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N° 1 25 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia “Paolo Sorrentino si avvicina molto alle mie intuizioni, lui ha fatto dei film e io anche ne ho fatto uno. Abbiamo delle visioni in comune. (...) Come lui, inquadro certi paesaggi e in Youth ho visto cose che avrei fatto anche io, ma il film non l’avrei fatto così, no. Youth ha delle lacune. (...) Il mio punto è che so quello che biso- gna fare per avere un premio. Bisogna essere lentissimi, inquadrare molte montagne” Lory del Santo

Cultura Commestibile 125

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N° 125

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

“Paolo Sorrentino si avvicina molto alle mie intuizioni, lui ha fatto dei film

e io anche ne ho fatto uno. Abbiamo delle visioni in comune. (...)

Come lui, inquadro certi paesaggi e in Youth ho visto cose che avrei fatto anche io, ma il film non l’avrei fatto

così, no. Youth ha delle lacune. (...)

Il mio punto è che so quello che biso-gna fare per avere un premio.

Bisogna essere lentissimi, inquadrare molte montagne”

Lory del Santo

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Da nonsaltare

è

solo una

piccola costruzione. Ho progettato edifici più ampi, grandi, lunghi, alti, ma in questo caso ho dovuto affronta-re difficoltà inattese. Non mi sono trovato a riflettere solamente sullo spazio e i suoi significati sociali e culturali, ma anche con pen-sieri che guardano oltre ai nostri orizzonti temporali e spaziali, oltre alla nostra esperienza sulla terra. E allora il progetto diventa un po’ come affrontare la narrazione di un’esperienza non ancora vissuta. Ci si sente sotto scacco, inade-guati: la nostra finitezza rispetto all’eterno. Ecco, credo che occorra tantissima umiltà, che si debba essere consapevoli della mancanza di un retroterra culturale adegua-to. E’ qui che bisogna mettersi in discussione, avere il coraggio di confrontarsi con se stessi e accetta-re i propri limiti.Frangioni In questo caso il com-mittente non solo ha un retroterra di millenni ma ha anche un retroterra sufficientemente stabile perché, a parte la controriforma che modifica completamente l’assetto delle chiese, il rito e l’esigenza della sacralità

sono stabili da millenni.

Questo è abbastan-za vero e conduce

subito ad un’altra osservazione, perché

credo che questa stabilità dell’assetto del rito e del

sacro, derivi dalla complessiva, resiliente stabilità delle emo-

zioni e delle esigenze dell’uomo. Voglio dire che il modo di essere delle persone, i loro sentimenti fondamentali e i loro bisogni, non sono molto cambiati nel corso di millenni. E invece, paradossal-mente viviamo nei ritmi della vita contemporanea persuasi – o illusi - che tutto cambi in fretta, mentre il cambiamento in realtà è margi-nale, lentissimo, se guardiamo ai sentimenti e ai bisogni fondamen-tali dell’uomo.Frangioni In questo conta anche la continuità del tempo. I tempi delle liturgie, delle modalità di espressione della sacralità, sono immutati dai tempi della controriforma nella chiesa cattolica, senza parlare della chiesa ortodossa.Il confronto e le discussioni che hanno accompagnato la chiesa di Calenzano, ma anche quella di Cintolese, mi hanno rivelato la pazienza e il rispetto dei liturgisti verso il mio lavoro e verso gli in-terlocutori in generale. Gli uomi-ni di religione hanno le loro idee, ma sono anche molto interessati e rispettosi delle idee degli altri. Ecco un’altra sapienza di lunghis-sima durata, derivata da un’antica abitudine all’ascolto e alla matu-razione, ma poi continuamente esercitata in un confronto secolare con chi si occupa di arte, con gli artisti e gli architetti. Vogliono vedere cosa tu proponi e vogliono discuterlo, passo per passo, senza

dirti prima cosa fare. Aspettano la tua interpretazione dello spazio, della liturgia, della comunità, della luce. E hanno una loro idea molto precisa su tutto questo, ma voglio-no discuterne con te dopo che tu hai dato una tua interpretazione. Ne nasce un confronto molto sti-molante, ormai dimenticato nella pratica professionale corrente, in cui siamo attenti solo agli aspetti economici e di comunicazione. Nella chiesa di Calenzano ho provato ad affrontare i problemi del progetto con umiltà, dicevo, scavando dentro di me e cercando alcuni valori importanti per la mia formazione e la mia esperienza; così è nata la mia proposta di im-postare lo spazio intorno a un’idea di comunità. Questa è stata la base del disegno dell’aula. Perché è l’aula il luogo centrale. Nell’aula si è soli con il sacro ma non si è mai da soli. Si ha un dialogo di fede ma si è anche comunità di Cristo che partecipa alla fede e poi anche a un rito. Per questo l’aula non doveva essere troppo lunga e neppure troppo larga. Doveva accogliere una comunità che si guarda e si riconosce, ma anche una comunità in cammino verso l’altare, che è il punto focale dell’aula. Lo spazio doveva essere coinvolgente e avvolgente, e anche simbolico del percorso umano e divino. E’ qui che ho pensato a Maria, a cui è dedicata la chiesa, e partendo dalla mia cultura laica non è stato facile. Ho pensato all’idea femminile di accoglienza, e quindi ad un abbraccio, a un atteggiamento materno, avvolgen-te, come a un velo, come i tanti veli che raccolgono il bel volto di Maria nelle rappresentazioni degli artisti. Quanti pensieri sul bel volto che esprime una bella anima, che è esattamente il cuore del nostro lavoro di architetti!Frangioni Quello della Madon-na è un pensiero mediterraneo e quindi noi italiani abbiamo alcuni vantaggi nel pensare a Maria, come accoglienza, come figura materna.C’è anche l’idea del bianco nel progetto, bianco come l’immaco-lata, bianco come il velo, bianco come la purezza. La luce è stato l’altro aspetto fondamentale. La

Fabrizio Rossi Prodi, professo-re di “Progettazione archi-tettonica e urbana” presso

l’università di Firenze, e il suo studio si distinguono nel panora-ma nazionale ed internazionale per la progettazione di complessi di edifici collettivi, il recupero di aree degradate ed il progetto di spazi urbani. L’intervista inizia con il racconto del progetto, in corso di realizzazione, di una nuova chiesa a Calenzano.Frangioni Iniziamo dal tuo nuovo progetto di una chiesa a Calenzano e dal confronto con lo spazio sacro. (penso che lo spazio sia sempre sacro, anche se non utilizzato per scopi religiosi)Io credo che lo spazio sia anche laico. O meglio pensavo che lo spazio fosse in sé, e fosse privo di aggettivi, fino a che non ho progettato alcune chiese.Frangioni Forse si può affermare che lo spazio è sempre sacro e che poi può essere dissacrato?Mi sembra una sintesi efficace. Noi pensiamo di essere figli del Rinascimento e soprattutto dell’Illuminismo ma tendiamo a dimenticare la cultura preceden-te che è fortissima, e che tanta parte del nostro pensiero deriva dal pensiero religioso. Una delle scoperte fondamentali, mentre si progetta una chiesa, è il confron-to con la cultura e il pensiero religioso. La nostra cultura laica di oggi sembra avere un retroterra di poco più di due secoli, partendo dall’Illuminismo, dal Positivismo, e poggia fondamentalmente sulla contemporaneità E invece, quando parliamo con un liturgista, con un religioso, ci troviamo di fronte a valori, principi e percorsi mentali che sono stratificati su una più lunga durata, sono stratificati sull’arco di migliaia di anni. E misuriamo tutto lo scarto.Frangioni E’ la costruzione del rito che si trova nelle religioniScopri che qualsiasi piccolo gesto architettonico, come spostare l’am-bone, ruotarlo, avanzare l’altare rispetto all’ambone, collocare la sede, ha un significato straordi-nario. Parlando con il liturgista abbiamo passato ore su questi argomenti. Una cultura molto più vasta della nostra, in gran parte da riscoprire, che impone riflessioni nuove nel progettare uno spazio sacro. La mia chiesa di Calenzano

