quale può tuttavia essere goduta sol-

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tanto adesso nella vecchie cartoline, mentre prima, conla Maurilia provinciale sotto gli occhi, di grazioso non cisi vedeva proprio nulla, e men che meno ce lo si vedreb-be oggi, se Maurilia fosse rimasta tale e quale, e che co-munque la metropoli ha questa attrattiva in piú, che at-traverso ciò che è diventata si può ripensare connostalgia a quella che era.

Guardatevi dal dir loro che talvolta città diverse sisuccedono sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome,nascono e muoiono senza essersi conosciute, incomuni-cabili tra loro. Alle volte anche i nomi degli abitanti re-stano uguali, e l’accento delle voci, e perfino i lineamen-ti delle facce; ma gli dèi che abitano sotto i nomi e soprai luoghi se ne sono andati senza dir nulla e al loro postosi sono annidati dèi estranei. È vano chiedersi se essi so-no migliori o peggiori degli antichi, dato che non esistetra loro alcun rapporto, cosí come le vecchie cartolinenon rappresentano Maurilia com’era, ma un’altra cittàche per caso si chiamava Maurilia come questa.

Le città e il desiderio. 4.

Al centro di Fedora, metropoli di pietra grigia, sta unpalazzo di metallo con una sfera di vetro in ogni stanza.Guardando dentro ogni sfera si vede una città azzurrache è il modello di un’altra Fedora. Sono le forme che lacittà avrebbe potuto prendere se non fosse, per una ra-gione o per l’altra, diventata come oggi la vediamo. Inogni epoca qualcuno, guardando Fedora qual era, avevaimmaginato il modo di farne la città ideale, ma mentrecostruiva il suo modello in miniatura già Fedora non erapiú la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato unsuo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in unasfera di vetro.

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Fedora ha adesso nel palazzo delle sfere il suo museo:ogni abitante lo visita, sceglie la città che corrisponde aisuoi desideri, la contempla immaginando di specchiarsinella peschiera delle meduse che doveva raccogliere leacque del canale (se non fosse stato prosciugato), di per-correre dall’alto del baldacchino il viale riservato aglielefanti (ora banditi dalla città), di scivolare lungo la spi-rale del minareto a chiocciola (che non trovò piú la basesu cui sorgere).

Nella mappa del tuo impero, o grande Kan, devonotrovar posto sia la grande Fedora di pietra sia le piccoleFedore nelle sfere di vetro. Non perché tutte ugualmen-te reali, ma perche tutte solo presunte. L’una racchiudeciò che è accettato come necessario mentre non lo è an-cora; le altre ciò che è immaginato come possibile e unminuto dopo non lo è piú.

Le città e i segni. 3.

L’uomo che viaggia e non conosce ancora la città chelo aspetta lungo la strada, si domanda come sarà la reg-gia, la caserma, il mulino, il teatro, il bazar. In ogni cittàdell’impero ogni edificio è differente e disposto in un di-verso ordine: ma appena il forestiero arriva alla città sco-nosciuta e getta lo sguardo in mezzo a quella pigna dipagode e abbaini e fienili, seguendo il ghirigoro di cana-li orti immondezzai, subito distingue quali sono i palazzidei principi, quali i templi dei grandi sacerdoti, la locan-da, la prigione, la suburra. Cosí – dice qualcuno – siconferma l’ipotesi che ogni uomo porta nella mente unacittà fatta soltanto di differenze, una città senza figure esenza forma, e le città particolari la riempiono.

Non cosí a Zoe. In ogni luogo di questa città si po-trebbe volta a volta dormire, fabbricare arnesi, cucinare,accumulare monete d’oro, svestirsi, regnare, vendere,

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interrogare oracoli. Qualsiasi tetto a piramide potrebbecoprire tanto il lazzaretto dei lebbrosi quanto le termedelle odalische. Il viaggiatore gira gira e non ha che dub-bi: non riuscendo a distinguere i punti della città, anchei punti che egli tiene distinti nella mente gli si mescola-no. Ne inferisce questo: se l’esistenza in tutti i suoi mo-menti è tutta se stessa, la città di Zoe è il luogo dell’esi-stenza indivisibile. Ma perché allora la città? Quale lineasepara il dentro dal fuori, il rombo delle ruote dall’ululodei lupi?

Le città sottili. 2.

Ora dirò della città di Zenobia che ha questo di mira-bile: benchè posta su terreno asciutto essa sorge su altis-sime palafitte, e le case sono di bambù e di zinco, conmolti ballatoi e balconi, poste a diversa altezza, su tram-poli che si scavalcano l’un l’altro, collegate da scale apioli e marciapiedi pensili, sormontate da belvederi co-perti da tettoie a cono, barili di serbatoi d’acqua, giran-dole marcavento, e ne sporgono carrucole, lenze e gru.

Quale bisogno o comandamento o desiderio abbiaspinto i fondatori di Zenobia a dare questa forma alla lo-ro città, non si ricorda, e perciò non si può dire se essosia stato soddisfatto dalla città quale noi oggi la vedia-mo, cresciuta forse per sovrapposizioni successive dalprimo e ormai indecifrabile disegno. Ma quel che è cer-to è che chi abita a Zenobia e gli si chiede di descriverecome lui vedrebbe la vita felice, è sempre una città comeZenobia che egli immagina, con le sue palafitte e le suescale sospese, una Zenobia forse tutta diversa, svento-lante di stendardi e di nastri, ma ricavata sempre combi-nando elementi di quel primo modello.

Detto questo, è inutile stabilire se Zenobia sia da clas-sificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non e in que-

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ste due specie che ha senso dividere la città, ma in altredue: quelle che continuano attraverso gli anni e le muta-zioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desi-deri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati.

Le città e gli scambi. 1.

A ottanta miglia incontro al vento di maestro l’uomoraggiunge la città di Eufemia, dove i mercanti di settenazioni convengono a ogni solstizio ed equinozio. Labarca che vi approda con un carico di zenzero e bamba-gia tornerà a salpare con la stiva colma di pistacchi e se-mi di papavero, e la carovana che ha appena scaricatosacchi di noce moscata e di zibibbo già affastella i suoibasti per il ritorno con rotoli di mussola dorata. Ma ciòche spinge a risalire fiumi e attraversare deserti per veni-re fin qui non è solo lo scambio di mercanzie che ritrovisempre le stesse in tutti i bazar dentro e fuori l’imperodel Gran Kan, sparpagliate ai tuoi piedi sulle stessestuoie gialle, all’ombra delle stesse tende scacciamosche,offerte con gli stessi ribassi di prezzo menzogneri. Nonsolo a vendere e a comprare si viene a Eufemia, ma an-che perché la notte accanto ai fuochi tutt’intorno al mer-cato, seduti sui sacchi o sui barili, o sdraiati su mucchi ditappeti, a ogni parola che uno dice – come “lupo”, “so-rella”, “tesoro nascosto”, “battaglia”, “scabbia”, “aman-ti” – gli altri raccontano ognuno la sua storiadi lupi, disorelle, di tesori, di scabbia, di amanti, di battaglie. E tusai che nel lungo viaggio che ti attende, quando per re-stare sveglio al dondolio del cammello o della giunca cisi mette a ripensare tutti i propri ricordi a uno a uno, iltuo lupo sarà diventato un altro lupo, tua sorella una so-rella diversa, la tua battaglia altre battaglie, al ritorno daEufemia, la città in cui ci si scambia la memoria a ognisolstizio e a ogni equinozio.

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...Nuovo arrivato e affatto ignaro delle lingue del Le-vante, Marco Polo non poteva esprimersi altrimenti cheestraendo oggetti dalle sue valigie: tamburi, pesci salati,collane di denti di facocero, e indicandoli con gesti, salti,grida di meraviglia o d’orrore, o imitando il latrato dellosciacallo e il chiurlio del barbagianni.

Non sempre le connessioni tra un elemento e l’altro delracconto risultavano evidenti all’imperatore; gli oggetti pote-vano voler dire cose diverse: un turcasso pieno di freccie in-dicava ora l’approssimarsi d’una guerra, ora abbondanza dicacciagione, oppure la bottega d’un armaiolo; una clessidrapoteva significare il tempo che passa o che è passato, oppurela sabbia, o un’officina in cui si fabbricano clessidre.

Ma ciò che rendeva prezioso a Kublai ogni fatto o notiziariferito dal suo inarticolato informatore era lo spazio che re-stava loro intorno, un vuoto non riempito di parole. Le de-scrizioni di città visitate da Marco Polo avevano questa do-te: che ci si poteva girare in mezzo col pensiero, perdercisi,fermarsi a prendere il fresco, o scappare via di corsa.

Col passare del tempo, nei racconti di Marco le paroleandarono sostituendosi agli oggetti e ai gesti: dapprimaesclamazioni, nomi isolati, secchi verbi, poi giri di frase,discorsi ramificati e frondosi, metafore e traslati. Lo stra-niero aveva imparato a parlare la lingua dell’imperatore, ol’imperatore a capire la lingua dello straniero.

Ma si sarebbe detto che la comunicazione fra loro fossemeno felice d’una volta: certo le parole servivano megliodegli oggetti e dei gesti per elencare le cose piú importantid’ogni provincia e città: monumenti, mercati, costumi,fauna e flora; tuttavia quando Polo cominciava a dire dicome doveva essere la vita in quei luoghi, giorno per gior-no, sera dopo sera, le parole gli venivano meno, e a poco apoco tornava a ricorrere a gesti, a smorfie, a occhiate.

Cosí, per ogni città, alle notizie fondamentali enunciatein vocaboli precisi, egli faceva seguire un commento muto,

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alzando le mani di palma, di dorso, o di taglio, in mossediritte o oblique, spasmodiche o lente. Una nuova speciedi dialogo si stabilì tra loro: le bianche mani del GranKan, cariche di anelli, rispondevano con movimenti com-posti a quelle agili e nodose del mercante. Col crescered’un intesa tra loro, le mani presero ad assumere atteggia-menti stabili, che corrispondevano ognuno a un movimen-to dell’animo, nel loro alternarsi e ripetersi. E mentre ilvocabolario delle cose si rinnovava con i campionari dellemercanzie, il repertorio dei commenti muti tendeva achiudersi e a fissarsi. Anche il piacere a ricorrervi diminui-va in entranbi; nelle loro conversazioni restavano il piúdel tempo zitti e immobili.

III

Kublai Kan s’era accorto che le città di Marco Polo s’as-somigliavano, come se il passaggio dall’una all’altra nonimplicasse un viaggio ma uno scambio d’elementi. Ades-so, da ogni città che Marco gli descriveva, la mente delGran Kan partiva per suo conto, e smontata la città pezzoper pezzo, la ricostruiva in un altro modo, sostituendo in-gredienti, spostandoli, invertendoli.

Marco intanto continuava a riferire del suo viaggio, mal’imperatore non lo stava piú a sentire,lo interrompeva:

– D’ora in avanti sarò io a descrivere le città e tu verifi-cherai se esistono e se sono come io le ho pensate. Comin-cerò a chiederti d’una città a scale, esposta a scirocco, suun golfo a mezza luna. Ora dirò qualcuna delle meraviglieche contiene: una vasca di vetro alta come un duomo perseguire il nuoto e il volo dei pesci–rondine e trarne auspi-ci; una palma che con le foglie al vento suona l’arpa; unapiazza con intorno una tavola di marmo a ferro di cavallo,con la tovaglia pure in marmo, imbandita con cibi e be-vande tutti in marmo.

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– Sire, eri distratto. Di questa città appunto ti stavoracccontando quando m’hai interrotto.

– La conosci? Dov’è? Qual è il suo nome?– Non ha nome né luogo. Ti ripeto la ragione per cui la

descrivevo: dal numero delle città immaginabili occorreescludere quelle i cui elementi si sommano senza un filoche li connetta, senza una regola interna, una prospettiva,un discorso. È delle città come dei sogni: tutto l’immagi-nabile può essere sognato ma anche il sogno piú inatteso èun rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rove-scio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di de-sideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto,le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ognicosa ne nasconde un’altra.

– Io non ho desideri né paure, – dichiarò il Kan, – e imiei sogni sono composti o dalla mente o dal caso.

– Anche le città credono di essere opera della mente odel caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loromura. D’una città non godi le sette o le settantasette me-raviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.

– O la domanda che ti pone obbligandoti a rispondere,come Tebe per bocca della Sfinge.

Le città e il desiderio. 5.

Di là, dopo sei giorni e sette notti, l’uomo arriva a Zo-beide, città bianca, ben esposta alla luna, con vie che gi-rano su se stesse come in un gomitolo. Questo si raccon-ta della sua fondazione: uomini di nazioni diverseebbero un sogno uguale, videro una donna correre dinotte per una città sconosciuta, da dietro, coi capellilunghi, ed era nuda. Sognarono d’inseguirla. Gira giraoguno la perdette. Dopo il sogno andarono cercandoquella città; non la trovarono ma si trovarono tra loro;decisero di costruire una città come nel sogno. Nella di-

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sposizione delle strade ognuno rifece il percorso del suoinseguimento; nel punto in cui aveva perso le tracce del-la fuggitiva ordinò diversamente che nel sogno gli spazie le mura in modo che non gli potesse piú scappare.

Questa fu la città di Zobeide in cui si stabilironoaspettando che una notte si ripetesse quella scena. Nes-suno di loro, né nel sonno né da sveglio, vide mai piú ladonna. Le vie della città erano quelle in cui essi andava-no al lavoro tutti i giorni, senza piú nessun rapporto conl’inseguimento sognato. Che del resto era già dimentica-to da tempo.

Nuovi uomini arrivarono da altri paesi, avendo avutoun sogno come il loro, e nella città di Zobeide ricono-scevano qualcosa delle vie del sogno, e cambiavano diposto a porticati e a scale perché somigliassero di piú alcammino della donna inseguita e perché nel punto incui era sparita non le restasse via di scampo.

I primi arrivati non capivano che cosa attraesse que-sta gente a Zobeide, in qusta brutta città, in questa trap-pola.

Le città e i segni. 4.

Di tutti i cambiamenti di lingua che deve affrontare ilviaggiatore in terre lontane, nessuno uguaglia quello chelo attende nella città di Ipazia, perché non riguarda leparole ma le cose. Entrai a Ipazia un mattino, un giardi-no di magnolie si specchiava su lagune azzurre, io anda-vo tra le siepi sicuro di scoprire belle e giovani dame fa-re il bagno: ma in fondo all’acqua i granchi mordevanogli occhi delle suicide con la pietra legata al collo e i ca-pelli verdi d’alghe.

Mi sentii defraudato e volli chiedere giustizia al sulta-no. Salii le scale di porfido del palazzo dalle cupole piúalte, attraversai sei cortili di maiolica con zampilli. La sa-

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la nel mezzo era sbarrata da inferriate: i forzati con nerecatene al piede issavano rocce di basalto da una cava ches’apre sottoterra.

Non mi restava che interrogare i filosofi. Entrai nellagrande biblioteca mi persi tra scaffali che crollavano sot-to le rilegature in pergamena, seguii l’ordine alfabeticod’alfabeti scomparsi, su e giú per corridoi, scalette eponti. Nel piú remoto gabinetto dei papiri, in una nuvo-la di fumo, mi appervero gli occhi inebetiti d’un adole-scente sdaiato su una stuoia, che non staccava le labbrada una pipa d’oppio.

– Dov’è il sapiente? – Il fumatore indicò fuori della fi-nestra. Era un giardino con giochi infantili: i birilli, l’alta-lena, la trottola. Il filosofo sedeva sul prato. Disse: – I se-gni formano una lingua, ma non quella che credi diconoscere –. Capii che dovevo liberarmi dalle immaginiche fin qui m’avevano annunciato le cose che cercavo: so-lo allora sarei riuscito a intendere il linguaggio di Ipazia.