L’arte del toglieredi John Stammer e aldo Frangioni

Vista facciata della chiesa di Calenzano

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fatica – proprio come architetto fiorentino - a liberarmi dell’eredità del passato classico. I materiali figurativi con i quali mi esprimo sono quelli classici. Anche se sono interessato alle stagioni degli anni trenta e degli anni cinquanta, alla rilettura delle preesistenze ambien-tali fatta dal Razionalismo. Questo connubio fra tradizione classica e modernità è la cosa che mi ha inte-ressato di più da un punto di vista linguistico e di pensiero, e forse in-quadra la vicenda della mia vita. In molti miei lavori gli elementi figu-rativi sono classici, ma la sintassi è contemporanea, con l’introduzio-ne di “anomalie”, che mettono alla prova la capacità di resistenza degli elementi lessicali e sintattici della nostra tradizione. Ad esempio nel progetto della palestra di Maiano, in Friuli, un concorso vinto che non sarà purtroppo realizzato, ho pensato ad una loggia – ai bordi della piazza principale - che mette subito in crisi il concetto stesso di loggia, perché si piega verso la direzione del percorso incidentale e si trasforma da loggia a percorso coperto, tradendo completa-

mente il suo significato iniziale. In molti progetti lavoro anche con il concetto di “scavo”, non solo direttamente sui volumi, ma soprattutto per creare il vuoto fra i volumi, che è quel mielieu che dà anima e vita ai solidi abitati e su cui dovremmo concentrare la nostra attenzione progettuale per generare il “piano di vita”. Il pro-getto dell’Università di Modena è l’espressione di questo concetto di “scavare”, come il complesso del 118 sopra l’ospedale Palagi, verso piazzale Michelangelo. C’è anche un aneddoto divertente che ha rafforzato questa mia inclinazione a “scavare”. In una lezione a Napo-li, dove illustravo alcuni progetti, uno studente si alza e chiede: “ma lei, professore, progetta sempre portici davanti ai suoi edifici?”. Non ho saputo rispondere e questa domanda mi ha molto inibito. Da allora ho smesso di progettare colonnati e ho teso a lavorare di “scavo”, sempre di più, e credo che sia – insieme alla sezione - il mio modo per inventare lo spazio. A dire il vero ho sempre pensato che due diaframmi creino uno spazio

intermedio, rendano l’architettura più interessante rispetto all’esi-bizione di un’unica facciata, e anche un poco più “discreta”, più umana. E’ la grande questione degli spazi intermedi, morbidi, di scalarità più ridotta, che rendono i luoghi cortesi, accoglienti, adatti alle relazioni interpersonali. Sono gli spazi che Giancarlo De Carlo chiamava gli spazi di “socialità non istituzionalizzata”, spazi non preordinati ad uno scopo preci-so, ma da ricontrattare di volta in volta, di ora in ora, da gruppi diversi. Oltre al linguaggio classico penso di avere ereditato da questi paesaggi che ci circondano, dal contesto della mia formazione, di studio e di vita anche quello che posso definire “un presidio volumetrico”, cioè un impianto planimetrico e volumetrico forte che rinsalda i principi insediativi. Qui in Toscana i volumi sono volumi, non si scherza su questo. Ho molto parlato di luoghi e di spazi, ma essi si definiscono solo a partire dalla grammatica dei volumi che ne arginano le forme e l’estensione. E io non riesco a progettare un edificio che non abbia una presenza fisica impor-tante. Non riesco a non pensare a dei volumi, poi subito da “cavare” per recuperare spazi pubblici e collettivi, e così creare dei luoghi. Sempre nel dialogo fra volumi e spazi, perché oltre allo studio dell’interno degli edifici, una spin-ta etica e una passione sociale mi riportano sempre a pensare che la parte più interessante del progetto è il margine del costruito, dove si crea quel dialogo fra lo spazio pubblico, lo spazio esterno, quelli intermedi e l’edificio stesso.Stammer Tu sei anche docente. Pensi che a Firenze stia crescendo

luce è un elemento del cammino. La luce viene dall’alto per indicare il cammino verso il cielo. La verità rivelata che nasce dall’alto. Il tema del progetto è stato di sollevare la copertura, e far arrivare la luce naturale da questo spazio ricavato fra le pareti e la copertura. Non semplice da farsi costruttivamente, ma molto evocativo. Con una pianta dell’aula di forma rettango-lare allungata verso l’altare, questo taglio di luce ellittico assume quasi un significato di sezione di una cupola. Certo una cupola evocata e adagiata sull’orizzon-te, un approccio che richiama citazioni classiche. Il campanile e la facciata concava con un taglio verticale completano gli elementi del progetto. La facciata richiama ancora una volta la concezione dell’accoglienza e il volto di Maria che si mostra ai fedeli. Nelle sue forme si rilegge la sagoma astratta di un angelo che protegge i fedeli all’ingresso. Nella nostra cultura religiosa – a differenza di altre - la forma ha sempre avuto un valore razionale di espressione di principi e contenuti, quasi un programma iconografico.Stammer Una chiesa con una facciata che segna con chiarezza l’o-rientamento e l’ingresso. Una chiesa che ha stilemi e linguaggio classici. C’è molto “classico” nei tuoi progetti. Una riproposizione, una rilettura del classico attraverso il linguaggio contemporaneo. La prima opera che hai costruito a Firenze, il Meeting Point per il Giubileo del 2000, è molto “classica”. I pilastri, il loggiato, un edificio semplice e molto elegante, che da l’idea della classicità.Noi parliamo con le parole che abbiamo appreso, che altri hanno usato prima di noi. Siamo figli di tutte queste stratificazioni, e faccio

Intervista a FabrizioRossi Prodi

Prospetto delll’edificio del 118

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Frangioni In questo gruppo fioren-tino tu sei quello che ha elaborato una impostazione teorica più avan-zata, almeno sulle caratteristiche dell’architettura toscana.Sulla Toscana forse sì, ma sull’ela-borazione teorica in generale sui temi dell’identità e dei caratteri, il primato deve essere riconosciuto a Paolo Zermani, senza dubbio. Scrivere il libro sulle caratteristiche dell’architettura toscana è stato bello per imparare, per elaborare i concetti sul volume, sul ruolo della sezione, sugli spazi della città variabile (michelucciana), sulle

articolazioni di linguaggio, sulla complessità spaziale urbana, su tante consuetudini progettuali che sono tipiche dell’architettura toscana del Novecento, ma anche di più lunga durata e che mi sono ritrovato addosso, profondamente filtrate nella mia sensibilità di architetto.Stammer Una delle caratteristiche dell’architettura toscana è questo concetto del “levare”, dello scavo. Il progetto della nuova sede del 118 sulla collina di fronte a San Miniato è in questo caso paradigmatico. Come nasce questo progetto?Inizio le mie conferenze facendo vedere alcune immagini degli anni ‘50 che servono per raccontare il rapporto fra geometria e natura. La prima è un filare di alberi che riproduce la scansione di un portico, dove si vede la geometria,

la sequenza dei vuoti e dei pieni e la luce che filtra fra di essi. L’altra è un muro che sostiene una strada che poi diventa una facciata; non c’è soluzione di continuità fra il muro, che separa la strada dai campi, e la facciata della casa. Non si capisce dove finisce il muro e inizia l’edificio. E’ un terreno che si solleva. Quando sono un poco disorientato nel progetto che sto eseguendo torno a riprendere le tracce di queste idee, guardo vecchie foto, faccio passeggiate e cerco di trovare, nelle testimonian-ze delle architetture rurali e del

territorio, qualche elemento di sti-molo. E questa è l’origine del pro-getto della nuova sede del 118. I pensieri in questo caso ritrovano i terrazzamenti. Sono immagini che ho vissuto fino dalla mia infanzia e che si sono depositate dentro di me, come anche la ruggine, che era sempre presente nel nostro pa-esaggio agrario. E poi l’idea della cava di pietra forte. Per realizzare l’edificio è stato fatto uno scavo profondo sette metri. L’edificio è molto semplice, anche perché sono ossessionato dalla “economia dell’espressione”. Cerco di evitare ridondanze, inutili orpelli, il gesto per il gesto. In questo progetto si vede con chiarezza che ho lavorato per arte di “togliere”. Quanto sta sopra terra è ricoperto di acciaio corten, color ruggine, mentre quello che sta sotto il livello del

terreno è trattato con rivestimento in pietra, ad evocare la sezione dei suoli, la sostanza tettonica. Anche i materiali contribuiscono quindi ad evidenziare il criterio base del progetto. Ecco, forse l’ultimo elemento importante di ogni mio progetto, che corre sottotraccia nel mio lavoro e mi accompagna da tanto tempo è una forte attenzione alla componente sociale, all’uomo, al protagonista degli spazi. E’ un’e-redità umanistica che proviene, ancora una volta, dalla nostra migliore tradizione e che mi

porta a interrogarmi sulla natura e i comportamenti dei gruppi, sul senso delle loro istituzioni, sui flussi e sui cambiamenti che investono i luoghi dell’abitare e i luoghi di lavoro. E’ un altro modo per ricollegarmi alle stagioni precedenti della cultura architetto-nica fiorentina e per rinnovarne la ricerca e l’espressione adattandole alla vita e all’arte contemporanee. Il rapporto con gli utenti, credo che questo sia l’elemento centrale del progetto oggi. Non più solo la ricerca architettonica pura, linguistica, ma il rapporto che il progetto è in grado di intrattenere con chi abiterà i suoi spazi. E que-sto mi pare anche il più interes-sante cambiamento di paradigma culturale nel progetto architettoni-co, cui stiamo assistendo proprio in questi ultimi anni.

la consapevolezza che stia nascendo una nuova scuola di architettura fiorentina? Pensi che nel dipartimen-to di architettura vi è un gruppo di docenti che utilizza un linguaggio architettonico e un lessico comuni, identificativi di una scuola, come fu negli anni ‘50, e poi negli anni ‘70?Credo che questo sia già successo da tempo. Sicuramente oggi a Firenze abbiamo una centrali-tà, nel panorama delle scuole di architettura italiane, che ci è riconosciuta anche dagli altri. Con alcune peculiarità di pensiero, come il primato della città, il pri-mato dello spazio urbano, come il ragionare sui principi insediativi, sul carattere delle istituzioni, sulla sintassi e su un approccio raziona-le al progetto e all’insegnamento. Cerchiamo sempre di ritrovare un fondamento razionale e comuni-cabile per le scelte architettoniche, rifiutando di riferirci alla sola pura creatività, al gesto per il gesto. A scuola tutte le scelte devono essere motivate. Vi possono essere attuazioni diverse o sensibilità diverse rispetto ai colleghi, come con Paolo Zermani, che è un po’ il capostipite di questa rinascita, o con Maria Grazia Eccheli, o con Fabio Capanni, o con altri, ma esiste una comunità di lavoro e di studio, un quadro disciplinare di riferimento comune, molti tratti condivisi, insomma un filo con-duttore unitario. E non è un’ap-plicazione degli ultimi tempi, si tratta invece di un impegno che affonda le sue radici addirittura negli anni ’90, quando questo percorso e questo rinnovamento è stato programmato. Fu una scelta consapevole, con alla base un ragionamento culturale, che ci ha legato fino dagli esordi e che ha trovato sempre più compagni di strada nel corso del tempo. Ricor-do la situazione in facoltà quando mi sono iscritto alla fine degli anni ‘70, che era veramente difficile, e nei due decenni successivi la facoltà non si è rinnovata. Questo nostro gruppo, nasce con consape-volezza e con un continuo lavoro teorico. Per quanto mi riguarda la pubblicazione su Franco Albini e il libro “Caratteri e figure dell’ar-chitettura toscana” sono stati i due momenti di costruzione di un per-corso formativo, e l’ultimo citato, anche una riflessione sui caratteri compositivi dell’architettura del Novecento nella mia terra, dove mi sono formato: la Toscana.

Veduta dell’Incubatore

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Non c’è niente da fare, quando una nasce signora lo si vede in tutte le cose che fa, anche le più piccole e quotidiane. Ti candidi al Consiglio Regionale? Beh, se sei la “dama bianca” Rosa Criscuolo, proprio non puoi non dimostrare anche in questo frangente, quan-do ci vuole alto senso delle istitu-zioni, le tue qualità signorili: “A chi dice che io sono impresentabi-le, lo dico molto tranquillamente, deve andare affanculo! Ma che ci

mettiamo a fare comunicati stam-pa! Se voi volete fare lezioni di morale a me, vi dovete vergogna-re; ladri matricolati Avete ucciso il futuro della mia generazione in Campania: c’avete rubato il lavoro, c’avete rubato le case...”. E così si è già presentata, l’impresen-tabile Criscuolo.Ma chi è la signora per muovere con tanta certezza queste accuse?

Rosa Criscuolo, candidata al consiglio regionale col Centro De-mocratico per Vincenzo De Luca, è la «dama bionda» di Claudio Scajola, l’ex ministro di Forza Italia, con il quale cenò poco pri-ma dell’arresto del politico. Quin-di, di furti di case dovrebbe essere abbastanza esperta e, dunque, giustamente punta il dito. Ma verso chi? Forza Italia versione

Caldoro, we suppose. Infatti, la sua scelta di parte è stata chiara e cristallina: «Non mi voglio candidare con Caldoro e nella coalizione in cui ci sono i Cesaro. Insomma mi candido con De Luca per esclu-sione». Ma forse, a sua insaputa, pensava di essere candidata per Cosentino, di cui è una estima-trice e invece si è trovata con De Luca... Ma forse è lo stesso. Ma vaffanculo, scusate il francesismo.

riunione

difamiglia

Il buon Nardella Dario, al secolo sindaco di Firenze, ce la sta met-tendo tutta per mostrarsi non il successore dell’imperatore Matteo I, bensì il più modesto reuccio Dario I. Con qualche risultato, anche perché Matteo I aveva regnato in un immobilismo asso-luto. Ma in quanto a narrazione,

Dario I ha anco-ra da pedalare. Nel suo bilancio del primo anno di governo non ha trovato di meglio che raccontarsi come l’Anti-Schettino, “l’ultimo ad abbandonare la nave e il primo ad assumersi la responsabilità”.

Ora, diciamo che l’immagine non è delle più rassicuranti: che come la Concordia, Firenze sia incagliata negli scogli e in procinto di affondare? Il fatto che il comandante si erga ritto sulla plancia, battendosi il petto fa-cendo il mea culpa, non ci rende certo più tranquilli. Siamo onesti, Matteo I non avrebbe mai e poi mai dato in pasto alla stampa questa immagine... se non altro perché lui di responsabilità se ne è sempre prese meno di zero (il suo mantra è “la colpa è di quelli di prima”). Per dire il vero, tutti abbiamo pensato che la distanza che Dario I ha voluto segnare con Schettino stava nel fatto che men-tre quello si inchinava all’isola del Giglio, lui si inchinava piuttosto a Matteo.

Se hai avuto un consulente tanto bravo e convincente(visto che l’essere fotogenica non rientra fra le tue caratteristiche prima-rie), da farti fare una campagna elettorale in cui al posto della tua immagine si è sostituito un disegno stilizzato del tuo volto perché rovinarsi all’ultimo atto? Ecco che l’appello al voto via mail di Titta Meucci arrivato nelle ultime ore a migliaia di contatti dopo molte frasi e impegni termina con una foto della candidata stessa, trasformando così l’appello al voto in appello all’astensione o meglio all’astinenza.

Certo, non avrà più la possenza atletica di quando superava alla Fosbury l’asta a 1,80; forse non porterà con l’indomita arroganza di un tempo l’asta per il salto omonimo: può darsi che non dimostri qui la spavalderia di chi sfida le acque gelide del primo dell’anno per il campionato mo-diale dell’imbecille; né tantomeno il fulgido gioco a spalle a canestro del giovane cestista; ma qui, dovete ammettere, mostra ancora la plastica sicurezza dell’atleta di mestiere, sempre in grado di mettere a segno il colpo vincente.Così posta il nostro Eugenio Gia-ni: “Sfida di bocce contro il Presi-dente della Federazione regionale Bocce Giancarlo Ghosti, dopo la premiazione del prestigioso torneo del Dlf [Dopo lavoro ferrovia-rio, in confronto la Champions League è la coppa del nonno!]. Le bocce sono un’espressione tra le più popolari e più autentiche della vita di comunità all’insegna dello sport per ogni età. (Notare il gesto atletico...)”.Obiettivo recondito: portare le bocce fra gli sport olimpici. Prege-vole iniziativa!

le Sorelle marx

la StiliSta di lenin

lo Zio di trotZkyi Cugini engelS

L’impresentabile

Più bocceper tutti

Quando metterci la facciapuò essere un problema

Il reucciofiorentino

BoBo

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SOggettiJean Baudrillard

Se è vero che l’Arte è una forma di espressione del pensiero e della medita-

zione dell’uomo, allora anche la filosofia può essere tradotta in una pratica artistica, diretta, e specifica, ossia in una lucida lettura della perfetta eviden-za del mondo. Proprio nella fotografia il filosofo e sociologo francese Jean Baudrillard trova la più alta espressione dell’ap-parenza pura, consapevole che il soggetto in atto è colui che avidamente cerca le immagi-ni senza trovarle, poiché egli non si trova mai realmente alla presenza dell’oggetto e lo scambio fra realtà e rappresenta-zione è ormai divenuto effimero e impossibile. Le fotografie filosofiche di Baudrillard sono delle vere e proprie dimostra-zioni scientifiche che dissertano sulle modalità contemporanee di percepire il reale, successive alle decontestualizzazioni del ready-made, all’avvento dei mass-media e all’iper-visualità consumistica. Nel momento in cui la riflessione astratta viene sublimata dall’esperienza sedu-cente dell’immagine, la società attuale non riesce più a ricono-scere il reale in quanto reale, ma esperisce gli oggetti nel proprio valore segnico e in un continuo rimando ad altre realtà, diver-se e lontane dalla concretezza quotidiana. Fotografare diviene quindi una sperimentazione tesa a riscattare l’immagine dall’illusione e dall’abnegazione: solo evitando la trasfigurazione estetica e negando la riduzione dell’immagine a un medium di pura obiettività bidimensionale è operabile il riscatto sociale e culturale della realtà, ristabi-lendo in tal senso gli equilibri esistenti fra la luce dello sguardo e la luce dell’oggetto, che inevitabilmente solo l’obiettivo fotografico riesce a catturare. Lo scatto permette la sparizione dell’oggetto, la «morte simboli-ca» di una realtà che tuttavia ri-mane viva ed energica; permette in sostanza di riappropriarsi di un rapporto vero con il mondo circostante, operando su un doppio livello di trasfigurazione, a riprova che la trascendenza è un problema ontologico sempre attuale e che l’avvento della