Ora basta che senta nitrire i cavalli e schioccare le fru-ste e già mi prende una trepidazione amorosa: a Ipaziadevi entrare nelle scuderie e nei maneggi per vedere lebelle donne che montano in sella con le cosce nude e igambali sui polpacci, e apppena s’avvicina un giovanestraniero lo rovesciano su mucchi di fieno o di segaturae lo premono con i saldi capezzoli.

E quando il mio animo non chiede altro alimento estimolo che la musica, so che va cercata nei cimiteri: isuonatori si nascondono nelle tombe; da una fossa all’al-tra si rispondono trilli di flauti, accordi d’arpe.

Certo anche a Ipazia verrà il giorno in cui il solo miodesiderio sarà partire. So che non dovrò scendere alporto ma salire sul pinnacolo piú alto della rocca edaspettare che una nave passi lassú. Ma passerà mai? Nonc’è linguaggio senza inganno.

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Le città sottili. 3.

Se Armilla sia cosí perché incompiuta o perché demo-lita, se ci sia dietro un incantesimo o solo un capriccio,io lo ignoro. Fatto sta che non ha muri, né soffiti, né pa-vimenti: non ha nulla che la faccia sembrare una città,eccetto le tubature dell’acqua, che salgono verticali dovedovrebbero esserci le case e si diramano dove dovrebbe-ro esserci i piani: una foresta di tubi che finiscono in ru-binetti, docce, sifoni, troppopieni. Contro il cielo bian-cheggia qualche lavabo o vasca da bagno o altramaiolica, come frutti tardivi rimasti appesi ai rami. Si di-rebbe che gli idraulici abbiano compiuto il loro lavoro ese ne siano andati prima dell’arrivo dei muratori; oppu-re che i loro impianti, indistruttibili, abbiano resistito auna catastrofe, terremoto o corrosione di termiti.

Abbandonata prima o dopo essere stata abitata, Ar-milla non può dirsi deserta. A qualsiasi ora, alzando gliocchi tra le tubature, non è raro scorgere una o moltegiovani donne, snelle, non alte di statura, che si crogio-lano nelle vasche da bagno, che si inarcano sotto le doc-ce sospese sul vuoto, che fanno abluzioni, o che s’asciu-gano, o che si profumano, o che si pettinano i lunghicapelli allo specchio. Nel sole brillano i fili d’acquasventagliati dalle docce, i getti dei rubinetti, gli zampilli,gli schizzi, la schiuma delle spugne.

La spigazione cui sono arrivato è questa: dei corsi d’ac-qua incanalati nelle tubature d’Armilla sono rimaste pa-drone ninfe e naiadi. Abituate a risalire le vene sotterra-nee, è stato loro facile inoltrarsi nel nuovo regnoacquatico, sgorgare da fonti moltiplicate, trovare nuovispecchi, nuovi giochi, nuovi modi di godere dell’acqua.Può darsi che la loro invasione abbia scacciato gli uomini,o può darsi che Armilla sia stata costruita dagli uominicome un dono votivo per ingraziarsi le ninfe offese per lamanomissione delle acque. Comunque, adesso sembranocontente, queste donnine: al mattino si sentono cantare.

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Le città e gli scambi. 2.

A Cloe, grande città, le persone che passano per le vienon si conoscono. Al vedersi immaginano mille cosel’uno dell’altro, gli incontri che potrebbero avvenire traloro, le conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi.Ma nessuno saluta nessuno, gli sguardi s’incrociano perun secondo e poi si sfuggono, cercano altri sguardi, nonsi fermano.

Passa una ragazza che fa girare un parasole appoggia-to alla spalla, e anche un poco il tondo delle anche. Pas-sa una donna nerovestita che dimostra tutti i suoi anni,con gli occhi inquieti sotto il velo e le labbra tremanti.Passa un gigante tatuato; un uomo giovane coi capellibianchi; una nana; due gemelle vestite di corallo. Qual-cosa corre tra loro, uno scambiarsi di sguardi come lineeche collegano una figura all’altra e disegnano frecce,stelle, triangoli, finché tutte le combinazioni in un atti-mo sono esaurite, e altri personagi entrano in scena: uncieco con un ghepardo alla catena, una cortigiana colventaglio di piume di struzzo, un efebo, una donna–can-none. Cosí tra chi per caso si trova insieme a ripararsidalla pioggia sotto il portico, o si accalca sotto un tendo-ne del bazar, o sosta ad ascoltare la banda in piazza, siconsumano incontri, seduzioni, amplessi, orge, senzache ci si scambi una parola, senza che ci si sfiori con undito, quasi senza alzare gli occhi.

Una vibrazione lussuriosa muove continuamenteCloe, la piú casta delle città. Se uomini e donne comin-ciassero a vivere i loro effimeri sogni, ogni fantasma di-venterebbe una persona con cui cominciare una storiad’inseguimenti, di finzioni, di malintesi, d’urti, di op-pressioni, e la giostra delle fantasie si fermerebbe.

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Le città e gli occhi. 1.

Gli antichi costruirono Valdrada sulle rive d’un lagocon case tutte verande una sopra l’altra e vie alte che af-facciano sull’acqua i parapetti a balaustra. Cosí il viag-giatore vede arrivando due città: una diritta sopra il lagoe una riflessa capovolta. Non esiste o avviene cosanell’una Valdrada che l’altra Valdrada non ripeta, per-ché la città fu costruita in modo che ogni suo punto fos-se riflesso dal suo specchio, e la Valdrada giú nell’acquacontiene non solo tutte le scanalature e gli sbalzi dellefacciate che s’elevano sopra il lago ma anche l’internodelle stanze con i soffitti e i pavimenti, la prospettiva deicorridoi, gli specchi degli armadi.

Gli abitanti di Valdrada sanno che tutti i loro atti so-no insieme quell’atto e la sua immagine speculare, cuiappartiene la speciale dignità delle immagini, e questaloro coscienza vieta di abbandonarsi per un solo istanteal caso e all’oblio. Anche quando gli amanti dànno voltaai corpi nudi pelle contro pelle cercando come mettersiper prendere l’uno dall’altro piú piacere, anche quandogli assassini spingono il coltello nelle vene nere del colloe piú sangue grumoso trabocca piú affondano la lamache scivola tra i tendini, non è tanto il loro accoppiarsi otrucidarsi che importa quanto l’accoppiarsi o trucidarsidelle loro immagini limpide e fredde nello specchio.

Lo specchio ora accresce il valore alle cose, ora lo ne-ga. Non tutto quel che sembra valere sopra lo specchioresiste se specchiato. Le due città gemelle non sonouguali, perché nulla di ciò che esiste o avviene a Valdra-da è simmetrico: a ogni viso e gesto rispondono dallospecchio un viso o gesto inverso punto per punto. Ledue Valdrade vivono l’una per l’altra, guardandosi negliocchi di continuo, ma non si amano.

Il Gran Kan ha sognato una città: la descrive a MarcoPolo:

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– Il porto è esposto a settentrione, in ombra. Le banchi-ne sono alte sull’acqua nera che sbatte contro le murate; viscendono scale di pietra scivolose d’alghe. Barche spalma-te di catrame aspettano all’ormeggio i partenti che s’attar-dano sulla calata a dire addio alle famiglie. I commiati sisvolgono in silenzio ma con lacrime. Fa freddo; tutti por-tano scialli sulla testa. Un richiamo del barcaiolo troncagli indugi; il viaggiatore si rannicchia a prua, s’allontanaguardando verso il capannello dei rimasti; da riva già nonsi distinguono i lineamenti; c’è foschia; la barca accosta unbastimento all’ancora; sulla scaletta sale una figura rim-picciolita; sparisce; si sente alzare la catena arrugginita cheraschia contro la cubia. I rimasti s’affacciano agli spalti so-pra la scogliera del molo, per seguire con gli occhi la navefino a che doppia il capo; agitano un’ultima volta un cen-cio bianco.

– Mettiti in viaggio, esplora tutte le coste e cerca questacittà, – dice il Kan a Marco. – Poi torna a dirmi se il miosogno risponde al vero.

– Perdonami, signore: non c’è dubbio che presto o tardim’imbarcherò a quel molo, – dice Marco, – ma non tor-nerò a riferirtelo. La città esiste e ha un semplice segreto:conosce solo partenze e non ritorni.

IV

Le labbra strette sul cannello d’ambra della pipa, labarba schiacciata contro la gorgera d’ametiste, gli alluciinarcati nervosamente nelle pantofole di seta, Kublai Kanascoltava i resoconti di Marco Polo senza sollevare le ci-glia. Erano le sere in cui un vapore ipocondriaco gravavasul suo cuore.

– Le tue città non esistono. Forse non sono mai esistite.Per certo non esisteranno piú. Perché ti trastulli con favo-le consolanti? So bene che il mio impero marcisce come

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un cadavere nella palude, il cui contagio appesta tanto icorvi che lo beccano quanto i bambú che crescono conci-mati dal suo liquame. Perché non mi parli di questo? Per-ché menti all’imperatore dei tartari, straniero?

Polo sapeva secondare l’umore nero del sovrano. – sí,l’impero è malato e, quel che è peggio, cerca d’assuefarsialle sue piaghe. Il fine delle mie esplorazioni è questo:scrutando le tracce di felicità che ancora s’intravvedono,ne misuro la penuria. Se vuoi sapere quanto buio hai in-torno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane.

Alle volte il Kan era invece visitato da soprassaltid’euforia. Si sollevava sui cuscini, misurava a lunghi passii tappeti stesi sotto i suoi piedi sulle aiole, s’affacciava allebalaustre delle terrazze per dominare con occhio allucina-to la distesa dei giardini della reggia rischiarati dalle lan-terne appese ai cedri.

– Eppure io so, – diceva, – che il mio impero è fatto del-la materia dei cristalli, e aggrega le sue molecole secondoun disegno perfetto. In mezzo al ribollire degli elementiprende forma un diamante splendido e durissimo, un’im-mensa montagna sfaccettata e trasparente. Perché le tueimpressioni di viaggio si fermano alle delusive apparenzee non colgono questo processo inarrestabile? Perché indu-gi in malinconie inessenziali? Perché nascondi all’impera-tore la grandezza del suo destino?

E Marco: – Mentre al tuo cenno, sire, la città una e ulti-ma innalza le sue mura senza macchia, io raccolgo le cene-ri delle altre città possibili che scompaiono per farle postoe non potranno piú essere ricostruite né ricordate. Solo seconoscerai il residuo d’infelicità che nessuna pietra prezio-sa arriverà a risarcire, potrai computare l’esatto numero dicarati cui il diamante finale deve tendere, e non sballerai icalcoli del tuo progetto dall’inizio.

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Le città e i segni. 5.

Nessuno sa meglio di te, saggio Kublai, che non si de-ve mai confondere la città col discorso che la descrive.Eppure tra l’una e l’altro c’è un rapporto. Se ti descrivoOlivia, città ricca di prodotti e guadagni, per significarela sua prosperità non ho altro mezzo che parlare di pa-lazzi di filigrana con cuscini frangiati ai davanzali dellebifore; oltre la grata d’un patio una girandola di zampilliinnaffia un prato dove un pavone bianco fa la ruota. Mada questo discorso tu subito comprendi come Olivia èavvolta in una nuvola di fuliggine e d’unto che s’attaccaalle pareti delle case; che nella ressa delle vie i rimorchiin manovra schiacciano i pedoni contro i muri. Se devodirti dell’operosità degli abitanti, parlo delle botteghedei sellai odorose di cuoio, delle donne che cicalano in-trecciando tappeti di rafia, dei canali pensili le cui casca-te muovono le pale dei mulini: ma l’immagine che que-ste parole evocano nella tua coscienza illuminata è ilgesto che accompagna il mandrino contro i denti dellafresa ripetuto da migliaia di mani per migliaia di volte altempo fissato per i turni di squadra. Se devo spiegarticome lo spirito di Olivia tenda a una vita libera e a unaciviltà sopraffina, ti parlerò di dame che navigano, can-tando la notte su canoe illuminate tra le rive d’un verdeestuario; ma è soltanto per ricordarti che nei sobborghidove sbarcano ogni sera uomini e donne come file disonnambuli, c’è sempre chi nel buio scoppia a ridere, dàla stura agli scherzi e ai sarcasmi.

Questo forse non sai: che per dire d’Olivia non potraitenere altro discorso. Se ci fosse un’Olivia davvero dibifore e pavoni, di sellai e tessitori di tappeti e canoe eestuari, sarebbe un misero buco nero di mosche, e perdescrivertelo dovrei fare ricorso alle metafore della fu-liggine, dello stridere di ruote, dei gesti ripetuti, dei sar-casmi. La menzogna non è nel discorso, è nelle cose.

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Le città sottili. 4.

La città di Sofronia si compone di due mezze città. Inuna c’è il grande ottovolante dalle ripide gobbe, la gio-stra con la raggiera di catene, la ruota delle gabbie gire-voli, il pozzo della morte con i motociclisti a testa in giù,la cupola del circo col grappolo dei trapezi che pende inmezzo. L’altra mezza città è di pietra e marmo e cemen-to, con la banca, gli opifici, i palazzi, il mattatoio, lascuola e tutto il resto. Una delle mezze città è fissa, l’al-tra è provvisoria e quando il tempo della sua sosta è fini-to la schiodano, la smontano e la portano via, per tra-piantarla nei terreni vaghi d’un’altra mezza città.

Cosí ogni anno arriva il giorno in cui i manovali stac-cano i frontoni di marmo, calano i muri di pietra, i pilo-ni di cemento, smontano il ministero, il monumento, idocks, la raffineria di petrolio, l’ospedale, li caricano suirimorchi, per seguire di piazza in piazza l’itinerariod’ogni anno. Qui resta la mezza Sofronia dei tirassegni edelle giostre, con il grido sospeso dalla navicella dell’ot-tovolante a capofitto, e comincia a contare quanti mesi,quanti giorni dovrà aspettare prima che ritorni la caro-vana e la vita intera ricominci.

Le città e gli scambi. 3.

Entrato nel territorio che ha Eutropia per capitale, ilviaggiatore vede non una città ma molte, di eguale gran-dezza e non dissimili tra loro, sparse per un vasto e on-dulato altopiano. Eutropia è non una ma tutte questecittà insieme; una sola è abitata, le altre vuote; e questosi fa a turno. Vi dirò ora come. Il giorno in cui gli abi-tanti di Eutropia si sentono assalire dalla stanchezza, enessuno sopporta piú il suo mestiere, i suoi parenti, lasua casa e la sua via, i debiti, la gente da salutare o che

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saluta, allora tutta la cittadinanza decide di spostarsinella città vicina che è lí ad aspettarli, vuota e come nuo-va, dove ognuno prenderà un altro mestiere, un’altramoglie, vedrà un altro paesaggio aprendo la finestra,passerà le sere in altri passatempi amicizie maldicenze.Cosí la loro vita si rinnova di trasloco in trasloco, tracittà che per l’esposizione o la pendenza o i corsi d’ac-qua o i venti si presentano ognuna con qualche differen-za dalle altre. Essendo la loro società ordinata senzagrandi differenze di ricchezza o di autorità, i passaggi dauna funzione all’altra avvengono quasi senza scosse; lavarietà è assicurata dalle molteplici incombenze, tali chenello spazio d’una vita raramente uno ritorna a un me-stiere che già era stato il suo.

Cosí la città ripete la sua vita uguale spostandosi in sue in giù sulla sua scacchiera vuota. Gli abitanti tornano arecitare le stesse scene con attori cambiati; ridicono lestesse battute con accenti variamente combinati; spalan-cano bocche alternate in uguali sbadigli. Sola tra tutte lecittà dell’impero, Eutropia permane identica a se stessa.Mercurio, dio dei volubili, al quale la città è sacra, fecequesto ambiguo miracolo.

Le città e gli occhi. 2.

È l’umore di chi la guarda che dà alla città di Zemru-de la sua forma. Se ci passi fischiettando, a naso libratodietro al fischio, la conoscerai di sotto in su: davanzali,tende che sventolano, zampilli. Se ci cammini col mentosul petto, con le unghie ficcate nelle palme, i tuoi sguar-di s’impiglieranno raso terra, nei rigagnoli, i tombini, leresche di pesce, la cartaccia. Non puoi dire che unaspetto della città sia piú vero dell’altro, però della Zem-rude d’in su senti parlare sopratutto da chi se la ricordaaffondando nella Zemrude d’in giù, percorrendo tutti i

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giorni gli stessi tratti di strada e ritrovando al mattino ilmalumore del giorno prima incrostato a piè dei muri.Per tutti presto o tardi viene il giorno in cui abbassiamolo sguardo lungo i tubi delle grondaie e non riusciamopiú a staccarlo dal selciato. Il caso inverso non è escluso,ma è piú raro: perciò continuiamo a girare per le vie diZemrude con gli occhi che ormai scavano sotto alle can-tine, alle fondamenta, ai pozzi.

Le città e il nome. 1.

Poco saprei dirti d’Aglaura fuori delle cose che gliabitanti stessi della città ripetono da sempre: una seriedi virtù proverbiali, d’altrettanto proverbiali difetti,qualche bizzarria, qualche puntiglioso ossequio alle re-gole. Antichi osservatori, che non c’è ragione di nonsupporre veritieri, attribuirono ad Aglaura il suo dure-vole assortimento di qualità, certo confrontandole conquelle d’altre città dei loro tempi. Né l’Aglaura che si di-ce né l’Aglaura che si vede sono forse molto cambiate daallora, ma ciò che era eccentrico è diventato usuale, stra-nezza quello che passava per norma, e le virtù e i difettihanno perso eccellenza o disdoro in un concerto di virtùe difetti diversamente distribuiti. In questo senso nulla èvero di quanto si dice d’Aglaura, eppure se ne traeun’immagine solida e compatta di città, mentre minorconsistenza raggiungono gli sparsi giudizi che se ne pos-sono trarre a viverci. Il risultato è questo: la città che di-cono ha molto di quel che ci vuole per esistere, mentrela città che esiste al suo posto, esiste meno.

Se dunque volessi descriverti Aglaura tenendomi aquanto ho visto e provato di persona, dovrei dirti che èuna città sbiadita, senza carattere, messa lí come vienviene. Ma non sarebbe vero neanche questo: a certe ore,in certi scorci di strade, vedi aprirtisi davanti il sospetto

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di qualcosa d’inconfondibile, di raro, magari di magnifi-co; vorresti dire cos’è, ma tutto quello che s’è dettod’Aglaura finora imprigiona le parole e t’obbliga a ridireanziché a dire.

Perciò gli abitanti credono sempre d’abitare un’Aglau-ra che cresce solo sul nome Aglaura e non s’accorgonodell’Aglaura che cresce in terra. E anche a me che vorreitener distinte nella memoria le due città, non resta cheparlarti dell’una, perché il ricordo dell’altra, mancando diparole per fissarlo, s’è disperso.

– D’ora in avanti sarò io a descrivere le città, – avevadetto il Kan. – Tu nei tuoi viaggi verificherai se esistono.

Ma le città visitate da Marco Polo erano sempre diverseda quelle pensate dall’imperatore.

– Eppure io ho costruito nella mia mente un modello dicittà da cui dedurre tutte le città possibili, – disse Kublai.– Esso racchiude tutto quello che risponde alla norma. Sic-come le città che esistono s’allontanano in vario gradodalla norma, mi basta prevedere le eccezioni alla norma ecalcolarne le combinazioni piú probabili.

– Anch’io ho pensato un modello di città da cui deducotutte le altre, – rispose Marco. – È una città fatta solo d’ec-cezioni, preclusioni, contraddizioni, incongruenze, contro-sensi. Se una città cosí è quanto c’è di piú improbabile, di-minuendo il numero degli elementi abnormi si accresconole probabilità che la città ci sia veramente. Dunque bastache io sottragga eccezioni al mio modello, e in qualsiasi or-dine proceda arriverò a trovarmi davanti una delle cittàche, pur sempre in via d’eccezione, esistono. Ma non pos-sono spingere la mia operazione oltre un certo limite: ot-terrei delle città troppo verosimili per essere vere.

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V

Dall’alta balaustra della reggia il Gran Kan guarda cre-scere l’impero. Prima era stata la linea dei confini a dila-tarsi inglobando i territori conquistati, ma l’avanzata deireggimenti incontrava plaghe semideserte, stentati villag-gi di capanne, acquitrini dove attecchiva male il riso, po-polazioni magre, fiumi in secca, canne. “È tempo che ilmio impero, già troppo cresciuto verso il fuori, – pensavail Kan, – cominci a crescere al di dentro”, e sognava boschidi melegranate mature che spaccano la scorza, zebú rosola-ti allo spiedo e gocciolanti lardo, vene metallifere chesgorgano in frane di pepite luccicanti.

Ora molte stagioni d’abbondanza hanno colmato i gra-nai. I fiumi in piena hanno trascinato foreste di travi de-stinate a sostenere tetti di bronzo di templi e palazzi. Ca-rovane di schiavi hanno spostato montagne di marmoserpentino attraverso il continente. Il Gran Kan contem-pla un impero ricoperto di città che pesano sulla terra e su-gli uomini, stipato di ricchezze e d’ingorghi, stracaricod’ornamenti e d’incombenze, complicato di meccanismi edi gerarchie, gonfio, teso, greve.

“È il suo stesso peso che sta schiacciando l’impero”,pensa Kublai, e nei suoi sogni ora appaiono città leggerecome aquiloni, città traforate come pizzi, città trasparenticome zanzariere, città nervatura di foglia, città linea dellamano, città filigrana da vedere attraverso il loro opaco efittizio spessore.

– Ti racconterò cosa ho sognato stanotte, – dice a Mar-co. – In mezzo a una terra piatta e gialla, cosparsa di me-teoriti e massi erratici, vedevo di lontano elevarsi le guglied’una città dai pinnacoli sottili, fatti in modo che la Lunanel suo viaggio possa posarsi ora sull’uno ora sull’ altro, odondolare appesa ai cavi delle gru.

E Polo: – La città che hai sognato è Lalage. Questi invi-ti alla sosta nel cielo notturno i suoi abitanti disposero

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perché la Luna conceda a ogni cosa nella città di crescere ericrescere senza fine.

– C’è qualcosa che tu non sai, – aggiunse il Kan. – Ri-conoscente la Luna ha dato alla città di Lalage un privile-gio piú raro: crescere in leggerezza.

Le città sottili. 5.

Se volete credermi, bene. Ora dirò come è fatta Otta-via, città–ragnatela. C’è un precipizio in mezzo a duemontagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle duecreste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulletraversine di legno, attenti a non mettere il piede negliintervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Sottonon c’è niente per centinaia e centinaia di metri: qualchenuvola scorre; s’ intravede piú in basso il fondo del bur-rone.

Questa è la base della città: una rete che serve da pas-saggio e da sostegno. Tutto il resto, invece d’elevarsi so-pra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case fatte asacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, otri d’ac-qua, becchi del gas, girarrosti, cesti appesi a spaghi,montacarichi, docce, trapezi e anelli per i giochi, telefe-riche, lampadari, vasi con piante dal fogliame pendulo.

Sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia èmeno incerta che in altre città. Sanno che piú di tanto larete non regge.

Le città e gli scambi. 4.

A Ersilia, per stabilire i rapporti che reggono la vitadella città, gli abitanti tendono dei fili tra gli spigoli del-le case, bianchi o neri o grigi o bianco–e–neri a secondase segnano relazioni di parentela, scambio, autorità, rap-

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presentanza. Quando i fili sono tanti che non ci si puòpiú passare in mezzo, gli abitanti vanno via: le case ven-gono smontate; restano solo i fili e i sostegni dei fili.

Dalla costa d’un monte, accampati con le masserizie, iprofughi di Ersilia guardano l’intrico di fili tesi e paliche s’innalza nella pianura. È quello ancora la città diErsilia, e loro sono niente.

Riedificano Ersilia altrove. Tessono con i fili una figu-ra simile che vorrebbero piú complicata e insieme piúregolare dell’altra. Poi l’ abbandonano e trasportano an-cora piú lontano sé e le case.

Cosí viaggiando nel territorio di Ersilia incontri le ro-vine delle città abbandonate, senza le mura che non du-rano, senza le ossa dei morti che il vento fa rotolare: ra-gnatele di rapporti intricati che cercano una forma.

Le città e gli occhi. 3.

Dopo aver marciato sette giorni attraverso boscaglie,chi va a Bauci non riesce a vederla ed è arrivato. I sottilitrampoli che s’alzano dal suolo a gran distanza l’unodall’altro e si perdono sopra le nubi sostengono la città.Ci si sale con scalette. A terra gli abitanti si mostrano dirado: hanno già tutto l’occorrente lassú e preferiscononon scendere. Nulla della città tocca il suolo trannequelle lunghe gambe da fenicottero a cui si appoggia e,nelle giornate luminose, un’ombra traforata e angolosache si disegna sul fogliame.

Tre ipotesi si dànno sugli abitanti di Bauci: che odi-no la Terra; che la rispettino al punto d’evitare ognicontatto; che la amino com’era prima di loro e concannocchiali e telescopi puntati in giú non si stanchinodi passarla in rassegna, foglia a foglia, sasso a sasso,formica per formica, contemplando affascinati la pro-pria assenza.

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Le città e il nome. 2.

Dèi di due specie proteggono la città di Leandra. Gliuni e gli altri sono cosí piccoli che non si vedono e cosínumerosi che non si possono contare. Gli uni stannosulle porte delle case, all’interno, vicino all’attaccapannie al portaombrelli; nei traslochi seguono le famiglie es’installano nei nuovi alloggi alla consegna delle chiavi.Gli altri stanno in cucina, si nascondono di preferenzasotto le pentole, o nella cappa del camino, o nel riposti-glio delle scope: fanno parte della casa e quando la fami-glia che ci abitava se ne va, loro restano coi nuovi inqui-lini; forse erano già lí quando la casa non c’era ancora,tra l’erbaccia dell’area fabbricabile, nascosti in un barat-tolo arrugginito; se si butta giú la casa e al suo posto sicostruisce un casermone per cinquanta famiglie, ce li siritrova moltiplicati, nella cucina d’altrettanti apparta-menti. Per distinguerli, chiameremo Penati gli uni e glialtri Lari.

In una casa, non è detto che i Lari stiano sempre coiLari e i Penati coi Penati: si frequentano, passeggianoinsieme sulle cornici di stucco, sui tubi dei termosifoni,commentano i fatti della famiglia, è facile che litighino,ma possono pure andar d’accordo per degli anni; a ve-derli tutti in fila non si distingue quale è l’uno e quale èl’altro. I Lari hanno visto passare tra le loro mura Penatidelle piú diverse provenienze e abitudini; ai Penati toccafarsi un posto gomito a gomito coi Lari d’illustri palazzidecaduti, pieni di sussiego, o coi Lari di baracche di lat-ta, permalosi e diffidenti.

La vera essenza di Leandra è argomento di discussionisenza fine. I Penati credono d’essere loro l’anima dellacittà, anche se ci sono arrivati l’anno scorso, e di portarsiLeandra con sé quando emigrano. I Lari considerano iPenati ospiti provvisori, importuni, invadenti; la veraLeandra è la loro, che dà forma a tutto quello che contie-

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ne, la Leandra che era lí prima che tutti questi intrusi ar-rivassero e resterà quando tutti se ne saranno andati.

In comune hanno questo: che su quanto succede infamiglia e in città trovano sempre da ridire, i Penati ti-rando in ballo i vecchi, i bisnonni, le prozie, la famigliad’una volta, i Lari l’ambiente com’era prima che lo rovi-nassero. Ma non è detto che vivano solo di ricordi: alma-naccano progetti sulla carriera che faranno i bambini dagrandi (i Penati), su cosa potrebbe diventare quella casao quella zona (i Lari) se fosse in buone mani. A tenderel’orecchio, specie di notte, nelle case di Leandra, li sentiparlottare fitto fitto, darsi sulla voce, rimandarsi motteg-gi, sbuffi, risatine ironiche.

Le città e i morti. 1.

A Melania, ogni volta che si entra nella piazza, ci sitrova in mezzo a un dialogo: il soldato millantatore e ilparassita uscendo da una porta s’incontrano col giovanescialacquatore e la meretrice; oppure il padre avaro dal-la soglia fa le ultime raccomandazioni alla figlia amorosaed è interrotto dal servo sciocco che va a portare un bi-glietto alla mezzana. Si ritorna a Melania dopo anni e siritrova lo stesso dialogo che continua; nel frattempo so-no morti il parassita, la mezzana, il padre avaro; ma ilsoldato millantatore, la figlia amorosa, il servo scioccohanno preso il loro posto, sostituiti alla loro voltadall’ipocrita, dalla confidente, dall’astrologo.

La popolazione di Melania si rinnova: i dialogantimuoiono a uno a uno e intanto nascono quelli che pren-deranno posto a loro volta nel dialogo, chi in una partechi nell’altra. Quando qualcuno cambia di parte o ab-bandona la piazza per sempre o vi fa il suo primo ingres-so, si producono cambiamenti a catena, finché tutte leparti non sono distribuite di nuovo; ma intanto al vec-

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chio irato continua a rispondere la servetta spiritosa,l’usuraio non smette d’inseguire il giovane diseredato, lanutrice di consolare la figliastra, anche se nessuno di lo-ro conserva gli occhi e la voce che aveva nella scena pre-cedente.

Capita alle volte che un solo dialogante sostenga nellostesso tempo due o piú parti: tiranno, benefattore, mes-saggero; o che una parte sia sdoppiata, moltiplicata, at-tribuita a cento, a mille abitanti di Melania: tremila perl’ipocrita, trentamila per lo scroccone, centomila figli dire caduti in bassa fortuna che attendono il riconosci-mento.

Col passare del tempo anche le parti non sono piúesattamente le stesse di prima; certamente l’azione cheesse mandano avanti attraverso intrighi e colpi di scenaporta verso un qualche scioglimento finale, cui continuaad avvicinarsi anche quando la matassa pare ingarbu-gliarsi di piú e gli ostacoli aumentare. Chi s’affaccia allapiazza in momenti successivi sente che d’atto in atto ildialogo cambia, anche se le vite degli abitanti di Melaniasono troppo brevi per accorgersene.

Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.– Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede

Kublai Kan.– Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, – ri-

sponde Marco, – ma dalla linea dell’arco che esse formano.Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiun-

ge: – Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco chem’importa.

Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco.

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VI

– Ti è mai accaduto di vedere una città che assomigli aquesta? – chiedeva Kublai a Marco Polo sporgendo la ma-no inanellata fuori dal baldacchino di seta del bucintoroimperiale, a indicare i ponti che s’incurvano sui canali, ipalazzi principeschi le cui soglie di marmo s’immergononell’acqua, l’andirivieni di battelli leggeri che volteggianoa zigzag spinti da lunghi remi, le chiatte che scaricano ce-ste di ortaggi sulle piazze dei mercati, i balconi, le altane,le cupole, i campanili, i giardini delle isole che verdeggia-no nel grigio della laguna.

L’imperatore, accompagnato dal suo dignitario forestie-ro, visitava Quinsai, antica capitale di spodestate dinastie,ultima perla incastonata nella corona del Gran Kan.

– No, sire, – rispose Marco,– mai avrei immaginato chepotesse esistere una città simile a questa.

L’imperatore cercò di scrutarlo negli occhi. Lo stranieroabbassò lo sguardo. Kublai restò silenzioso per tutto ilgiorno.

Dopo il tramonto, sulle terrazze della reggia, Marco Po-lo esponeva al sovrano le risultanze delle sue ambascerie.D’abitudine il Gran Kan terminava le sue sere assaporan-do a occhi socchiusi questi racconti finché il suo primo sba-diglio non dava il segnale al corteo dei paggi d’accendere lefiaccole per guidare il sovrano al Padiglione dell’AugustoSonno. Ma stavolta Kublai non sembrava disposto a cederealla stanchezza. – Dimmi ancora un’altra città,– insisteva.