Senza titolo, 1997Foto a coloricm. 75x55 e cm. 55x75

Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

di laura [email protected]

società televisiva e tecnologica ha reso ancora più complesso e ambiguo anche a livello filosofi-co. Per il sociologo la fotografia permette l’uscita dal circolo vizioso della decontestualiz-zazione, resiste alla vertigine della metamorfosi oggettuale e riporta l’uomo al grado zero di compartecipazione alla vita concreta, dove i sensi ritrovano la stabilità in una reciproca corrispondenza di dati empirici. Le fotografie filosofiche di Jean Baudrillard conservano la forma reale dell’immagine, senza farsi sopraffare dalla visualità con-temporanea, mettendo in luce l’autenticità dell’oggetto, oltre la sfera estetica e rappresentativa.

Con la modernità, in cui non smettiamo di accumulare, di aggiungere, di rilanciare, abbiamo disim-parato che è la sottrazione a dare la forza, che dall’assenza nasce la potenza. E per il fatto di non essere più capaci di affrontare la padronanza simbolica dell’assenza, oggi siamo immersi nell’illusione inversa, quella, disincantata, della proliferazione degli schermi e delle immagini

J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà

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“Manlio Summer o dell’In-quietudine” è il titolo più esplicito, e vero, fra quelli dei

vari saggi che compongono il libro Manlio Summer Architet-to. Quello che rappresenta con maggiore precisione il percorso professionale e tecnico-scientifi-co del protagonista del libro. Il libro, a cura di Paolo Ranfagni e Giacarlo Rossini, sarà presentato a Casole d’Elsa, in provincia di Siena, sabato 6 giugno alle ore 15,30 nel Cortile della Collegia-ta. Manlio Summer ha inter-pretato il mestiere di architetto nella sua accezione più ampia e completa. Progettista, tecnico delle imprese di costruzione, libero professionista, dirigente della pubblica amministrazione. In tutti questi campi Manlio Summer si è cimentato portando la originalità, la peculiarità e la determinazione delle sue idee e del suo carattere. Il libro, scritto a più mani, racconta anche la vita personale e privata di Summer che difficilmente, per chi si è impegnato nella vita sociale e pubblica da protagonista, è sepa-rata da quella professionale. Un libro che parla del passato ma che guarda al futuro perchè le idee, le intuizioni, le scelte di campo di Summer aspettano ancora delle risposte. Un libro quindi non di ricordi ma di riflessione sul ruolo della tecnica, e dei professioni-sti, nella vita pubblica e nella costruzione delle scelte politiche. Un percorso di speranze e di delusioni che si è concluso con una sconfitta di quello che Paolo Ranfagni chiama il “riformismo perduto”. Una stagione che aveva messo al centro delle riflessioni pubbliche il territorio, la dimen-sione territoriale dell’economia, il progetto come strumento di go-verno. E che aveva posto le basi per norme urbanistiche che han-no segnato, come uno spartiac-que, le riflessioni sull’urbanistica in Italia, sulla rendita fondiaria e immobiliare e sulla pianificazione territoriale a larga scala.Scriveva Manlio Summer :«Il territorio è ormai l’unica risorsa disponibile sulla quale la Regione può contare per svolgere il pro-prio ruolo istituzionale nella defi-nizione/attuazione delle politiche per lo sviluppo. Da quest’ultima considerazione, in particolare,

Manlio Summerarchitetto

di John [email protected] discende la nuova centralità

assunta in Toscana dal governo del territorio e il rinnovamento delle relative strumentazioni nelle politiche regionali. Non si trattadi un rinnovamento culturale o di un “rilancio politico” dell’ur-

banistica, bensì di un rinnovamento strategico della programmazio-ne attraverso la pianificazione territoriale». In un periodo di pensiero corto, di obbiettivi minimi, di scelte spesso dettate dalla contingenza, o peggio dalla convenienza del giorno dopo, le riflessioni che

il libro contiene riguardo ad esempio alla costruzione di un QRT (Quadro di Riferimento Territoriale) alla scala metropoli-tana Firenze-Prato-Pistoia, fanno capire quale avrebbe potuto essere, e non è stato, lo scenario dell’organizzazione del sistema politico istituzionale di governo della Toscana. Un libro quindi utile per la costruzione di una memoria collettiva su temi che ancora, in gran parte, aspettano di essere risolti, se non in alcuni casi, di essere riconosciuti e affrontati.

Scavezzacollodi maSSimo [email protected]

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Una delle proprietà delle immagini fotografiche che nessuno ha mai messo in

dubbio, talvolta anche contro ogni evidenza, è la veridicità, ovvero il rapporto, univoco ed indiscutibile, di perfetta coinci-denza fra la realtà posta di fronte alla fotocamera e l’immagine che appare (capovolta) sul dorso della fotocamera stessa, e che viene registrata sul materiale sensibile (lastra, pellicola o carta). L’immagine fotografi-ca fornisce quindi una prova indiscutibile (salvo grossolane contraffazioni) della esistenza di ciò che in essa è rappresentato, e fornisce indicazioni molto più precise (e fedeli) sull’og-getto rappresentato di quanto non facessero in precedenza gli altri mezzi di rappresentazione. L’altra proprietà delle immagini fotografiche è il fatto che esse molto spesso vivono più a lungo della realtà che rappresentano, indipendentemente dal fatto che questa realtà sia costituita da persone, animali, cose, luoghi o edifici. Anche per questo moti-vo, le immagini di ciò che non esiste più vengono conservate, con maggiore o minore cura, e se disperse, vengono ricercate con accanimento ed esaminate e studiate con attenzione. Dopo un periodo in cui i concetti (male interpretati) di “rinno-vamento” e “modernizzazione” hanno portato alla distruzione scientifica e metodica di molte delle cose del passato, i concetti di “recupero” e “rivalutazio-ne” hanno portato alla ricerca affannosa delle testimonianze del passato, antico o recente, come dimostra la diffusione di massa dei mercatini “antiquari” o sem-plicemente “dell’usato”. Se molti oggetti del passato vengono ritrovati e restituiti a vita nuova, altrettanto non è possibile fare per gli edifici demoliti, i quartie-ri sventrati e gli isolati abbattuti. Per la conoscenza di queste opere diventa indispensabile rivolgersi alle immagini fotografiche dell’e-poca, ed è esattamente in questa direzione che si muovono, da qualche tempo a questa parte, urbanisti, architetti e ricercatori, e che vengono costituiti impor-tanti archivi e realizzate impor-tanti pubblicazioni. Accanto alla

di danilo [email protected] scomparsa memoria delle città più grandi

(Roma sparita, Milano scom-parsa, Firenze com’era, etc. ) si risveglia più lentamente, ma non meno orgogliosamente, la me-moria dei centri minori. Talvolta si tratta di semplici raccolte di immagini, organizzate generosa-mente ma con criteri discutibili, altre volte si tratta del frutto di un lavoro di ricerca serio, docu-mentato, fondato su basi e co-noscenze storiche consolidate. Il volume dell’architetto empolese Carlo Pagliai “Empoli scompar-sa” appartiene a questa seconda categoria. Alla ricerca di imma-gini documentarie di indubbio interesse si accompagna una pro-fonda conoscenza e descrizione della struttura urbana, della sua genesi e delle sue trasformazioni, soprattutto quelle operate fra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecen-to, nell’epoca in cui i fotografi documentavano, magari senza averne la piena consapevolezza, l’esistenza di edifici destinati alla demolizione. Ovviamente Empoli non ha avuto fra i suoi fotografi nessuno come Charles Marville, il fotografo della Parigi prima delle grandi demolizio-ni operate da Haussmann, e neppure come Eugéne Atget, il fotografo delle strade di Parigi a cavallo fra Otto e Novecento. Fra Otto e Novecento Empoli è stata fotografata da chi realiz-zava per mestiere delle semplici “cartoline”, da chi fotografava su incarico dei proprietari le fac-ciate o i negozi, oppure da chi, curioso di scene di vita quotidia-na, fotografava strade e passanti, lasciando gli edifici sullo sfondo. Raccolte con metodo e costan-za, presso archivi pubblici o collezioni private, tutte queste immagini, fra di loro disomo-genee, sono state organizzate in un insieme coerente, corredato da testi esplicativi e commenti puntuali, restituendo, se non un quadro completo, di assai difficile realizzazione, un’imma-gine del volto di una cittadina sulla quale il tempo e la storia, le trasformazioni economiche e sociali, il passaggio della guerra e talvolta anche alcune scelte urba-nistiche approssimative, hanno lasciato dei segni indelebili. Che le immagini fotografiche ci restituiscono ancora oggi in tutta la loro evidenza.