– ...Di là l’uomo si parte e cavalca tre giornate tra grecoe levante... – riprendeva a dire Marco, e a enumerare no-mi e costumi e commerci d’un gran numero di terre. Il suorepertorio poteva dirsi inesauribile, ma ora toccò a luid’arrendersi. Era l’alba quando disse: – Sire, ormai ti hoparlato di tutte le città che conosco.

– Ne resta una di cui non parli mai.Marco Polo chinò il capo.

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– Venezia, – disse il Kan.Marco sorrise. – E di che altro credevi che ti parlassi?L’imperatore non batté ciglio. – Eppure non ti ho mai

sentito fare il suo nome.E Polo: – Ogni volta che descrivo una città dico qualco-

sa di Venezia.– Quando ti chiedo d’altre città, voglio sentirti dire di

quelle. E di Venezia, quando ti chiedo di Venezia.– Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da

una prima città che resta implicita. Per me è Venezia.– Dovresti allora cominciare ogni racconto dei tuoi

viaggi dalla partenza, descrivendo Venezia cosí com’è, tut-ta quanta, senza omettere nulla di ciò che ricordi di lei.

L’acqua del lago era appena increspata; il riflesso di ra-me dell’antica reggia dei Sung si frantumava in riverberiscintillanti come foglie che galleggiano.

– Le immagini della memoria, una volta fissate con leparole, si cancellano, – disse Polo. – Forse Venezia hopaura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse,parlando d’altre città, l’ho già perduta poco a poco.

Le città e gli scambi. 5.

A Smeraldina, città acquatica, un reticolo di canali eun reticolo di strade si sovrappongono e s’intersecano.Per andare da un posto a un altro hai sempre la sceltatra il percorso terrestre e quello in barca: e poiché la li-nea piú breve tra due punti a Smeraldina non è una rettama uno zigzag che si ramifica in tortuose varianti, le vieche s’aprono a ogni passante non sono soltanto due mamolte, e ancora aumentano per chi alterna traghetti inbarca e trasbordi all’asciutto.

Cosí la noia a percorrere ogni giorno le stesse strade èrisparmiata agli abitanti di Smeraldina. E non è tutto: larete dei passaggi non è disposta su un solo strato, ma se-

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gue un saliscendi di scalette, ballatoi, ponti a schienad’asino, vie pensili. Combinando segmenti dei diversitragitti sopraelevati o in superficie, ogni abitante si dàogni giorno lo svago d’un nuovo itinerario per andarenegli stessi luoghi. Le vite piú abitudinarie e tranquille aSmeraldina trascorrono senza ripetersi.

A maggiori costrizioni sono esposte, qui come altro-ve, le vite segrete e avventurose. I gatti di Smeraldina, iladri, gli amanti clandestini si spostano per vie piú alte ediscontinue, saltando da un tetto all’altro, calandosi daun’altana a un verone, contornando grondaie con passoda funamboli. Piú in basso, i topi corrono nel buio dellecloache l’uno dietro la coda dell’altro insieme ai congiu-rati e ai contabbandieri: fanno capolino da tombini e dachiaviche, svicolano per intercapedini e chiassuoli, tra-scinano da un nascondiglio all’altro croste di formaggio,mercanzie proibite, barili di polvere da sparo, attraver-sano la compattezza della città traforata dalla raggeradei cunicoli sotterranei.

Una mappa di Smeraldina dovrebbe comprendere,segnati in inchiostri di diverso colore, tutti questi trac-ciati, solidi e liquidi, palesi e nascosti. Piú difficile è fis-sare sulla carta le vie delle rondini, che tagliano l’aria so-pra i tetti, calano lungo parabole invisibili ad ali ferme,scartano per inghiottire una zanzara, risalgono a spiralerasente un pinnacolo, sovrastano da ogni punto dei lorosentieri d’aria tutti i punti della città.

Le città e gli occhi. 4.

Giunto a Fillide, ti compiaci d’osservare quanti pontidiversi uno dall’altro attraversano i canali: ponti a schie-na d’asino, coperti, su pilastri, su barche, sospesi, con iparapetti traforati; quante varietà di finestre s’affaccianosulle vie: a bifora, moresche, lanceolate, a sesto acuto,

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sormontate da lunette o da rosoni; quante specie di pa-vimenti coprano il suolo: a ciottoli, a lastroni, d’imbrec-ciata, a piastrelle bianche e blu. In ogni suo punto lacittà offre sorprese alla vista: un cespo di capperi chesporge dalle mura della fortezza, le statue di tre reginesu una mensola, una cupola a cipolla con tre cipollineinfilzate sulla guglia. “Felice chi ha ogni giorno Fillidesotto gli occhi e non finisce mai di vedere le cose checontiene”, esclami, col rimpianto di dover lasciare lacittà dopo averla solo sfiorata con lo sguardo.

Ti accade invece di fermarti a Fillide e passarvi il re-sto dei tuoi giorni. Presto la città sbiadisce ai tuoi occhi,si cancellano i rosoni, le statue sulle mensole, le cupole.Come tutti gli abitanti di Fillide, segui linee a zigzag dauna via all’altra, distingui zone di sole e zone d’ombra,qua una porta, là una scala, una panca dove puoi posareil cesto, una cunetta dove il piede inciampa se non ci ba-di. Tutto il resto della città è invisibile. Fillide è uno spa-zio in cui si tracciano percorsi tra punti sospesi nel vuo-to, la via piú breve per raggiungere la tenda di quelmercante evitando lo sportello di quel creditore. I tuoipassi rincorrono ciò che non si trova fuori degli occhima dentro, sepolto e cancellato: se tra due portici unocontinua a sembrarti piú gaio è perché è quello in cuipassava trent’anni fa una ragazza dalle larghe manichericamate, oppure è solo perché riceve la luce a unacert’ora come quel portico, che non ricordi piú dov’era.

Milioni d’occhi s’alzano su finestre ponti capperi ed ècome scorressero su una pagina bianca. Molte sono lecittà come Fillide che si sottraggono agli sguardi tranneche se le cogli di sorpresa.

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Le città e il nome. 3.

A lungo Pirra è stata per me una città incastellata sul-le pendici d’un golfo, con finestre alte e torri, chiusa co-me una coppa, con al centro una piazza profonda comeun pozzo e con un pozzo al centro. Non l’avevo mai vi-sta. Era una delle tante città dove non sono mai arrivato,che m’immagino soltanto attraverso il nome: Eufrasia,Odile, Margara, Getullia. Pirra aveva il suo posto inmezzo a loro, diversa da ognuna di loro, come ognunadi loro inconfondibile agli occhi della mente.

Venne il giorno in cui i miei viaggi mi portarono aPirra. Appena vi misi piede tutto quello che immagina-vo era dimenticato; Pirra era diventata ciò che è Pirra; eio credevo d’aver sempre saputo che il mare non è in vi-sta della città, nascosto da una duna della costa bassa eondulata; che le vie corrono lunghe e diritte; che le casesono raggruppate a intervalli, non alte, e le separanospiazzi di depositi di legname e segherie; che il ventomuove le girandole delle pompe idrauliche. Da quel mo-mento in poi il nome Pirra richiama alla mia mente que-sta vista, questa luce, questo ronzio, quest’aria in cui vo-la una polvere giallina: è evidente che significa e nonpoteva significare altro che questo.

La mia mente continua a contenere un gran numero dicittà che non ho visto né vedrò, nomi che portano con séuna figura o frammento o barbaglio di figura immaginata:Getullia, Odile, Eufrasia, Margara. Anche la città alta sulgolfo è sempre là, con la piazza chiusa intorno al pozzo,ma non posso piú chiamarla con un nome, né ricordarecome potevo darle un nome che significa tutt’altro.

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Le città e i morti. 2.

Mai nei miei viaggi m’ero spinto fino a Adelma. Eral’imbrunire quando vi sbarcai. Sulla banchina il mari-naio che prese al volo la cima e la legò alla bitta somi-gliava a uno che era stato soldato con me, ed era morto.Era l’ora del mercato del pesce all’ingrosso. Un vecchiocaricava una cesta di ricci su un carretto; credetti di ri-conoscerlo; quando mi voltai era sparito in un vicolo,ma avevo capito che somigliava a un pescatore che, giàvecchio quando io ero bambino, non poteva piú esseretra i vivi. Mi turbò la vista d’un malato di febbri rannic-chiato per terra con una coperta sulla testa: mio padrepochi giorni prima di morire aveva gli occhi gialli e labarba ispida come lui tal quale. Girai lo sguardo; nonosavo fissare piú nessuno in viso.

Pensai: “Se Adelma è una città che vedo in sogno, do-ve non s’incontrano che morti, il sogno mi fa paura. SeAdelma è una città vera, abitata da vivi, basterà conti-nuare a fissarli perché le somiglianze si dissolvano e ap-paiano facce estranee, apportatrici d’angoscia. In un ca-so o nell’altro è meglio che non insista a guardarli”.

Un’erbivendola pesava una verza sulla stadera e lametteva in un paniere appeso a una cordicella che unaragazza calava da un balcone. La ragazza era uguale auna del mio paese che era impazzita d’amore e s’era uc-cisa. L’erbivendola alzò il viso: era mia nonna.

Pensai: “Si arriva a un momento nella vita in cui tra lagente che si è conosciuta i morti sono piú dei vivi. E lamente si rifiuta d’accettare altre fisionomie, altre espres-sioni: su tutte le facce nuove che incontra, imprime ivecchi calchi, per ognuna trova la maschera che s’adattadi piú”.

Gli scaricatori salivano le scale in fila, curvi sotto da-migiane e barili; le facce erano nascoste da cappucci disacco; “Ora si tirano su e li riconosco”, pensavo, con im-

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pazienza e con paura. Ma non staccavo gli occhi da loro;per poco che girassi lo sguardo sulla folla che gremivaquelle straducole, mi vedevo assalito da facce inaspetta-te, riapparse da lontano, che mi fissavano come per farsiriconoscere, come per riconoscermi, come se mi avesseroriconosciuto. Forse anch’io assomigliavo per ognuno diloro a qualcuno che era morto. Ero appena arrivato adAdelma e già ero uno di loro, ero passato dalla loro par-te, confuso in quel fluttuare d’occhi, di rughe, di smorfie.

Pensai: “Forse Adelma è la città cui si arriva morendoe in cui ognuno ritrova le persone che ha conosciuto. Èsegno che sono morto anch’io”. Pensai anche: “È segnoche l’aldilà non è felice “.

Le città e il cielo. 1.

A Eudossia, che si estende in alto e in basso, con vico-li tortuosi, scale, angiporti, catapecchie, si conserva untappeto in cui puoi contemplare la vera forma dellacittà. A prima vista nulla sembra assomigliare meno aEudossia che il disegno del tappeto, ordinato in figuresimmetriche che ripetono i loro motivi lungo linee rettee circolari, intessuto di gugliate dai colori splendenti,l’alternarsi delle cui trame puoi seguire lungo tutto l’or-dito. Ma se ti fermi a osservarlo con attenzione, ti per-suadi che a ogni luogo del tappeto corrisponde un luogodella città e che tutte le cose contenute nella città sonocomprese nel disegno, disposte secondo i loro veri rap-porti, quali sfuggono al tuo occhio distratto dall’andiri-vieni dal brulichio dal pigia–pigia. Tutta la confusionedi Eudossia, i ragli dei muli, le macchie di nerofumo,l’odore di pesce, è quanto appare nella prospettiva par-ziale che tu cogli; ma il tappeto prova che c’è un puntodal quale la città mostra le sue vere proporzioni, lo sche-ma geometrico implicito in ogni suo minimo dettaglio.

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Perdersi a Eudossia è facile: ma quando ti concentri afissare il tappeto riconosci la strada che cercavi in un filocremisi o indaco o amaranto che attraverso un lungo giro tifa entrare in un recinto color porpora che è il tuo vero pun-to d’arrivo. Ogni abitante di Eudossia confronta all’ordineimmobile del tappeto una sua immagine della città, una suaangoscia, e ognuno può trovare nascosta tra gli arabeschiuna risposta, il racconto della sua vita, le svolte del destino.

Sul rapporto misterioso di due oggetti cosí diversi co-me il tappeto e la città fu interrogato un oracolo. Unodei due oggetti, – fu il responso, – ha la forma che gli deidiedero al cielo stellato e alle orbite su cui ruotano imondi; l’altro ne è un approssimativo riflesso, comeogni opera umana.

Gli àuguri già da tempo erano certi che l’armonico di-segno del tappeto fosse di fattura divina; in questo sensofu interpretato l’oracolo, senza dar luogo a controversie.Ma nello stesso modo tu puoi trarne la conclusione op-posta: che la vera mappa dell’universo sia la città d’Eu-dossia cosí com’è, una macchia che dilaga senza forma,con vie tutte a zigzag, case che franano una sull’altra nelpolverone, incendi, urla nel buio.

– ... Dunque è davvero un viaggio nella memoria, iltuo! – Il Gran Kan, sempre a orecchie tese, sobbalzavasull’amaca ogni volta che coglieva nel discorso di Marcoun’inflessione sospirosa. – È per smaltire un carico di no-stalgia che sei andato tanto lontano! – esclamava, oppure:– Con la stiva piena di rimpianti fai ritorno dalle tue spe-dizioni! – e soggiungeva, con sarcasmo: – Magri acquisti, adire il vero, per un mercante della Serenissima!

Era questo il punto cui tendevano tutte le domande diKublai sul passato e sul futuro, era da un’ora che ci gioca-va come il gatto col topo, e finalmente metteva Marco allestrette, piombandogli addosso, piantandogli un ginocchiodul petto, afferrandolo per la barba: – Questo volevo sape-

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re da te: confessa cosa contrabbandi: stati d’animo, stati digrazia, elegie!

Frasi e atti forse soltanto pensati, mentre i due, silen-ziosi e immobili, guardavano salire lentamente il fumodelle loro pipe. La nuvola ora si dissolveva su un filo divento, ora restava sospesa a mezz’aria; e la risposta era inquella nuvola. Al soffio che portava via il fumo Marcopensava ai vapori che annebbiano la distesa del mare e lecatene delle montagne e al diradarsi lasciano l’aria secca ediafana svelando città lontane. Era al di là di quello scher-mo d’umori volatili che il suo sguardo voleva giungere: laforma delle cose si distingue meglio in lontananza.

Oppure, la nuvola si fermava appena uscita dalle lab-bra, densa e lenta, e rimandava a un’altra visione: le esala-zioni che ristagnano sui tetti delle metropoli, il fumo opa-co che non si disperde, la cappa di miasmi che pesa sullevie bituminose. Non le labili nebbie della memoria nél’asciutta trasparenza, ma il bruciaticcio delle vite bruciateche forma una crosta sulle città, la spugna gonfia di mate-ria vitale che non scorre piú, l’ingorgo di passato presentefuturo che blocca le esistenze calcificate nell’illusione delmovimento: questo trovavi al termine del viaggio.

VII

KUBLAI:– Non so quando hai avuto il tempo di visita-re tutti i paesi che mi descrivi. A me sembra che tu non tisia mai mosso da questo giardino.

POLO:– Ogni cosa che vedo e faccio prende senso inuno spazio della mente dove regna la stessa calma di qui,la stessa penombra, lo stesso silenzio percorso da fruscii difoglie. Nel momento in cui mi concentro a riflettere, mi ri-trovo sempre in questo giardino, a quest’ora della sera, altuo augusto cospetto, pur seguitando senza un attimo di

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sosta a risalire un fiume verde di coccodrilli o a contare ibarili di pesce salato che calano nella stiva.

KUBLAI:– Neanch’io sono sicuro d’essere qui, a pas-seggiare tra le fontane di porfido, ascoltando l’eco deglizampilli, e non a cavalcare incrostato di sudore e di sanguealla testa del mio esercito, conquistando i paesi che tu do-vrai descrivere, o a mozzare le dita degli assalitori che sca-lano le mura d’una fortezza assediata.

POLO:– Forse questo giardino esiste solo all’ombradelle nostre palpebre abbassate, e mai abbiamo interrotto,tu di sollevare polvere sui campi di battaglia, io di contrat-tare sacchi di pepe in lontani mercati, ma ogni volta chesocchiudiamo gli occhi in mezzo al frastuono e alla calca ciè concesso di ritirarci qui vestiti di chimoni di seta, a con-siderare quello che stiamo vedendo e vivendo, a tirare lesomme, a contemplare di lontano.

KUBLAI:– Forse questo nostro dialogo si sta svolgen-do tra due straccioni soprannominati Kublai Kan e MarcoPolo, che stanno rovistando in uno scarico di spazzatura,ammucchiando rottami arrugginiti, brandelli di stoffa,cartaccia, e ubriachi per pochi sorsi di cattivo vino vedonointorno a loro splendere tutti i tesori dell’Oriente.

POLO:– Forse del mondo è rimasto un terreno vago ri-coperto da immondezzai, e il giardino pensile della reggiadel Gran Kan. Sono le nostre palpebre che li separano, manon si sa quale è dentro e quale è fuori.

Le città gli occhi. 5.

Guadato il fiume, valicato il passo, l’uomo si trova difronte tutt’a un tratto la città di Moriana, con le ported’alabastro trasparenti alla luce del sole, le colonne dicorallo che sostengono i frontoni incrostati di serpenti-na, le ville tutte di vetro come acquari dove nuotano leombre delle danzatrici dalle squame argentate sotto i

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lampadari a forma di medusa. Se non è al suo primoviaggio l’uomo sa già che le città come questa hanno unrovescio: basta percorrere un semicerchio e si avrà in vi-sta la faccia nascosta di Moriana, una distesa di lamieraarrugginita, tela di sacco, assi irte di chiodi, tubi neri difuliggine, mucchi di barattoli, muri ciechi con scrittestinte, telai di sedie spagliate, corde buone solo per im-piccarsi a un trave marcio.

Da una parte all’altra la città sembra continui in pro-spettiva moltiplicando il suo repertorio d’immagini: in-vece non ha spessore, consiste solo in un dritto e in unrovescio, come un foglio di carta, con una figura di quae una di là, che non possono staccarsi né guardarsi.

Le città e il nome. 4.

Clarice, città gloriosa, ha una storia travagliata. Piúvolte decadde e rifiorí, sempre tenendo la prima Claricecome modello ineguagliabile d’ogni splendore, al cuiconfronto lo stato presente della città non manca di su-scitare nuovi sospiri a ogni volgere di stelle.

Nei secoli di degradazione, la città, svuotata dalle pesti-lenze, abbassata di statura dai crolli di travature e corni-cioni e dagli smottamenti di terriccio, arrugginita e intasa-ta per incuria o vacanza degli addetti alla manutenzione, siripopolava lentamente al riemergere da scantinati e taned’orde di sopravvissuti che come topi brulicavano mossidalla smania di rovistare e rodere, e pure di racimolare eraffazzonare, come uccelli che nidificano. S’attaccavano atutto quel che poteva essere tolto di dov’era e messo in unaltro posto per servire a un altro uso: i tendaggi di brocca-to finivano a fare da lenzuola; nelle urne cinerarie di mar-mo piantavano il basilico; le griglie in ferro battuto sradi-cate dalle finestre dei ginecei servivano ad arrostire carnedi gatto su fuochi di legna intarsiata. Messa su coi pezzi

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scompagnati della Clarice inservibile, prendeva forma unaClarice della sopravvivenza, tutta tuguri e catapecchie, ri-gagnoli infetti, gabbie di conigli. Eppure, dell’anticosplendore di Clarice non s’era perso quasi nulla, era tuttolí, disposto solamente in un ordine diverso ma appropria-to alle esigenze degli abitanti non meno di prima.

Ai tempi d’indigenza succedevano epoche piú giulive:una Clarice farfalla suntuosa sgusciava dalla Clarice cri-salide pezzente; la nuova abbondanza faceva traboccarela città di materiali edifici oggetti nuovi; affluiva nuovagente di fuori; niente e nessuno aveva piú a che vederecon la Clarice o le Clarici di prima; e piú la nuova cittàs’insediava trionfalmente nel luogo e nel nome della pri-ma Clarice, piú s’accorgeva d’allontanarsi da quella, didistruggerla non meno rapidamente dei topi e dellamuffa: nonostante l’orgoglio del nuovo fasto, in fondo alcuore si sentiva estranea, incongrua, usurpatrice.

Ecco allora i frantumi del primo splendore che si era-no salvati adattandosi a bisogne piú oscure venivanonuovamente spostati, eccoli custoditi sotto campane divetro, chiusi in bacheche, posati su cuscini di velluto, enon piú perché potevano servire ancora a qualcosa maperché attraverso di loro si sarebbe voluto ricomporreuna città di cui nessuno sapeva piú nulla.

Altri deterioramenti, altri rigogli si susseguirono aClarice. Le popolazioni e le costumanze cambiarono piúvolte; restano il nome, l’ubicazione, e gli oggetti piú dif-ficili da rompere. Ogni nuova Clarice, compatta comeun corpo vivente coi suoi odori e il suo respiro, sfoggiacome un monile quel che resta delle antiche Clariciframmentarie e morte. Non si sa quando i capitelli co-rinzi siano stati in cima alle loro colonne: solo si ricordad’uno d’essi che per molti anni in un pollaio sostenne lacesta dove le galline facevano le uova, e di lí passò alMuseo dei Capitelli, in fila con gli altri esemplari dellacollezione. L’ordine di successione delle ere s’è perso;

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che ci sia stata una prima Clarice è credenza diffusa, manon ci sono prove che lo dimostrino; i capitelli potreb-bero essere stati prima nei pollai che nei templi, le urnedi marmo essere state seminate prima a basilico che aossa di defunti. Di sicuro si sa solo questo: un certo nu-mero d’oggetti si sposta in un certo spazio, ora sommer-so da una quantità d’oggetti nuovi, ora consumandosisenza ricambio; la regola è mescolarli ogni volta e ripro-vare a metterli insieme. Forse Clarice è sempre stata soloun tramestio di carabattole sbrecciate, male assortite,fuori uso.

Le città e i morti. 3.

Non c’è città piú di Eusapia propensa a godere la vitae a sfuggire gli affanni. E perché il salto dalla vita allamorte sia meno brusco, gli abitanti hanno costruito unacopia identica della loro città sottoterra. I cadaveri, sec-cati in modo che ne resti lo scheletro rivestito di pellegialla, vengono portati là sotto a continuare le occupa-zioni di prima. Di queste, sono i momenti spensierati adavere la preferenza: i piú di loro vengono seduti attornoa tavole imbandite, o atteggiati in posizioni di danza onel gesto di suonare trombette. Ma pure tutti i commer-ci e i mestieri dell’Eusapia dei vivi sono all’opera sotto-terra, o almeno quelli cui i vivi hanno adempiuto conpiú soddisfazione che fastidio: l’orologiaio, in mezzo atutti gli orologi fermi della sua bottega, accosta un’orec-chia incartapecorita a una pendola scordata; un barbiereinsapona con il pennello secco l’osso degli zigomi d’unattore mentre questi ripassa la parte scrutando il copio-ne con le occhiaie vuote; una ragazza dal teschio ridentemunge una carcassa di giovenca.

Certo molti sono i vivi che domandano per dopomorti un destino diverso da quello che già toccò loro: la

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necropoli è affollata di cacciatori di leoni, mezzesopra-no, banchieri, violinisti, duchesse, mantenute, generali,piú di quanti mai ne contò città vivente.L’incombenzadi accompagnare giú i morti e sistemarli al posto volutoè affidata a una confraternita di incappucciati. Nessunaltro ha accesso all’Eusapia dei morti e tutto quello chesi sa di laggiú si sa di loro.

Dicono che la stessa confraternita esiste tra i morti eche non manca di dar loro una mano; gli incappucciatidopo morti continueranno nello stesso ufficio anchenell’altra Eusapia; lasciano credere che alcuni di lorosiano già morti e continuino a andare su e giú. Certo,l’autorità di questa congregazione sull’Eusapia dei vivi èmolto estesa.

Dicono che ogni volta che scendono trovano qualcosadi cambiato nell’Eusapia di sotto; i morti apportano in-novazioni alla loro città; non molte, ma certo frutto di ri-flessione ponderata, non di capricci passeggeri. Da unanno all’altro, dicono, l’Eusapia dei morti non si ricono-sce. E i vivi, per non essere da meno, tutto quello che gliincappucciati raccontano delle novità dei morti, voglio-no farlo anche loro. Cosí l’Eusapia dei vivi ha preso acopiare la sua copia sotterranea.

Dicono che questo non è solo adesso che accade: inrealtà sarebbero stati i morti a costruire l’Eusapia di so-pra a somiglianza della loro città. Dicono che nelle duecittà gemelle non ci sia piú modo di sapere quali sono ivivi e quali i morti.

Le città e il cielo. 2.

Si tramanda a Bersabea questa credenza: che sospesain cielo esista un’altra Bersabea, dove si librano le virtú ei sentimenti piú elevati della città, e che se la Bersabeaterrena prenderà a modello quella celeste diventerà una

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cosa sola con essa. L’immagine che la tradizione ne di-vulga è quella d’una città d’oro massiccio, con chiavarded’argento e porte di diamante, una città–gioiello, tuttaintarsi e incastonature, quale un massimo di studio labo-rioso può produrre applicandosi a materie di massimopregio. Fedeli a questa credenza, gli abitanti di Bersabeatengono in onore tutto ciò che evoca loro la città celeste:accumulano metalli nobili e pietre rare, rinunciano agliabbandoni effimeri, elaborano forme di composita com-postezza.

Credono pure, questi abitanti, che un’altra Bersabeaesista sottoterra, ricettacolo di tutto ciò che loro occorredi spregevole e d’ingegno, ed è costante loro cura can-cellare dalla Bersabea emersa ogni legame o somiglianzacon la gemella bassa. Al posto dei tetti ci si immaginache la città infera abbia pattumiere rovesciate, da cuifranano croste di formaggio, carte unte, resche, risciac-quatura di piatti, resti di spaghetti, vecchie bende. Oche addirittura la sua sostanza sia quella oscura e duttilee densa come pece che cala giú per le cloache prolun-gando il percorso delle viscere umane, di nero buco innero buco, fino a spiaccicarsi sull’ultimo fondo sotterra-neo, e che proprio dai pigri boli acciambellati laggiú sielevino giro sopra giro gli edifici d’una città fecale, dalleguglie tortili.

Nelle credenze di Bersabea c’è una parte di vero euna d’errore. Vero è che due proiezioni di se stessa ac-compagnino la città, una celeste e una infernale; ma sul-la loro consistenza ci si sbaglia. L’inferno che cova nelpiú profondo sottosuolo di Bersabea è una città disegna-ta dai piú autorevoli architetti, costruita coi materialipiú cari sul mercato, funzionante in ogni suo congegno eorologeria e ingranaggio, pavesata di nappe e frange efalpalà appesi a tutti i tubi e le bielle.

Intenta ad accumulare i suoi carati di perfezione, Ber-sabea crede virtú ciò che è ormai un cupo invasamento a

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riempire il vaso vuoto di se stessa; non sa che i suoi solimomenti d’abbandono generoso sono quelli dello stac-care da sé, lasciar cadere, spandere. Pure, allo zenit diBersabea gravita un corpo celeste che risplende di tuttoil bene della città, racchiuso nel tesoro delle cose buttatevia: un pianeta sventolante di scorze di patata, ombrellisfondati, calze smesse, sfavillante di cocci di vetro, bot-toni perduti, carte di cioccolatini, lastricato di bigliettidel tram, ritagli d’unghie e di calli, gusci d’uovo. La cittàceleste è questa e nel suo cielo scorrono comete dallalunga coda, emesse a roteare nello spazio dal solo atto li-bero e felice di cui sono capaci gli abitanti di Bersabea,città che solo quando caca non è avara calcolatrice inte-ressata.

Le città continue. 1.

La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mat-tina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si la-va con saponette appena sgusciate dall’involucro, indos-sa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal piú perfezionatofrigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando leultime filastrocche dall’ultimo modello d’apparecchio.

Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica,i resti della Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazza-turaio. Non solo tubi di dentifricio schiacciati, lampadi-ne fulminate, giornali, contenitori, materiali d’imballag-gio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti,servizi di porcellana: piú che dalle cose che ogni giornovengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza diLeonia si misura dalle cose che ogni giorno vengonobuttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chie-de se la vera passione di Leonia sia davvero come dico-no il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttostol’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricor-

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rente impurità. Certo è che gli spazzaturai sono accolticome angeli, e il loro compito di rimuovere i restidell’esistenza di ieri è circondato d’un rispetto silenzio-so, come un rito che ispira devozione, o forse solo per-ché una volta buttata via la roba nessuno vuole piú aver-ci da pensare.

Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturainessuno se lo chiede: fuori della città, certo; ma ogni an-no la città s’espande, e gli immondezzai devono arretra-re piú lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le ca-taste s’innalzano, si stratificano, si dispiegano su unperimetro piú vasto. Aggiungi che piú l’arte di Leoniaeccelle nel fabbricare nuovi materiali, piú la spazzaturamigliora la sua sostanza, resiste al tempo, alle intempe-rie, a fermentazioni e combustioni. E’una fortezza di ri-masugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrastada ogni lato come un acrocoro di montagne.

Il risultato è questo: che piú Leonia espelle roba piúne accumula; le squame del suo passato si saldano inuna corazza che non si può togliere; rinnovandosi ognigiorno la città conserva tutta se stessa nella sola formadefinitiva: quella delle spazzature d’ieri che s’ammuc-chiano sulle spazzature dell’altroieri e di tutti i suoi gior-ni e anni e lustri.

Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe ilmondo, se sullo sterminato immondezzaio non stesseropremendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzaid’altre città, che anch’esse respingono lontano da sémontagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confinidi Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognunocon al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. Iconfini tra le città estranee e nemiche sono bastioni in-fetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vi-cenda, si sovrastano, si mescolano.

Piú ne cresce l’altezza, piú incombe il pericolo dellefrane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico,

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un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una va-langa di scarpe spaiate, calendari d’anni trascorsi, fiorisecchi sommergerà la città nel proprio passato che inva-no tentava di respingere, mescolato con quello dellecittà limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spia-nerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni tracciadella metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle cittàvicine sono pronti coi rulli compressori per spianare ilsuolo, estendersi nel nuovo territorio, ingrandire se stes-se, allontanare i nuovi immondezzai.

POLO:– ... Forse questo giardino affaccia le sue terraz-ze sul lago della nostra mente...

KUBLAI:– ... e per lontano che ci portino le nostre tra-vagliate imprese di condottieri e di mercanti, entrambi cu-stodiamo dentro di noi quest’ombra silenziosa, questaconversazione pausata, questa sera sempre uguale.

POLO: – A meno che non si dia l’ipotesi opposta: chequelli che s’arrabbattano negli accampamenti e nei portiesistano solo perché li pensiamo noi due, chiusi tra questesiepi di bambú, immobili da sempre.

KUBLAI: – Che non esistano la fatica, gli urli, le pia-ghe, il puzzo, ma solo questa pianta d’azalea.

POLO: – Che i portatori, gli spaccapietre, gli spazzini,le cuoche che puliscono le interiora dei polli, le lavandaiechine sulla pietra, le madri di famiglia che rimestano il risoallattando i neonati, esistano solo perché noi li pensiamo.

KUBLAI: – A dire il vero, io non li penso mai.POLO: – Allora non esistono.KUBLAI: – Questa non mi pare una congettura che ci

convenga. Senza di loro mai potremmo restare a dondolar-ci imbozzoliti nelle nostre amache.

POLO: – L’ipotesi è da escludere, allora. Dunque saràvera l’altra: che ci siano loro e non noi.

KUBLAI: – Abbiamo dimostrato che se noi ci fossimo,non ci saremmo.

POLO: – Eccoci qui, difatti.