Empoli

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muri di chiusura perché capace di relazionarsi con il suo intimo e con l’esterno ponendoli sempre in continuo dialogo fra loro.La mostra di Paolo della Bella e Aldo Frangioni dal titolo …e lasciateli divertire! Aldo Palazzeschi compie 130 anni alla Galleria La Corte Arte Contemporanea, Via de’ Coverelli, 27/r, Firenze, dal 5 al 22 giugno 2015 è un omaggio all’uomo libero e al suo essere artista saltimbanco. La mostra di questi due artisti, anch’essi fioren-tini (o meglio fiesolani), ci apre alla libertà di espressione e alla presa in giro tipicamente toscana. In questa società dove tutto è estremamente serio …e lasciateli divertire! è una boccata d’aria pura e frizzante, è la vertigine del troppo ossigeno, è l’u-briacatura dei sensi che finalmente godono liberandosi di restrizioni e vincoli. Per cui sentiamoci liberi di prenderci gioco di noi stessi, di giocare con le lettere dell’alfabeto, di fare suoni che non significano niente affinché ognuno di noi dia il suo personale significato, un urlo, una sorpresa, una gioia, una risata. Siamo liberi per una volta nel di-vertirsi, nel recitare, nell’improvvi-sare e magari perché no nel danzare in questa folla follia di colori che incontrano parole, di lettere che vi-vono nei fondi delle tele e di suoni che mai faremo ma che dovremo, invece, fare sempre più spesso. …e lasciateli divertire! anche loro, gli artisti, in questo caso Paolo della Bella e Aldo Frangioni!

Le strofe di Aldo Palazzeschi possono aiutarci a presentare l’artista, quale saltimbanco

dell’anima sua, e la sua opera. L’artista con destrezza scava, schiva, gioca con colori, parole e suoni e, dinanzi al suo core mette una lente per farlo vedere alla gente, esso è egocentrico e esibizionista, ha biso-gno di un suo pubblico, è irriveren-te, non rispettoso delle regole nel mettere insieme idee e materiali in maniera non ortodossa. Può essere ironico e scanzonato e alle volte è additato e tacciato ma sempre ha la forza di rimanere se stesso perché semplicemente è libero, ed essere liberi nell’animo non è facile c’è bisogno di coraggio, serve credere profondamente in noi stessi e nella nostra creatività, occorre coltivare quella parte di noi più sfacciata e non sentirsi in colpa se non siamo come gli altri ci vogliono. L’artista vero cioè l’uomo libero, che può anche non fare arte, è colui che vive senza mai tradire se stesso, obiettivo estremamente difficile, è l’essere umano senza pregiudizi e creativo, è colui che si accetta e accetta l’altro per com’è e da tutto ciò nasce la sua forza, può essere il saltimbanco dell’anima e anche cadere senza farsi troppo male. La libertà interiore porta leggerezza, giocosità, allegria e disponibilità, il saltimbanco è spontaneo, fa il suo interesse nel senso che si tutela e si protegge senza innalzare

di angela [email protected]

E lasciatelidivertirePaolo della Bella, Aldo Frangioni & Aldo Palazzeschi alla Galleria La Corte

Sopra, Paolo della Bella, Bubububu, fufufufu. Friu!Friu! e a destra Aaaaa! Eeeee! liiii! Ooooo! Uuuu! A!E!O!U!

Sotto a sinistra Aldo Frangioni Fontana malata e a destra Cobò

Son dunque... che cosa?Io metto una lentedinanzi al mio core,per farlo vedere alla gente.Chi sono?Il saltimbanco dell’anima mia da “ Chi sono? ” di Aldo Palazzeschi

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Trattasi di libercolo dai bordi sciupacchiati, edito nel 1929 - anno VII dell’era fascista- scritto da un tal Giulio Gandi non me-glio identificabile e autore anche di un pamphlet “Le corporazio-ni dell’antica Firenze, 1928”. Dedicato al Vice-Podestà, anche vice presidente della eternamente potente Federazione dei Com-mercianti Fiorentini, presenta una serie di trattorie e ristoranti nati e cresciuti in antichi locali di cui hanno mantenuto la struttura e, in qualche caso, incremen-tato bellezza e decorazioni. Mi attraggono le chiacchiere su la “Trattoria Il Paoli”, via de’Tavo-lini, tuttora viva e verde, come peraltro molte altre nominate e narrate. Fondata nel 1824, era una bottega di una sola stanza con tavolini di marmo, dedita al mito del fagiolo in onore all’an-tico detto “..fiorentin mangia fagioli... “ riportato sulle pareti, e della “trippa e zampa”, divenne famosa “come il Campanile di Giotto”; nel librone di cuoio per i clienti, oltre i commenti in... “diverse lingue, orribil favelle”, non esclusi quelli sul conto, salato ben oltre la quantità di legumi serviti, si leggevano firme illustrissime, Leoncavallo, Mari-

netti, Pirandello, Mistinguette, Puccini, Fucini e via e via. Alla morte, nel 1909, del “Sor Cesa-re”, ultimo Paoli, fu rilevata da “devoti ed affezionati commessi” che affidarono all’architetto Andrè il restauro dell’originaria botteguccia, ne venne fuori un locale in stile neogotico alle cui pareti compaiono lunette con scene dal Decamerone di Boccac-cio affrescate da Carlo Coppedè, della famosa famiglia di architetti e pittori. Qualche anno più tardi fu convocato per altre decorazio-ni addirittura Galileo Chini che, sempre in affresco, approntò una

scena inneggiante ai piaceri della tavola che si trova tuttora nella cosiddetta “saletta delle rose”. Lungo le pareti corrono piastrelle di maiolica raffigu-ranti gli stemmi dei Comuni della Toscana, firmate dalla famosa manifattura “Cantagal-li”. Le prime notizie di questa antica famiglia fiorentina di ceramisti

risalgono al ‘500, è a loro che si devono i rivestimenti in matto-nelle di tipo persiano delle sale del palazzo delle Poste di Firenze, le nuove pavimentazioni degli appartamenti Borgia in Vatica-no e della sala di Caino e Abele in Palazzo Pitti, i rivestimenti esterni delle chiese russe a Firenze ed a Nizza e del palazzo del viceré al Cairo. Un busto di Rivolta raffigurante il presidente Wilson e opere di Annigoni e Guarnieri si aggiungono in anni successivi. Sarà di sicuro per turisti, ma penso anche che andrò a dare una occhiata

Nel 2014 l’arte di strada italiana è stata tema di una mostra allestita presso l’Italian Cultural Institute

di New York che ha presentato il lavoro ed il percorso creativo personale di una generazione di

artisti caratterizzati da una forte presenza urbana con il tentativo di stabilire un dialogo tra avan-guardie artistiche.Auguriamoci che anche Firenze possa promuovere un festival aperto ai più importanti writers esaltando il cambiamento ed il rispetto dell’arte in tutte le sue forme, e non solo quindi in quelle tradizionali!Oggi il graffito cerca strade uffi-ciali, anche se con fatica; quello di qualità piace, è diventato vendibile, e lo sarà sempre di più: all’estero è ormai entrato nella pubblicità, nel marketing. Poi, a trasformare la street art è arrivato il web, infatti, oggi ogni street artist, finita l’opera, la fotografa e fa mette su Facebook o Instagram, così se è bella fa il giro del mondo.