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VIII

Ai piedi del trono del Gran Kan s’estendeva un pavi-mento di maiolica. Marco Polo, informatore muto, vi scio-rinava il campionario delle mercanzie riportate dai suoiviaggi ai confini dell’impero: un elmo, una conchiglia, unanoce di cocco, un ventaglio. Disponendo in un certo ordi-ne gli oggetti sulle piastrelle bianche e nere e via via spo-standoli con mosse studiate, l’ambasciatore cercava di rap-presentare agli occhi del monarca le vicissitudini del suoviaggio, lo stato dell’impero, le prerogative dei remoti ca-poluoghi.

Kublai era un attento giocatore di scacchi; seguendo igesti di Marco osservava che certi pezzi implicavano oescludevano la vicinanza d’altri pezzi e si spostavano se-condo certe linee. Trascurando la varietà di forme deglioggetti, ne definiva il modo di disporsi gli uni rispetto aglialtri sul pavimento di maiolica. Pensò:”Se ogni città è co-me una partita a scacchi, il giorno in cui arriverò a cono-scerne le regole possiederò finalmente il mio impero, an-che se mai riuscirò a conoscere tutte le città che contiene”.

In fondo, era inutile che Marco per parlargli delle suecittà ricorresse a tante cianfrusaglie: bastava una scacchie-ra coi suoi pezzi dalle forme esattamente classificabili. Aogni pezzo si poteva volta a volta attribuire un significatoappropriato: un cavallo poteva rappresentare tanto un ve-ro cavallo quanto un corteo di carrozze, un esercito inmarcia, un monumento equestre; e una regina poteva es-sere una dama affacciata al balcone, una fontana, unachiesa dalla cupola cuspidata, una pianta di mele cotogne.

Tornando dalla sua ultima missione Marco Polo trov•il Kan che lo attendeva seduto davanti a una scacchiera.Con un gesto lo invitò a sedersi di fronte a lui e a descri-vergli col solo aiuto degli scacchi le città che aveva visita-to. Il veneziano non si perse d’animo. Gli scacchi delGran Kan erano grandi pezzi d’avorio levigato: dispo-

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nendo sulla scacchiera torri incombenti e cavalli ombro-si, addensando sciami di pedine, tracciando viali diritti oobliqui come l’incedere della regina, Marco ricreava leprospettive e gli spazi di città bianche e nere nelle nottidi luna.

Al contemplarne questi paesaggi essenziali, Kublai ri-fletteva sull’ordine invisibile che regge le città, sulle rego-le cui risponde il loro sorgere e prender forma e prosperaree adattarsi alle stagioni e intristire e cadere in rovina. Allevolte gli sembrava d’essere sul punto di scoprire un siste-ma coerente e armonioso che sottostava alle infinitedifformità e disarmonie, ma nessun modello reggeva ilconfronto con quello del gioco degli scacchi. Forse, anzi-ché scervellarsi a evocare col magro ausilio dei pezzi d’avo-rio visioni comunque destinate all’oblio, bastava giocareuna partita secondo le regole, e contemplare ogni successi-vo stato della scacchiera come una delle innumerevoli for-me che il sistema delle forme mette insieme e distrugge.

Ormai Kublai Kan non aveva piú bisogno di mandareMarco Polo in spedizioni lontane: lo tratteneva a giocareinterminabili partite a scacchi. La conoscenza dell’imperoera nascosta nel disegno tracciato dai salti spigolosi delcavallo, dai varchi diagonali che s’aprono alle incursionidell’alfiere, dal passo strascicato e guardingo del re edell’umile pedone, dalle alternative inesorabili d’ognipartita.

Il Gran Kan cercava d’immedesimarsi nel gioco: maadesso era il perché del gioco a sfuggirgli. Il fine d’ognipartita è una vincita o una perdita: ma di cosa? Qual’erala vera posta? Allo scacco matto, sotto il piede del re sbal-zato via dalla mano del vincitore, resta un quadrato nero obianco. A forza di scorporare le sue conquiste per ridurleall’essenza, Kublai era arrivato all’operazione estrema: laconquista definitiva, di cui i multiformi tesori dell’imperonon erano che involucri illusori, si riduceva a un tassellodi legno piallato: il nulla...

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Le città e il nome. 5.

Irene è la città che si vede a sporgersi dal cigliodell’altipiano nell’ora che le luci s’accendono e per l’arialimpida si distingue laggiú in fondo la rosa dell’abitato:dov’è piú densa di finestre, dove si dirada in viottoli ap-pena illuminati, dove ammassa ombre di giardini, doveinnalza torri con i fuochi dei segnali; e se la sera è bru-mosa uno sfumato chiarore si gonfia come una spugnalattigginosa al piede dei calanchi.

I viaggiatori dell’altipiano, i pastori che transumanogli armenti, gli uccellatori che sorvegliano le reti, gli ere-miti che colgono radicchi, tutti guardano in basso e par-lano di Irene. Il vento porta a volte una musica di gran-casse e trombe, lo scoppiettio dei mortaretti nellaluminaria d’una festa; a volte lo sgranare della mitraglia,l’esplosione d’una polveriera nel cielo giallo degli incen-di appiccati dalla guerra civile. Quelli che guardano dilassù fanno congetture su quanto sta accadendo nellacittà, si domandano se sarebbe bello o brutto trovarsi aIrene quella sera. Non che abbiano intenzione d’andarci– e comunque le strade che calano a valle sono cattive –ma Irene calamita sguardi e pensieri di chi sta là in alto.

A questo punto Kublai Kan s’aspetta che Marco parlid’Irene com’è vista da dentro. E Marco non può farlo:quale sia la città che quelli dell’altipiano chiamano Irenenon è riuscito a saperlo; d’altronde poco importa: a ve-derla standoci in mezzo sarebbe un’altra città; Irene èun nome di città da lontano, e se ci si avvicina cambia.

La città per chi passa senza entrarci è una, e un’altra perchi ne è preso e non ne esce; una è la città in cui s’arriva laprima volta, un’altra quella che si lascia per non tornare;ognuna merita un nome diverso; forse di Irene ho già par-lato sotto altri nomi; forse non ho parlato che di Irene.

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Le città e i morti. 4.

Ciò che fa Argia diversa dalle altre città è che inveced’aria ha terra. Le vie sono completamente interrate, lestanze sono piene d’argilla fino al soffitto, sulle scale siposa un’altra scala in negativo, sopra i tetti delle casegravano strati di terreno roccioso come cieli con le nu-vole. Se gli abitanti possono girare per la città allargan-do i cunicoli dei vermi e le fessure in cui s’insinuano leradici non lo sappiamo: l’umidità sfascia i corpi e lascialoro poche forze; conviene che restino fermi e distesi,tanto è buio.

Di Argia, da qua sopra, non si vede nulla; c’è chi dice:“È là sotto” e non resta che crederci; i luoghi sono de-serti. Di notte, accostando l’orecchio al suolo, alle voltesi sente una porta che sbatte.

Le città e il cielo. 3.

Chi arriva a Tecla, poco vede della città, dietro glisteccati di tavole, i ripari di tela di sacco, le impalcature,le armature metalliche, i ponti di legno sospesi a funi osostenuti da cavalletti, le scale a pioli, i tralicci. Alla do-manda: – Perché la costruzione di Tecla continua cosí alungo? – gli abitanti senza smettere d’issare secchi, dicalare fili a piombo, di muovere in su e giù lunghi pen-nelli. – Perché non cominci la distruzione, – rispondo-no. E richiesti se temono che appena tolte le impalcatu-re la città cominci a sgretolarsi e a andare in pezzi,soggiungono in fretta, sottovoce: – Non soltanto la città.

Se, insoddisfatto delle risposte, qualcuno applica l’oc-chio alla fessura d’una staccionata, vede gru che tiranosu altre gru, incastellature che rivestono altre incastella-ture, travi che puntellano altre travi. – Che senso ha ilvostro costruire? – domanda. – Qual è il fine d’una città

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in costruzione se non una città? Dov’è il piano che se-guite, il progetto?

– Te lo mostreremo appena terminata la giornata; oranon possiamo interrompere, – rispondono.

Il lavoro cessa al tramonto. Scende la notte sul cantie-re. È una notte stellata. – Ecco il progetto, – dicono.

Le città continue. 2.

Se toccando terra a Trude non avessi letto il nomedella città scritto a grandi lettere, avrei creduto d’esserearrivato allo stesso aeroporto da cui ero partito. I sob-borghi che mi fecero attraversare non erano diversi daquegli altri, con le stesse case gialline e verdoline. Se-guendo le stesse frecce si girava le stesse aiole delle stes-se piazze. Le vie del centro mettevano in mostra mer-canzie imballaggi insegne che non cambiavano in nulla.Era la prima volta che venivo a Trude, ma conoscevo giàl’albergo in cui mi capitò di scendere; avevo già sentito edetto i miei dialoghi con compratori e venditori di ferra-glia; altre giornate uguali a quella erano finite guardan-do attraverso gli stessi bicchieri gli stessi ombelichi cheondeggiavano.

Perché venire a Trude? mi chiedevo. E già volevo ri-partire.

– Puoi riprendere il volo quando vuoi, – mi dissero, –ma arriverai a un’altra Trude, uguale punto per punto, ilmondo è ricoperto da un’unica Trude che non cominciae non finisce, cambia solo il nome all’aereoporto.

Le città nascoste. 1.

A Olinda, chi ci va con una lente e cerca con attenzio-ne può trovare da qualche parte un punto non piú gran-

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de d’una capocchia di spillo che a guardarlo un po’ in-grandito ci si vede dentro i tetti le antenne i lucernari igiardini le vasche, gli striscioni attraverso le vie, i chio-schi nelle piazze, il campo per le corse dei cavalli. Quelpunto non resta lí: dopo un anno lo si trova grande co-me un mezzo limone, poi come un fungo porcino, poicome un piatto da minestra. Ed ecco che diventa unacittà grandezza naturale, racchiusa dentro la città di pri-ma: una nuova città che si fa largo in mezzo alla città diprima e la spinge verso il fuori.

Olinda non è certo la sola città a crescere in cerchiconcentrici, come i tronchi degli alberi che ogni annoaumentano d’un giro. Ma alle altre città resta nel mezzola vecchia cerchia delle mura stretta stretta, da cui spun-tano rinsecchiti i campanili le torri i tetti d’embrici le cu-pole, mentre i quartieri nuovi si spanciano intorno comeda una cintura che si slaccia. A Olinda no: le vecchiemura si dilatano portandosi con sé i quartieri antichi, in-granditi mantenendo le proporzioni su un piú largoorizzonte ai confini della città; essi circondano i quartie-ri un po’ meno vecchi, pure cresciuti di perimetro e as-sottigliati per far posto a quelli piú recenti che premonoda dentro; e cosí via fino al cuore della città: un’Olindatutta nuova che nelle sue dimensioni ridotte conserva itratti e il flusso di linfa della prima Olinda e di tutte leOlinde che sono spuntate una dall’altra; e dentro a que-sto cerchio piú interno già spuntano – ma è difficile di-stinguerle – l’Olinda ventura e quelle che cresceranno inseguito.

... Il Gran Kan cercava d’immedesimarsi nel gioco: maadesso era il perché del gioco a sfuggirgli. Il fine d’ognipartita è una vincita o una perdita: ma di cosa? Qual erala vera posta? Allo scacco matto, sotto il piede del re sbal-zato via dalla mano del vincitore, resta il nulla: un qua-drato nero o bianco. A forza di scorporare le sue conquisteper ridurle all’essenza, Kublai era arrivato all’operazione

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estrema: la conquista definitiva, di cui i multiformi tesoridell’impero non erano che involucri illusori, si riduceva aun tassello di legno piallato.

Allora Marco Polo parlò: – La tua scacchiera, sire, è unintarsio di due legni: ebano e acero. Il tassello sul quale sifissa il tuo sguardo illuminato fu tagliato in uno strato deltronco che crebbe in un anno di siccità: vedi come si di-spongono le fibre? Qui si scorge un nodo appena accenna-to: una gemma tentò di spuntare in un giorno di primave-ra precoce, ma la brina della notte l’obbligò a desistere –.Il Gran Kan non s’era fin’allora reso conto che lo stranie-ro sapesse esprimersi fluentemente nella sua lingua, manon era questo a stupirlo. – Ecco un poro piú grosso: forseè stato il nido d’una larva; non d’un tarlo, perché appenanato avrebbe continuato a scavare, ma d’un bruco che ro-sicchiò le foglie e fu la causa per cui l’albero fu scelto peressere abbattuto... Questo margine fu inciso dall’ebanistacon la sgorbia perché aderisse al quadrato vicino, piú spor-gente...

La quantità di cose che si potevano leggere in un pez-zetto di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai; già Poloera venuto a parlare dei boschi d’ebano, delle zattere ditronchi che discendono i fiumi, degli approdi, delle donnealle finestre...

IX

Il Gran Kan possiede un atlante dove tutte le cittàdell’impero e dei reami circonvicini sono disegnate palaz-zo per palazzo e strada per strada, con le mura, i fiumi, iponti, i porti, le scogliere. Sa che dai resoconti di MarcoPolo è inutile aspettarsi notizie di quei luoghi che del re-sto ben conosce: come a Cambaluc, capitale della China,tre città quadrate stiano l’una dentro l’altra, con quattrotempli ognuna e quattro porte che s’aprono seguendo le

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stagioni; come all’isola di Giava infuri il rinoceronte allacarica col corno micidiale; come si peschino le perle in fon-do al mare sulle coste di Maabar.

Kublai domanda a Marco: – Quando ritornerai al Po-nente, ripeterai alla tua gente gli stessi racconti che fai ame? – Io parlo parlo, – dice Marco, – ma chi m’ascolta ri-tiene solo le parole che aspetta. Altra è la descrizione delmondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che faràil giro dei capannelli di scaricatori e gondolieri sulle fon-damenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancoraquella che potrei dettare in tarda età, se venissi fatto pri-gioniero da pirati genovesi e messo in ceppi nella stessacella con uno scrivano di romanzi d’avventura. Chi co-manda al racconto non è la voce: è l’orecchio. – Alle voltemi pare che la tua voce mi giunga da lontano, mentre sonoprigioniero d’un presente vistoso e invivibile, in cui tuttele forme di convivenza umana sono giunte a un estremodel loro ciclo e non si può immaginare quali nuove formeprenderanno. E ascolto dalla tua voce le ragioni invisibilidi cui le città vivevano, e per cui forse, dopo morte, rivi-vranno.

Il Gran Kan possiede un atlante i cui disegni figuranol’orbe terracqueo tutt’insieme e continente per continen-te, i confini dei regni piú lontani, le rotte delle navi, i con-torni delle coste, le mappe delle metropoli piú illustri e deiporti piú opulenti. Ne sfoglia le carte sotto gli occhi diMarco Polo per metter alla prova il suo sapere. Il viaggia-tore riconosce Costantinopoli nella città che incorona datre rive un lungo stretto, un golfo sottile e un mare chiuso;ricorda che Gerusalem sovra duo colli è posta, d’impari al-tezza, e volti fronte a fronte; non esita nell’indicare Sa-marcanda e i suoi giardini.

Per altre città fa ricorso a descrizioni tramandate dibocca in bocca, o tira a indovinare basandosi su scarsi in-dizi: cosí Granada, iridata perla dei Califfi, Lubecca lindoporto boreale, Timbuctú che nereggia d’ebano e biancheg-

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gia d’avorio, Parigi dove milioni d’uomini rincasano ognigiorno impugnando un filone di pane. In miniature colo-rate l’atlante raffigura luoghi abitati di forma insolita:un’oasi nascosta in una piega del deserto da cui spuntanosolo le cime delle palme è di sicuro Nefta; un castello trale sabbie mobili e le mucche che brucano prati salati dallemaree non può non ricordare il Monte San Michele; e nonpuò essere che Urbino un palazzo che anziché sorgere en-tro le mura d’una città contiene una città tra le sue mura.