Si è appena conclusa una settimana di iniziative ed eventi organizzata dalla

Fondazione Angeli del Bello che prosegue intensamente l’opera, avviata nel 2010, di curare la bellezza della città tramite la rimozione delle scritte vandaliche, la cura dei giardini e degli spazi di verde pubblico all’interno della Città.Il calendario, ricco di eventi, ha voluto sensibilizzare i cittadini, sul concetto di bellezza nel suo significato più profondo, temi che sono stati sapientemente esaltati dalle relazioni di Antonio Pao-lucci e Mons. Timothy Verdon, moderati da Cristina Acidini, durante una conferenza che si è tenuta il 17 maggio alle bellissime Serre TorrigianiI protagonisti hanno sottolineato l’importanza dell’impegno civile degli Angeli e la necessità della partecipazione attiva di tutti per la cura del proprio ambiente.E’ mancata però la presenza dei writer ed il loro sentire sui temi della bellezza e del decoro urbano.Non va trascurato che alcune forme di espressione dei writer sono a tutti gli effetti espressioni di quella che è soprannominata “Arte di strada o arte urbana”. “Street art” è il nome dato dai mezzi di comunicazione di massa a quelle forme di arte che si mani-festano in luoghi pubblici, spesso illegalmente, nelle tecniche più disparate: bombolette spray, ecc. Ogni artista che pratica l’arte di strada ha le proprie motivazioni personali; alcuni la praticano come forma critica della proprietà privata rivendicando la disponibi-lità piena di strade e piazze; altri più semplicemente vedono le città come un posto ideale ove poter esporre.Da noi questa arte non è tolle-rata perché se ne individuano solo gli aspetti negativi ovvero l’imbrattamento di muri pubblici che necessitano poi di attività impegnative di recupero. E’ chiara l’esigenza dei writers di provocare con i graffiti e di uti-lizzare queste forme su ambiente proibiti, ma è anche vero che occorre rivalutare queste espres-sioni e mettere loro a disposizioni spazi adeguati magari cercando di distinguere tra cattiva e buona street art.

La Street Artva salvata

di roBerto [email protected]

a Cura di CriStina [email protected]

Dalla collezione di RossanoBizzarriadegli oggetti

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Non credo che i miei ventuno let-tori (Manzoni ne aveva venticin-que, Guareschi ventitre, spero di non aver peccato di presunzione) conoscano l’esistenza di Andrea Corsali, navigatore fiorentino del ‘500, ma ho la ragionevole certezza che molti di loro abbiano letto “Baudolino” di Umberto Eco, e che quindi abbiano già almeno un’infarinatura di ciò di cui si parla.Corsali, al servizio dei Medici, svolse numerose spedizioni, nel corso delle quali ottenne impor-tantissimi risultati, fra i quali la scoperta della Nuova Guinea e l’esatta dislocazione geografica di Ceylon e Sumatra. Fra l’altro fu il primo a intuire la presenza di una massa continentale a sud della Nuova Guinea e fu il primo a de-scrivere con precisione astronomi-ca la Croce del Sud, costellazione che oggi campeggia, non a caso, sulla bandiera australiana.Verso il 1515 papa Leone X, al secolo Giovanni di Lorenzo dei Medici, gli affidò un compito

molto delicato: doveva essere il latore di un’ambasceria al prete Gianni , il prete Giovanni di Eco.Di questo leggendario sovrano si era cominciato a parlare nel 1165, quando l’imperatore di Costan-tinopoli Manuele I Comneno aveva ricevuto una missiva a firma Presbiter Iohannes che, con scarsa modestia, si definiva “Dominus Dominantium” (Signore dei

Signori) e descriveva il suo reame che si esten-deva su “tre Indie” e su settantadue province i re delle quali erano suoi vassalli. Gianni, cristiano devoto, abitava in un palazzo fatto di gemme e il suo regno era popolato dalle creature più strane: grifoni, ciclopi, fauni, satiri, draghi e chi più ne ha più ne metta.Nel regno del prete Gianni vivono fra gli

altri cannibali che, in barba alla convenzione di Ginevra, vengono utilizzati in guerra per mangiare i nemici e Amazzoni che cavalcano talmente veloci da poter scagliare una freccia e riprenderla prima che tocchi terra: anch’esse sono utilizzate in guerra, anche se non si capisce come facciano a colpire gli avversari visto che riagguan-tano le frecce. Nel regno di Prete

Gianni ci sono poi fonti miraco-lose, fiumi di pietre preziose e via dicendo.L’imperatore, anziché proporre il prete Gianni per un TSO, girò la missiva ai colleghi papa Ales-sandro III e Barbarossa, per poi sguinzagliare orde di esploratori in cerca del favoloso reame. Nel corso dei secoli del prete Gianni parlarono Giovanni del Pian dei Carpini e Marco Polo, John Mandeville e Giordano di Severac e il suo regno fu individuato nei luoghi più remoti della terra dalla Cina all’India alla Mongolia; qualcuno poi localizzò il reame in Etiopia, per l’appunto la “terza India”, e fu lì che Corsali lo trovò.Nonostante diverse fonti lo neghi-no, ci voleva però un fiorentino per incontrare prete Gianni. Sentite come Corsali racconta l’incontro: “Dopo tre giorni venne il re con 500 uomini da piedi mal armati, con certi dardi, scudi et archi non molto buoni”. Si vede che erano gli archi delle Amaz-zoni che, a forza di tirare le solite frecce, si erano consunti.

William Byrd e John Dowland, ma anche William Shakespeare, le cui opere riservano ampio spazio alla musica, sia strumen-tale che cantata.Oggi, dopo oltre quattro secoli, la musica elisa-bettiana rappre-senta un’e-redità culturale impor-tante. Alcuni anni fa lo aveva dimo-strato anche Sting, autore del CD Songs from the Labyrinth (Deutsche Grammophon, 2006), interamente dedicato a musiche dell’epoca. The Eli-zabethan Session è un’ulteriore conferma. Per realizzarlo gli otto musicisti hanno convissuto e

composto in una fattoria situata nei pressi di Hatfield, dove Elizabetta I (nota col nome popolare di Gloriana) trascorse l’infanzia.

Le quat-tordici canzoni sono stretta-mente legate a eventi e perso-naggi dell’e-poca. In “Lon-don” la città è la meta alla quale aspira

il contadino che vuole rag-giungere uno status sociale più elevato. “Christopher Marlowe” é dedicata al celebre scrittore, ma ne mette in luce certi aspetti meno noti: ateo e omosessuale dichiarato, l’autore di The Jew of Malta morì appena venti-

L’anno scorso (n. 73) ab-biamo parlato del CD The Full English, proiezione

discografica del grande archivio nel quale la English Folk Dance and Song Society (EFDSS) ha riunito le principali collezioni del patrimonio tradizionale britannico. L’impegno dell’associazione inglese è poi proseguito con The Elizabethan Session (Quercus Records, 2014), un disco che l’EFDSS e il festival Folk by the Oak avevano commissionato a otto fra i migliori esponenti del folk inglese. Due di loro, la violinista Nancy Kerr e il cantante-chitarrista Martin Simpson, erano già presenti in The Full English, ma a parte questo si tratta di due lavori diversi. Come si intuisce dal titolo, il principale tratto distintivo del nuovo CD è l’ispirazione alla musica dell’età elisabettiana. Durante il suo regno (1558-1603) la cultura inglese visse un importante rinascimento culturale che dette grande rilie-vo alla musica. Non lo attestano soltanto compositori come

novenne in una rissa. “The Shores of Hispaniola” rievoca la tratta degli schiavi africani, alla quale la regina dette un impulso decisivo. Il brano composto da Nancy Kerr contiene una condanna esplicita di questa pa-gina storica, sottolineando che “le mura e i castelli della bella Gloriana sono costruiti con le ossa degli schiavi di Hispanio-la”. Elizabetta I non fu soltanto una mecenate dei poeti dell’e-poca, ma scrisse lei stessa alcune poesie. Non a caso la conclusiva “Suspicious Mind” fonde due temi da lei trattati, gli intrighi di corte e l’addio col quale salutò il Duca d’Angiò, l’ultimo dei suoi pretendenti. La strumentazione è molto ricca: le donne (Emily Askew, Hannah James, Bella Hardy, Nancy Kerr e Rachel Newton) suonano archi, fisarmonica, flauti, ghironda e percussioni, mentre gli uomini (Jim Moray, Martin Simpson e John Smith) si concentrano sulle chitarre e sulle tastiere. Tutti concorrono alle parti vocali. Curato in ogni particolare, The Elizabethan Session conferma lo stato di grazia che il folk inglese gode negli ultimi anni.

di FaBriZio [email protected] Via Corsali

Il regno del prete Gianni

Dedicato a Glorianadi aleSSandro [email protected]

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considerazioni avanzate dagli autori di “Millepiani” e il superamento del ‘modello ileomorfico’, dove la forma incarnata non segue un ordi-ne fisso o scalare, ma si caratterizza per un continuo superamento del punto d’arrivo, allo stesso modo del processo metallurgico dove – scrivono Deleuze e Guattari – “ le operazioni continuano a porsi a cavallo delle soglie, in modo che una materialità energetica vada al di là della materia preparata e una deformazione o trasformazione qualitativa eccede la forma”.