L’atlante raffigura anche città di cui né Marco né i geo-grafi sanno se ci sono e dove sono, ma che non potevanomancare tra le forme di città possibili: una Cuzco a piantaraggiata e multipartita che riflette l’ordine perfetto degliscambi, una Messico verdeggiante sul lago dominato dallareggia di Moctezuma, una Novgorod con le cupole a bul-bo, una Lhassa che solleva bianchi tetti sopra il tetto nu-voloso del mondo. Anche per queste Marco dice un nome,non importa quale, e accenna a un itinerario per andarci.Si sa che i nomi dei luoghi cambiano tante volte quantesono le lingue forestiere; e che ogni luogo può essere rag-giunto da altri luoghi, per le strade e le rotte piú diverse,da chi cavalca carreggia rema vola.

– Mi sembra che tu riconosci meglio le città sull’atlanteche a visitarle di persona, – dice a Marco l’imperatore ri-chiudendo il libro di scatto.

E Polo: – Viaggiando ci s’accorge che le differenze siperdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghisi scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo infor-me invade i continenti. Il tuo atlante custodice intatte ledifferenze: quell’assortimento di qualità che sono come lelettere del nome.

Il Gran Kan possiede un atlante in cui sono raccolte lemappe di tutte le città: quelle che elevano le loro mura susalde fondamenta, quelle che caddero in rovina e furonoinghiottite dalla sabbia, quelle che esisteranno un giorno eal cui posto ancora non s’aprono che le tane delle lepri.

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Marco Polo sfoglia le carte, riconosce Gerico, Ur, Car-tagine, indica gli approdi alla foce dello Scamandro dovele navi achee per dieci anni attesero il reimbarco degli as-sedianti, fino a che il cavallo inchiavardato da Ulisse nonfu trainato a forza d’argani per le porte Scee. Ma parlandodi Troia, gli veniva d’attribuirle la forma di Costantinopo-li e prevedere l’assedio con cui per lunghi mesi la stringe-rebbe Maometto, che astuto come Ulisse avrebbe fattotrainare le navi nottetempo su per i torrenti, dal Bosforoal Corno d’Oro, aggirando Pera e Galata. E dalla mesco-lanza di quelle due città ne risultava una terza, che potreb-be chiamarsi San Francisco e protendere ponti lunghissimisul Cancello d’Oro e sulla baia, e arrampicare tramvai acremagliera per vie tutte in salita, e fiorire come capitaledel Pacifico di lí a un millennio, dopo il lungo assedio ditrecento anni che porterebbe le razze dei gialli e dei neri edei rossi a fondersi insieme alla superstite progenie deibianchi in un impero piú vasto di quello del Gran Kan.

L’atlante ha queste qualità: rivela la forma delle cittàche ancora non hanno una forma né un nome. C’è la cittàa forma di Amsterdam, semicerchio rivolto a settentrione,coi canali concentrici: dei Principi, dell’Imperatore, dei Si-gnori; c’è la città a forma di York, incassata tra le alte bru-ghiere, murata, irta di torri; c’è la città a forma di NuovaAmsterdam detta anche Nuova York, stipata di torri divetro e acciaio su un’isola oblunga tra due fiumi, con levie come profondi canali tutti diritti tranne Brodway.

Il catalogo delle forme è sterminato: finché ogni formanon avrà trovato la sua città, nuove città continueranno anascere. Dove le forme esauriscono le loro variazioni e sidisfano, comincia la fine delle città. Nelle ultime cartedell’atlante si diluivano reticoli senza principio né fine,città a forma di Los Angeles, a forma di Kyoto–Osaka,senza forma.

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Le città e i morti. 5.

Ogni città, come Laudomia, ha al suo fianco un’altracittà i cui abitanti si chiamano con gli stessi nomi: è laLaudomia dei morti, il cimitero. Ma la speciale dote diLudomia è d’essere, oltre che doppia, tripla, cioè dicomprendere una terza Ludomia che è quella dei nonnati.

Le proprietà della città doppia sono note. Piú la Lau-domia dei vivi s’affolla e si dilata, piú cresce la distesadelle tombe fuori dalle mura. Le vie della Laudomia deimorti sono larghe appena quanto basta perché vi giri ilcarro del becchino, e vi s’affacciano edifici senza fine-stre; ma il tracciato delle vie e l’ordine delle dimore ripe-te quello della Laudomia viva, e come in essa le famigliestanno sempre piú pigiate, in fitti loculi sovrapposti. Neipomeriggi di bel tempo la popolazione vivente rende vi-sita ai morti e decifra i propri nomi sulle loro lastre dipietra: a somiglianza della città dei vivi questa comunicauna storia di fatiche, arrabbiature, illusioni, sentimenti;solo che qui tutto è diventato necessario, sottratto al ca-so, incasellato, messo in ordine. E per sentirsi sicura laLaudomia viva ha bisogno di cercare nella Laudomiadei morti la spiegazione di se stessa, anche a rischio ditrovarvi di piú o di meno: spiegazioni per piú d’unaLaudomia, per città diverse che potevano essere e nonsono state, o ragioni parziali, contraddittorie, delusive.

Giustamente Laudomia assegna una residenza altret-tanto vasta a coloro che ancora devono nascere; certo lospazio non è in proporzione al loro numero che si sup-pone sterminato, ma essendo un luogo vuoto, circonda-to da un’architettura tutta nicchie e rientranze e scanala-ture, e potendosi attribuire ai non nati la dimensioneche si vuole, pensarli grandi come topi o come bachi daseta o come formiche o uova di formica, nulla vietad’immaginarli ritti o accoccolati su ogni aggetto o men-

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sola che sporge dalle pareti, su ogni capitello o plinto, infila oppure sparpagliati, intenti alle incombenze delle lo-ro vite future, e contemplare in una sbavatura del mar-mo l’intera Laudomia di qui a cento o mille anni, gremi-ta di moltitudini vestite in fogge mai viste, tutti peresempio in barracano color melanzana, o tutti con piu-me di tacchino sul turbante, e riconoscervi i discendentipropri e quelli delle famiglie alleate e nemiche, dei debi-tori e creditori, che vanno e vengono perpetuando i traf-fici, le vendette, i fidanzamenti d’amore o d’interesse. Iviventi di Laudomia frequentano la casa dei non nati in-terrogandoli; i passi risuonano sotto le volte vuote; ledomande si formulano in silenzio: ed è sempre di sé chechiedono i vivi, e non di quelli che verranno; chi sipreoccupa di lasciare illustre memoria di sé, chi di fardimenticare le sue vergogne; tutti vorrebbero seguire ilfilo delle conseguenze dei propri atti; ma piú aguzzanolo sguardo, meno riconoscono una traccia continua; inascituri di Laudomia appaiono puntiformi come gra-nelli di polvere, staccati dal prima e dal poi.

La Laudomia dei non nati non trasmette, come quelladei morti, una qualche sicurezza agli abitanti della Lau-domia viva, ma solo sgomento. Ai pensieri dei visitatorifiniscono per aprirsi due strade, e non si sa quale riserbipiú angoscia: o si pensa che il numero dei nascituri su-peri di gran lunga quello di tutti i vivi e tutti i morti, e al-lora in ogni poro della pietra s’accalcano folle invisibili,stipate sulle pendici dell’imbuto come sulle gradinated’uno stadio, e poiché a ogni generazione la discenden-za di Laudomia si moltiplica, in ogni imbuto s’apronocentinaia d’imbuti ognuno con milioni di persone chedevono nascere e protendono i colli e aprono la boccaper non soffocare; oppure si pensa che anche Laudomiascomparirà, non si sa quando, e tutti i suoi cittadini conlei, cioè le generazioni si succederanno fino a raggiunge-re una cifra e non andranno piú in la, e allora la Laudo-

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mia dei morti e quella dei non nati sono come le dueampolle d’una clessidra che non si rovescia, ogni passag-gio tra la nascita e la morte è un granello di sabbia cheattraversa la strozzatura, e ci sarà un ultimo abitante diLaudomia a nascere, un ultimo granello a cadere che oraè qui che aspetta in cima al mucchio.

Le città e il cielo. 4.

Chiamati a dettare le norme per la fondazione di Pe-rinzia gli astronomi stabilirono il luogo e il giorno secon-do la posizione delle stelle, tracciarono le linee incrocia-te del decumano e del cardo orientate l’una come ilcorso del sole e l’altra come l’asse attorno a cui ruotano icieli, divisero la mappa secondo le dodici case dello zo-diaco in modo che ogni tempio e ogni quartiere riceves-se il giusto influsso dalle costellazioni opportune, fissa-rono il punto delle mura in cui aprire le porteprevedendo che ognuna inquadrasse un’eclisse di lunanei prossimi mille anni. Perinzia – assicurarono – avreb-be rispecchiato l’armonia del firmamento; la ragionedella natura e la grazia degli dei avrebbero dato forma aidestini degli abitanti.

Seguendo con esattezza i calcoli degli astronomi, Pe-rinzia fu edificata; genti diverse vennero a popolarla; laprima generazione dei nati a Perinzia prese a cresceretra le sue mura; e questi alla loro volta raggiunsero l’etàdi sposarsi e avere figli.

Nelle vie e piazze di Perinzia oggi incontri storpi, na-ni, gobbi, obesi, donne con la barba. Ma il peggio non sivede; urli gutturali si levano dalle cantine e dai granai,dove le famiglie nascondono i figli con tre teste o con seigambe.

Gli astronomi di Perinzia si trovano di fronte a unadifficile scelta: o ammettere che tutti i loro calcoli sono

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sbagliati e le loro cifre non riescono a descrivere il cielo,o rivelare che l’ordine degli dei è proprio quello che sirispecchia nella città dei mostri.

Le città continue. 3.

Ogni anno nei miei viaggi faccio sosta a Procopia eprendo alloggio nella stessa stanza della stessa locanda.Fin dalla prima volta mi sono soffermato a contemplareil paesaggio che si vede spostando la tendina della fine-stra: un fosso, un ponte, un muretto, un albero di sorbo,un campo di pannocchie, un roveto con le more, un pol-laio, un dosso di collina giallo, una nuvola bianca, unpezzo di cielo azzurro a forma di trapezio. Sono sicuroche la prima volta non si vedeva nessuno; è stato solol’anno dopo che, a un movimento tra le foglie, ho potu-to distinguere una faccia tonda e piatta che rosicchiavauna pannocchia. Dopo un anno erano in tre sul muretto,e al mio ritorno ce ne vidi sei, seduti in fila, con le manisui ginocchi e qualche sorba in un piatto. Ogni anno,appena entrato nella stanza, alzavo la tendina e contavoalcune facce in piú: sedici, compresi quelli giù nel fosso;ventinove,di cui otto appollaiati sul sorbo; quarantasettesenza contare quelli nel pollaio. Si somigliano, sembra-no gentili, hanno lentiggini sulle guance, sorridono,qualcuno con la bocca sporca di more. Presto vidi tuttoil ponte pieno di tipi dalla faccia tonda, accoccolati per-ché non avevano piú posto per muoversi; sgranocchia-vano le pannocchie, poi rodevano i torsoli.

Cosí, un anno dopo l’altro ho visto sparire il fosso,l’albero , il roveto, nascosti da siepi di sorrisi tranquilli,tra le guance tonde che si muovono masticando foglie.Non si ha idea, in uno spazio ristretto come quel campi-cello di granturco, quanta gente ci può stare, specie semessi seduti con le braccia intorno ai ginocchi, fermi.

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Devono essercene molti di piú di quanto sembra: il dos-so della collina l’ho visto coprirsi d’una folla sempre piúfitta; ma da quando quelli sul ponte hanno preso l’abitu-dine di stare a cavalcioni l’uno sulle spalle dell’altro nonriesco piú a spingere lo sguardo tanto in là.

Quest’anno, infine, a alzare la tendina, la finestra in-quadra solo una distesa di facce: da un angolo all’altro, atutti i livelli e a tutte le distanze, si vedono questi visitondi, fermi, piatti piatti, con un accenno di sorriso, e inmezzo molte mani, che si tengono alle spalle di quelliche stanno davanti. Anche il cielo è sparito. Tanto valeche mi allontani dalla finestra.

Non che i movimenti mi siano facili. Nella mia stanzasiamo alloggiati in ventisei: per spostare i piedi devo di-sturbare quelli che stanno accoccolati sul pavimento, mifaccio largo tra i ginocchi di quelli seduti sul cassettonee i gomiti di quelli che si dànno il turno per appoggiarsial letto: tutte persone gentili, per fortuna.

Le città nascoste. 2.

Non è felice, la vita a Raissa. Per le strade la gentecammina torcendosi le mani, impreca ai bambini chepiangono, s’appoggia ai parapetti del fiume con le tem-pie tra i pugni, alla mattina si sveglia da un brutto sognoe ne comincia un altro. Tra i banconi dove ci si schiacciatutti i momenti le dita col martello o ci si punge conl’ago, o sulle colonne di numeri tutti storti nei registridei negozianti e dei banchieri, o davanti alle file di bic-chieri vuoti sullo zinco delle bettole, meno male che leteste chine ti risparmiano dagli sguardi torvi. Dentro lecase è peggio, e non occorre entrarci per saperlo: d’esta-te le finestre rintronano di litigi e piatti rotti.

Eppure, a Raissa, a ogni momento c’è un bambinoche da una finestra ride a un cane che è saltato su una

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tettoia per mordere un pezzo di polenta caduto a unmuratore che dall’ alto dell’impalcatura ha esclamato: –Gioia mia, lasciami intingere! – a una giovane ostessache solleva un piatto di ragú sotto la pergola, contentadi servirlo all’ombrellaio che festeggia un buon affare,un parasole di pizzo bianco comprato da una gran damaper pavoneggiarsi alle corse, innamorata d’un ufficialeche le ha sorriso nel saltare l’ultima siepe, felice lui mapiú felice ancora il suo cavallo che volava sugli ostacolivedendo volare in cielo un francolino, felice uccello li-berato dalla gabbia da un pittore felice d’averlo dipintopiuma per piuma picchiettato di rosso e di giallo nellaminiatura di quella pagina del libro in cui il filosofo di-ce: “Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibileche allaccia un essere vivente a un altro per un attimo esi disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento di-segnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondola città infelice contiene una città felice che nemmeno sad’esistere”.

Le città e il cielo. 5.

Con tale arte fu costruita Andria, che ogni sua viacorre seguendo l’orbita d’un pianeta e gli edifici e i luo-ghi della vita in comune ripetono l’ordine delle costella-zioni e la posizione degli astri piú luminosi: Antares,Alpheratz, Capella, le Cefeidi. Il calendario della città èregolato in modo che lavori e uffici e cerimonie si di-spongono in una mappa che corrisponde al firmamentoin quella data: cosí i giorni in terra e le notti in cielo si ri-specchiano.

Pur attraverso una regolamentazione minuziosa, la vi-ta della città scorre calma come il moto dei corpi celestie acquista la necessità dei fenomeni non sottopostiall’arbitrio umano. Ai cittadini d’Andria, lodandone le

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produzioni industriose e l’agio dello spirito, m’indussi adichiarare: – Bene comprendo come voi, sentendoviparte d’un cielo immutabile, ingranaggi d’una meticolo-sa orologeria, vi guardiate dall’apportare alla vostra cittàe ai vostri costumi il piú lieve cambiamento. Andria è lasola città che io conosca cui convenga restare immobilenel tempo.

Si guardarono interdetti. – Ma perché mai? E chi l’hadetto? – E mi condussero a visitare una via pensile apertadi recente sopra un bosco di bambú, un teatro delle om-bre in costruzione al posto del canile municipale, ora tra-slocato nei padiglioni dell’ antico lazzaretto, abolito perla guarigione degli ultimi appestati, e – appena inaugura-ti – un porto fluviale, un statua di Talete, un toboga.

– E queste innovazioni non turbano il ritmo astraledella vostra città? – domandai.