il luogo come sistema: punto di scambio e ricombinazione tra i vari elementi che fanno

parte della realtà materiale. Così potremmo definire le pagine ini-ziali di “Gomorra” di Roberto Sa-viano, laddove il porto è presentato alla stregua di un “un buco nero”, al cui interno “la struttura moleco-lare delle cose sembra scomporsi, per poi riaggregarsi una volta uscita dal perimetro della costa”. Siamo in presenza di una materia vagante, in pieno vagabondaggio, mediante cui lo spazio rinuncia a una costitu-zione canonica e interferisce sulla natura stessa delle cose. La descri-zione, sotto certi aspetti, echeggia il pensiero di Gilles Deleuze e Félix Guattari nel loro celebre “Mille-piani” e, precisamente, il concetto stesso di ‘rizoma’: un principio di connessione eterogeneo pronto a rimandare a modi di codificazione diversi tra loro. In un’assenza totale di dualismo, la topografia del porto partenopeo è attraversata conti-nuamente da linee di fuga, libere da punti o posizioni determinate. L’accostamento al ‘buco nero’, a sua volta, rivela l’essenza fermentante del luogo, poiché “tutto avviene talmente velocemente che, mentre si sta svolgendo, scompare”, in nome di una vera e propria defor-mazione (o scomposizione) dello spaziotempo, dettata anche dalla matrice narrante degli elementi. Per tale ragione, “la merce ha in sé tutti i diritti di spostamento che nessun essere umano potrà mai avere. Tutti i frammenti di strada, i percorsi accidentali e ufficiali trovano punto fermo a Napoli”. Sconfiniamo nel regime delle cose, in quella che – volendo usare le parole di Jane Bennett, autrice di “Vibrant Mat-ter” (2010) – è la loro natura ‘vi-brante’, pronta a interagire con gli esseri viventi e divenire in tal modo leggibile proprio perché collocata in quello che è il milieu dell’umano agire. E va da sé che le navi sem-brino “animali leggeri”, destinate a mutare la loro conformazione ori-ginaria una volta varcato il confine, ché “appena entrano nel golfo […] divengono pesanti mammut di lamiere e catene con nei fianchi suture arrugginite che colano acqua”. Paradossalmente, il metallo si fa vitale e abbandona il dominio dell’inanimato per ibridarsi a forme viventi, in questo caso animali. Tornano, ancora una volta, le

Porto/portauna GomorramolecolareTramite la vostra rivista desi-dero ringraziare sentitamente i tre segretari nazionali dei tre maggiori sindacati italiani per aver finalmente gettato un rag-gio di luce sul più tormentato mistero di questi ultimi anni: la mancata elezione del Prof. Romano Prodi alla Presidenza della Repubblica.I suddetti segretari non ci hanno svelato i nomi dei 120 franchi tiratori annidati nel PD, meglio, ci hanno svelato che gli italiani hanno rischia-to di avere come Presidente della Repubblica un tenace sostenitore e fautore di regimi totalitari .A giudicare dalle loro dichiara-zioni si può intuire che le loro letture non vanno oltre l’Al-manacco di Topolino e forse anche un po’ del vecchio  Ti-rammolla : i tapini non sanno che il Prof. Romano Prodi  è da sempre favorevole al sin-dacato unico , convinzione chiaramente esplicitata nel suo ultimo libro.Come si può vedere il

buon  Matteo Renzi , pur con molti difetti,  trova in buona compagnia!!Della Sig.ra Furlan  tralascio ogni commento essendo stata la più moderata  in materia; a

quel simpatico e patetico vec-chietto che risponde al nome di Barbagallo vorrei consigliare di andare a gestire una casa di riposo per vecchi narcisi, alla Sig.ra Camusso  vorrei raccomandare maggior atten-zione a quello che dice, prima consiglia i veneti di astenersi dal voto e poi da del dittatore a Renzi ed al  Prof. Roma-no  Prodi.La Sig.ra Camusso ha recente-mente affermato che Renzi  va a destra e che Landini non va da nessuna parte,  molti elettori di sinistra sanno benis-simo dove dovrebbe andare la Sig.ra Camusso!!In centocinquant’anni  siamo passati dalla rivoluzione di Marx (lavoratori di tutto il mondo unitevi) alla involuzio-ne della Sig.ra Camusso (lavo-ratori italiani sparpagliatevi), brava Susanna!!!

di Sergio [email protected] Lavoratori di tutto il mondo

sparpagliatevi

di diego [email protected]

ecoletteratura

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sica elettronica di Vinai, Rehab e Jay Hardway. La voce narrante di Virgilio scandirà tempi e momenti dei due cantici che porteranno il pubblico e Dante a ritrovare, attraverso un percor-so fatto di musica, immagini e parole la sua amata Beatrice. A interpretare il sommo poeta sarà “Principe Maurice”, performer e regista che si è esibito con alcuni dei più grandi nomi dello star system internazionale, da Grace Jones a Uto Ughi, a Marco Balich.

compresenza di elementi diversi, lo studiato rapporto tra i colori. L’ar-chitettura dell’immagine è studiata: volute ricordano curve barocche o lo sfondo geometrico in contrasto con l’oggetto in primo piano o il sapiente dosaggio dei chiari e degli scuri. Nelle immagini di Pieran-gelo Pierallini invece non ci sono elementi collaterali, solo la foglia in natura o parti di essa come viste con una lente di ingrandimento. La preminenza è sulla leggerezza, sul colore dei tracciati in trasparen-za con il disegno evidenziato delle linee delle nervature. Il 5 giugno dalla 16 tre eventi nell’ambito del Chelsea Fringe, nel cortile delle Murate: Elena Salvini Pierallini con Bulbi Tunicati sul tema delle cipolle; Ines Romitti con il workshop Pockert Garden; Manuela Mancioppi con la perfor-mance Giardino immaginario.

il lessico abituale dell’arte contemporanea si serve spesso delle radici delle

parole, degli usi che queste assumono nella lingua parlata nel corso del tempo, delle asso-ciazioni linguistiche e dei motti popolari per cercare i significati delle opere e descriverne l’aspetto sia interiore sia esteriore.Nella matita di Edoardo Mala-gigi bisogna ricercare un altro elemento, sempre intrinsecamen-te collegato alla autonomia dei lavori e alla loro riconoscibilità, si tratta del “contesto”.Con questi elemeti e servendoci delle loro indicazioni e impli-cazioni abbiamo gli elementi per analizzare questa scultura di matrice indiscutibilmente Pop Art – popular art, ad uso delle masse - e quindi scoprire il meccanismo della sua rappresen-tazione, che servendosi di una pratica di riduzione, amplifica il suo significato iconico di oggetto unico, mostrato sempre isolato dal contesto per il quale era stato pensato.

Si dice matita spuntata di qualcuno che ha perso la sua incisività, matita venduta di chi mette il suo pensiero al servizio di chi può comprarlo, mettere la propria matita al servizio di qual-cuno, quando se ne condividono gli scopi. Una matita è anche un simbolo scolastico, quando il co-lore indica la gravità degli errori in uno scritto, la matita per sua natura possiede la capacità di fare molteplici cose: disegnare, scri-vere, sottolineare e tutto questo lo fa in maniera non irreversibile, in quanto la sua potenza sta nel

Edoardo Malagigi, Libertà di pensiero,Libertà di matita

di Claudio [email protected]

Sabato 6 e domenica 7 giugno a Prato (Arena Fiera Marconi) andrà in scena Opera Music Festival, esperimento che mette in scena la Divina Commedia dantesca attraverso una mara-tona di musica elettronica e di arti coreografiche. L’Inferno e il Paradiso diventeranno luoghi reali grazie a 50 artisti tra balle-rini e dj di fama internazionale, acrobati aerei e circensi, che cercheranno di far ballare mi-gliaia di persone (info biglietti su www.operamusicfestival.com). Sabato 6 giugno al via la maratona dell’Inferno: 12 ore (dalle dodici alla mezzanotte) con la musica techno di Green Velvet, Raffaele Attanasio, Gaiser, Pan Pot, Perc & Truss, Stephan Barnem, Fabio Florido, Fatima Hajji e Philipp & Cole. Saranno loro i Caronte che traghetteranno gli appassionati attraverso un viaggio fatto di note e di spettacolo. Il gioco di luci penserà al resto. E dopo l’Inferno, domenica 7 giugno toccherà al paradiso, con la mu-

Ottavo appuntamento della Ras-segna Foto&Foto, a cura di Elda Torres, alla Gallery del Caffè Lette-rario Le Murate di Firenze. Visite di foglie (fino al 14 giugno) presenta immagini sul tema delle foglie che cadute dagli alberi, dunque in te-oria già morte, sono invece dotate di una vitalità anche nel processo di decadimento, nelle volute del loro accartocciarsi, nell’evolversi dei colori e del tessuto. Ulteriore variante dell’interesse verso il senso del “tempo” e della “memoria” che l’artista qui tratta nell’ambi-to della materia naturale dopo averlo trattato in accezione storica e collettiva, ma anche intima e personale. Elementi naturali quali alberi, sassi, foglie, ortaggi sono stati al centro di tante sue opere. A questa mostra partecipa suo marito Pierangelo con alcune opere -sem-pre di fotografia- che in comune hanno il tema delle foglie. Nelle immagini di ESP sono basilari la composizione dell’immagine, la

di Sara Chiarello twitter @Sara_Chiarello

Divina Commedia elettronica

Visite di fogliedi Elena SalviniPierallini

Edoardo Malagigi, Matita, 32 cm, prototipo da cui il comune di Brescia

ne ha realizzato una versione che si ricava, ritagliandola e piegandola da un cartoncino A4, in 5.000 copie che verranno regalate ai partecipanti alla