– Cosí perfetta è la corrispondenza tra la nostra città eil cielo, – risposero, – che ogni cambiamento d’Andriacomporta qualche novità tra le stelle –. Gli astronomiscrutano coi telescopi dopo ogni mutamento che ha luo-go in Andria, e segnalano l’esplosione d’una nova, o ilpassare dall’arancione al giallo d’un remoto punto delfirmamento, l’espandersi di una nebula, il curvarsi d’unaspira della via lattea. Ogni cambiamento implica una ca-tena d’altri cambiamenti, in Andria come tra le stelle: lacittà e il cielo non restano mai uguali.

Del carattere degli abitanti d’Andria meritano di esse-re ricordate due virtú: la sicurezza in se stessi e la pru-denza. Convinti che ogni innovazione nella città influiscasul disegno del cielo, prima d’ogni decisione calcolano irischi e i vantaggi per loro e per l’insieme delle città e deimondi.

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Le città continue. 4.

Tu mi rimproveri perché ogni mio racconto ti tra-sporta nel bel mezzo d’una città senza dirti dello spazioche s’estende tra una città e l’altra: se lo coprano mari,campi di segale, foreste di larici, paludi. Ti risponderòcon un racconto.

Per le vie di Cecilia, città illustre, incontrai una voltaun capraio che spingeva rasente i muri un armentoscampanante.

– Uomo benedetto dal cielo, – si fermò a chiedermi, –sai dirmi il nome della città in cui ci troviamo?

– Che gli dei t’accompagnino! – esclamai. – Comepuoi non riconoscere la molto illustre città di Cecilia?

– Compatiscimi, – rispose quello, – sono un pastorein transumanza. Tocca alle volte a me e alle capre di tra-versare città; ma non sappiamo distinguerle. Chiedimi ilnome dei pascoli: li conosco tutti, il Prato tra le Rocce, ilPendio Verde, l’Erba in Ombra. Le città per me nonhanno nome: sono luoghi senza foglie che separano unpascolo dall’altro, e dove le capre si spaventano ai croce-via e si sbandano. Io e il cane corriamo per tenere com-patto l’armento.

– Al contrario di te, – affermai, – io riconosco solo lecittà e non distinguo ciò che è fuori. Nei luoghi disabita-ti ogni pietra e ogni erba si confonde ai miei occhi conogni pietra ed erba.

Molti anni sono passati da allora; io ho conosciutomolte città ancora e ho percorso continenti. Un giornocamminavo tra angoli di case tutte uguali: mi ero perso.Chiesi a un passante:– Che gli immortali ti proteggano,sai dirmi dove ci troviamo?

– A Cecilia, cosí non fosse! – mi rispose. – Da tantocamminiamo per le sue vie, io e le capre, e non s’arriva auscirne...

Lo riconobbi, nonostante la lunga barba bianca: era il

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pastore di quella volta. Lo seguivano poche capre spela-te, che neppure piú puzzavano, tanto erano ridotte pellee ossa. Brucavano cartaccia nei bidoni dei rifiuti.

– Non può essere! – gridai. – Anch’io, non so daquando, sono entrato in una città e da allora ho conti-nuato ad addentrarmi per le sue vie. Ma come ho fattoad arrivare dove tu dici, se mi trovavo in un’altra città,lontanissima da Cecilia, e non ne sono ancora uscito?

– I luoghi si sono mescolati, – disse il capraio, – Ceci-lia è dappertutto; qui una volta doveva esserci il Pratodella Salvia Bassa. Le mie capre riconoscono le erbe del-lo spartitraffico.

Le città nascoste. 3.

Una Sibilla, interrogata sul destino di Marozia, disse:– Vedo due città: una del topo, una della rondine.

L’oracolo fu interpretato cosí: oggi Marozia è unacittà dove tutti corrono in cunicoli di piombo comebranchi di topi che si strappano di sotto i denti gli avan-zi caduti dai denti dei topi piú minacciosi; ma sta per co-minciare un nuovo secolo in cui tutti a Marozia voleran-no come le rondini nel cielo d’estate, chiamandosi comein un gioco, esibendosi in volteggi ad ali ferme, sgom-brando l’aria da zanzare e moscerini.

– È tempo che il secolo del topo abbia termine e co-minci quello della rondine, – dissero i piú risoluti. E difatto già sotto il torvo e gretto predominio topesco sisentiva, tra la gente meno in vista, covare uno slancio darondini, che puntano verso l’aria trasparente con un agi-le colpo di coda e disegnano con la lama delle ali la cur-va d’un orizzonte che s’allarga.

Sono tornato a Marozia dopo anni; la profezia dellaSibilla si considera avverata da tempo; il vecchio secoloè sepolto; il nuovo è al culmine. La città certo è cambia-

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ta, e forse in meglio. Ma le ali che ho visto in giro sonoquelle d’ombrelli diffidenti sotto i quali palpebre pesan-ti s’abbassano sugli sguardi; gente che crede di volare cen’è, ma è tanto se si sollevano dal suolo sventolando pa-landrane da pipistrello.

Succede pure che, rasentando i compatti muri di Ma-rozia, quando meno t’aspetti vedi aprirsi uno spiraglio eapparire una città diversa, che dopo un istante è già spa-rita. Forse tutto sta a sapere quali parole pronunciare,quali gesti compiere, e in quale ordine e ritmo, oppurebasta lo sguardo la risposta il cenno di qualcuno, bastache qualcuno faccia qualcosa per il solo piacere di farla,e perché il suo piacere diventi piacere altrui: in quel mo-mento tutti gli spazi cambiano, le altezze, le distanze, lacittà si trasfigura, diventa cristallina, trasparente comeuna libellula. Ma bisogna che tutto capiti come per caso,senza dargli troppa importanza, senza la pretesa di starcompiendo una operazione decisiva, tenendo ben pre-sente che da un momento all’altro la Marozia di primatornerà a saldare il suo soffitto di pietra ragnatele e muf-fa sulle teste.

L’oracolo sbagliava? Non è detto. Io lo interpreto inquesto modo: Marozia consiste di due città: quella deltopo e quella della rondine; entrambe cambiano neltempo; ma non cambia il loro rapporto: la seconda èquella che sta per sprigionarsi dalla prima.

Le città continue. 5.

Per parlarti di Pentesilea dovrei cominciare a descri-verti l’ingresso nella città. Tu certo immagini di vederelevarsi dalla pianura polverosa una cinta di mura, d’avvi-cinarti passo passo alla porta, sorvegliata dai gabellieriche già guatano storto ai tuoi fagotti. Fino a che nonl’hai raggiunta ne sei fuori; passi sotto un archivolto e ti

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ritrovi dentro la città; il suo spessore compatto ti circon-da; intagliato nella sua pietra c’è un disegno che ti si ri-velerà se ne segui il tracciato tutto spigoli.

Se credi questo, sbagli: a Pentesilea è diverso. Sono oreche avanzi e non ti è chiaro se sei già in mezzo alla città oancora fuori. Come un lago dalle rive basse che si perde inacquitrini, cosí Pentesilea si spande per miglia intorno inuna zuppa di città diluita nella pianura: casamenti pallidiche si dànno le spalle in prati ispidi, tra steccati di tavole etettoie di lamiera. Ogni tanto ai margini della strada un in-fittirsi di costruzioni dalle magre facciate, alte alte o bassebasse come in un pettine sdentato, sembra indicare che dilà in poi le maglie della città si restringono. Invece tu prose-gui e ritrovi altri terreni vaghi, poi un sobborgo arruginitod’officine e depositi, un cimitero, una fiera con le giostre,un mattatoio, ti inoltri per una via di botteghe macilenteche si perde tra chiazze di campagna spelacchiata.

La gente che s’incontra, se gli chiedi: – Per Pentesi-lea? – fanno un gesto intorno che non sai se voglia dire:“Qui”, oppure: “Piú in là”, o: “Tutt’in giro”, o ancora:“Dalla parte opposta”.

– La città, – insisti a chiedere.– Noi veniamo qui a lavorare tutte le mattine, – ti ri-

spondono alcuni, e altri: – Noi torniamo qui a dormire.– Ma la città dove si vive? – chiedi.– Dev’essere, – dicono, – per lí, – e alcuni levano il

braccio obliquamente verso una concrezione di poliedriopachi, all’orizzonte, mentre altri indicano alle tue spal-le lo spettro d’altre cuspidi.

– Allora l’ho oltrepassata senza accorgermene?– No, prova a andare ancora avanti.Cosí prosegui, passando da una periferia all’altra, e

viene l’ora di partire da Pentesilea. Chiedi la strada peruscire dalla città; ripercorri la sfilza dei sobborghi spar-pagliati come un pigmento lattiginoso; viene notte; s’il-luminano le finestre ora piú rade ora piú dense.

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Se nascosta in qualche sacca o ruga di questo slabbra-to circondario esista una Pentesilea riconoscibile e ricor-dabile da chi c’è stato, oppure se Pentesilea è solo peri-feria di se stessa e ha il suo centro in ogni luogo, hairinunciato a capirlo. La domanda che adesso comincia arodere nella tua testa è piú angosciosa: fuori da Pentesi-lea esiste un fuori? O per quanto ti allontani dalla cittànon fai che passare da un limbo all’altro e non arrivi auscirne?

Le città nascoste. 4.

Invasioni ricorrenti travagliarono la città di Teodoranei secoli della sua storia; a ogni nemico sgominatoun’altro prendeva forza e minacciava la sopravvivenzadegli abitanti. Sgombrato il cielo dai condor si dovettefronteggiare la crescita dei serpenti; lo sterminio dei ra-gni lasciò le mosche moltiplicarsi e nereggiare; la vittoriasulle termiti consegnò la città in balia dei tarli. A una auna le specie inconciliabili con la città dovettero soc-combere e si estinsero. A furia di sbranare scaglie e cara-paci, di svellere elitre e penne, gli uomini diedero a Teo-dora l’esclusiva immagine di città umana che ancora ladistingue.

Ma prima, per lunghi anni, restò incerto se la vittoriafinale non sarebbe stata dell’ultima specie rimasta a con-tendere agli uomini il possesso della città: i topi. D’ognigenerazione di roditori che gli uomini riuscivano a stermi-nare, i pochi sopravvissuti davano luce a una progenie piúagguerrita, invulnerabile dalle trappole e refrattaria a ogniveleno. Nel giro di poche settimane, i sotterranei di Teo-dora si ripopolavano d’orde di ratti dilaganti. Finalmente,con un’estrema ecatombe, l’ingegno micidiale e versatiledegli uomini l’ebbe vinta sulle soverchianti attitudini vita-li dei nemici.

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La città, grande cimitero del regno animale, si richiu-se asettica sulle ultime carogne seppellite con le ultimeloro pulci e gli ultimi microbi. L’uomo aveva finalmenteristabilito l’ordine del mondo da lui stesso sconvolto:nessun’altra specie vivente esisteva per rimetterlo in for-se. Per ricordo di quella che era stata la fauna, la biblio-teca di Teodora avrebbe custodito nei suoi scaffali i to-mi di Buffon e di Linneo.

Cosí almeno gli abitanti di Teodora credevano, lonta-ni dal supporre che una fauna dimenticata si stava risve-gliando dal letargo. Relegata per lunghe ere in nascondi-gli appartati, da quando era stata spodestata dal sistemadelle specie ora estinte, l’altra fauna tornava alla luce da-gli scantinati della biblioteca dove si conservano gli in-cunaboli, spiccava salti dai capitelli e dai pluviali, s’ap-pollaiava al capezzale dei dormienti. Le sfingi, i grifi, lechimere, i draghi, gli ircocervi, le arpie, le idre, i liocor-ni, i basilischi riprendevano possesso della loro città.

Le città nascoste. 5.

Anziché dirti di Berenice, città ingiusta, che incoronacon triglifi abachi metope gli ingranaggi dei suoi macchi-nari tritacarne (gli addetti al servizio di lucidatura quan-do alzano il mento sopra le balaustre e contemplano gliatri, le scalee, i pronai si sentono ancora piú prigionieri ebassi di statura), dovrei parlarti della Berenice nascosta,la città dei giusti, armeggianti con materiali di fortunanell’ombra di retrobotteghe e sottoscale, allacciando unarete di fili e tubi e carrucole e stantuffi e contrappesi ches’infiltra come una pianta rampicante tra le grandi ruotedentate (quando queste s’incepperanno, un ticchettiosommesso avvertirà che un nuovo esatto meccanismo go-verna la città); anziché rappresentarti le vasche profuma-te delle terme sdraiati sul cui bordo gli ingiusti di Bereni-

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ce intessono con rotonda eloquenza i loro intrighi e os-servano con occhio proprietario le rotonde carni delleodalische che si bagnano, dovrei dirti di come i giusti,sempre guardinghi per sottrarsi alle spiate dei sicofanti ealle retate dei giannizzeri, si riconoscano dal modo diparlare, specialmente dalla pronuncia delle virgole e del-le parentesi; dai costumi che serbano austeri e innocentieludendo gli stati d’animo complicati e ombrosi; dallacucina sobria ma saporita, che rievoca un’antica etàdell’oro: minestrone di riso e sedano, fave bollite, fiori dizucchino fritti.

Da questi dati è possibile dedurre un’immagine dellaBerenice futura, che ti avvicinerà alla conoscenza del ve-ro piú d’ogni notizia sulla città quale oggi si mostra.Sempre che tu tenga conto di ciò che sto per dirti: nelseme della città dei giusti sta nascosta a sua volta una se-menza maligna; la certezza e l’orgoglio d’essere nel giu-sto – e d’esserlo piú di tanti altri che si dicono giusti piúdel giusto – fermentano in rancori rivalità ripicchi, e ilnaturale desiderio di rivalsa sugli ingiusti si tinge dellasmania d’essere al loro posto a far lo stesso di loro.Un’altra città ingiusta, pur sempre diversa dalla prima,sta dunque scavando il suo spazio dentro il doppio invo-lucro delle Berenici ingiusta e giusta.

Detto questo, se non voglio che il tuo sguardo colgaun’immagine deformata, devo attrarre la tua attenzionesu una qualità intrinseca di questa città ingiusta che ger-moglia in segreto nella segreta città giusta: ed è il possi-bile risveglio – come un concitato aprirsi di finestre – d’un latente amore per il giusto, non ancora sottoposto aregole, capace di ricomporre una città piú giusta ancoradi quanto non fosse prima di diventare recipientedell’ingiustizia. Ma se si scruta ancora nell’interno diquesto nuovo germe del giusto vi si scopre una macchio-lina che si dilata come la crescente inclinazione a impor-

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re ci• che è giusto attraverso ciò che è ingiusto, e forse èil germe d’un’immensa metropoli...

Dal mio discorso avrai tratto la conclusione che la ve-ra Berenice è una successione nel tempo di città diverse,alternativamente giuste e ingiuste. Ma la cosa di cui vo-levo avvertirti è un’altra: che tutte le Berenici future so-no già presenti in questo istante, avvolte l’una dentrol’altra, strette pigiate indistricabili.

L’atlante del Gran Kan contiene anche le carte delleterre promesse visitate nel pensiero ma non ancora scoper-te o fondate: la Nuova Atlantide, Utopia, la Città del Sole,Oceana, Tamoé, Armonia, New–Lanark, Icaria.

Chiese a Marco Kublai:– Tu che esplori intorno e vedi isegni, saprai dirmi verso quali di questi futuri ci spingonoi venti propizi.

– Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla car-ta né fissare la data dell’approdo. Alle volte mi basta unoscorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo,un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passantiche s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo di límetterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta diframmenti mescolati col resto, d’istanti separati da inter-valli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Seti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinuanello spazio e nel tempo, ora piú rada ora piú densa, tunon devi credere che si possa smettere di cercarla. Forsementre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confinidel tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo chet’ho detto.

Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le car-te della città che minacciano negli incubi e nelle maledi-zioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave NewWorld.

Dice: – Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può es-sere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spi-rale sempre piú stretta, ci risucchia la corrente.

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E Polo: – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà;se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamotutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi cisono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accet-tare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non ve-derlo piú. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e ap-prendimento continui: cercare e saper riconoscere chi ecosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, edargli spazio.

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