Giornata della Memoria. Courtesy Fondazione Sensus Firenze

potere cancellare quanto fatto e quindi di “correggere”, un aspet-to questo basilare nello sviluppo culturale dell’umanità attraverso l’insegnamento.L’etimo rimanda a “ematite” la componente con la quale è costituita detta anche “mina” a sottolineare la sua potenzialità esplosiva.La matita, la nostra matita è collocata a Brescia, il 28 maggio 2015, ma lo stesso giorno di 41 anni fa e nello stesso luogo, suc-cedeva una grande tragedia. L’o-pera si situa fisicamente in uno spazio e idealmente nel tempo e colma un periodo, mai interrot-to, di violenze perpetrate contro gli esseri umani e parallelamente contro le loro espressioni sociali e culturali. Nel creare questo filo conduttore fra l’inizio delle cosiddette stragi politiche degli anni ‘70 e quella di Parigi alla redazione del settimanale Charlie Hebdo, il Malagigi compie un atto di salvaguardia dei diritti dell’uomo e questa sua specifica opera si erge chiara e semplice come monito per il futuro e come ricordo per il passato.

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seguite, tra i suoi allievi Alberto Giacometti e Maria Elena Vieira da Silva. Ai tanti giovani che ac-correvano svelava i segreti tecnici ma anche un apprendimento lontano da pregiudizi e deter-minismo attraverso la lettura di note scritte sulle sue esperienze e emozioni visive. In pochi anni divenne un artista famoso e le sue opere richieste in tutto il mondo. Ormai aveva acquisito un suo stile personalissimo. Il suo atelier, quello che possiamo vedere nella visita al museo, divenne il ritrovo di artisti e intellettuali come Isa-dora Duncan, Anatole France ma

anche di molti giovani scultori provenienti da tutta Europa e dall’America. L’idea di trasforma-re il suo studio, testimone di tan-to entusiasmo e volontà in museo fu dello stesso Bourdelle anche se poi fu inaugurato nel 1949, venti anni dopo la sua morte. Oggi custodisce 500 opere in marmo, gesso, bronzo, dipinti, schizzi e pastelli. Molte anche le sculture nel grande giardino, considerato un’estensione dell’atelier, dove piante e fiori, nell’intento di Bourdelle, creano una scenogra-fia sempre differente secondo le stagioni. In esposizione anche la sua collezione privata di opere di molti artisti come Delacroix, Ingres e, naturalmente, Rodin.

Dopo 8 mesi di restauro il museo Bourdelle, in rue Antoine Bourdelle 58,

riapre con una mostra molto particolare, Mannequin d’artiste, (fino al 12 luglio) che ripercorre, attraverso rari esemplari prove-nienti da collezioni di tutto il mondo e una ricca documenta-zione, la storia di questo oggetto e lo stretto, muto legame che fin dal Rinascimento lo lega all’arti-sta nel chiuso del suo atelier. I preziosi manichini sono inseriti nel magnifico contesto di questo poco frequentato e sofisticato museo nel cuore di Montparnasse che include anche l’appartamento e l’atelier di An-toine Bourdelle (1861 – 1929), considerato uno dei più grandi scultori francesi del primo no-vecento. Visitarlo è un po’ come ripercorrere una storia umana e artistica di grande fascino. Bour-delle era figlio di un falegname e nipote di un tagliatore di pietre. Nonostante la tradizionale for-mazione accademica a queste sue origini Bourdelle attribuì sempre lo stimolo iniziale per sue qualità artistiche. Nel 1893 entrò come assistente e allievo nello studio di Rodin e ci rimase fino al 1908. In questo periodo le sue opere rivelano chiaramente l’influenza del già famoso scultore ma il dolore e la voluttà che caratte-rizzano in maniera mirabile le sculture di Rodin in quelle di Bourdelle sono rese in maniera impacciata e sovraccarica. Fino a che, ancora poco conosciuto e già in età matura, Bourdelle cominciò a trovare uno stile più personale. Questa svolta artistica ma anche esistenziale si dichiarò in tutta la sua forza nell’Heracles arcier (1907), figura eroica e manifesto di una indipendenza trovata sia pur tardivamente. L’opera in bronzo ebbe subito grande successo e oggi è in molti importanti musei. Per Bourdelle, per anni all’ombra del grande Rodin, fu davvero un nuovo ini-zio, l’occasione per esprimere la sua ricca personalità. Cominciò a insegnare (1909), e proseguirà fino alla morte, scultura all’ Aca-demie de la Grande Chaumière, nota per il suo anticonformismo fuori dai modelli accademici del tempo. Le lezioni originalissi-me di Bourdelle erano molto

In fuga dall’ombra di Rodin

di Simonetta [email protected]

Il migliore dei Lidipossibili

Dichiarazione elettorale di un candidato di una lista d’appoggio

Disegnodi Lido Contemori

Didascalia di Aldo Frangioni

di lido [email protected]

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re riecheggiare le parole dell’amico che affronta il poeta a muso duro: “Tu? Non sei dei nostri. / Non ti sei bruciato come noi al fuoco della lotta / quando divampava e ardevano nel rogo bene e male.” Ogni partecipante alla camminata aveva con sé il testo della poesia e alla sosta per il pranzo, a Capalle, abbiamo recitato insieme, con forza, la poesia. Si è ricordato poi, come questa zona, e in particolare Campi, più volte è richiamata in testi della let-teratura, da Dante Alighieri (XVI Paradiso) a Gabriele D’Annunzio (allievo dell’Istituto Cicognini di Prato, con i suoi compagni in gita sul Bisenzio), da Giovanni Boc-caccio ( Federigo Alberighi, Gior-nata V, Decamerone) a Curzio Malaparte ( Maledetti Toscani). Durante la camminata il pensie-ro è andato anche ai personaggi del cinema e della televisione, ai giovani Roberto Benigni e Carlo Monni (la trasmissione tv Onda Libera ambientata in una stalla di Capalle), al Roberto Benigni di Berlinguer ti voglio bene e all’am-bientazione nella Casa del popolo di San Piero a Ponti, a Francesco Nuti e alle scene del film Il signor Quindicipalle, girate nella piazza di Capalle. Un paesaggio dunque, quello della quarta tappa dell’Anello, ricco di riferimenti culturali che hanno, in un certo modo, allegge-rito il cammino, in certi momenti impegnativo per il fango dovuto alle recenti piogge e per la crescita – in questa stagione di tarda primavera – specie in alcuni tratti, di rovi ed erbe. La viva raccoman-dazione è che le amministrazioni comunali interessate competenti, provvedano periodicamente alla sua manutenzione, con tagli rego-lari della vegetazione. Un’ultima ciliegina sulla torta, è rappresentata dal Castello di Calenzano e dalla sua Rocca, che fu d’importanza strategica nel sistema difensivo della piana fiorentina – sottoposto all’assedio di parte di Castruccio Castraca-ni – e dal Museo dei Soldatini e delle Figurine Storiche, una piccola meraviglia, aperto nel fine settimana grazie all’opera di volontari. Un tocco raffinato di cultura al termine della bella, insolita camminata. Il prossimo trek sarà da Calenzano a Vaglia, il 20 settembre prossimo, con la “scalata” di Monte Morello.

Percorso particolare quello della quarta tappa dell’A-nello del Rinascimento,

nella pianura fiorentina, lungo gli argini del fiume Bisenzio e del fiume Marina. La sezione toscana di TrekkingItalia ha organizzato questa tappa nella penultima domenica del mese di maggio, sul percorso Signa – Castello di Signa – Renai – Torrente Bisen-zio – San Mauro – San Pietro a Ponti - Campi Bisenzio – Capalle – Calenzano; la lunghezza è di 17 km, che si percorrono in circa sette ore. Per raggiungere Signa da Firenze, sono frequenti i treni della linea per Pisa; al ritorno da Calenzano, il bus della linea urbana n. 2, parte nelle vicinanze del Castello. Il percorso ci porta a incontrare quattro castelli e borghi, con testimonianze affascinanti dell’im-pronta medievale dei paesi, dal Castello di Signa alla Rocca degli Strozzi a Campi – che conserva anche la preziosa Villa medicea di Montalvo - a Capalle a Calenzano Alto. La caratteristica principale della camminata è però l’aspetto naturalistico, caratterizzato, fra l’altro, dalla presenza nel greto dei fiumi e sugli argini, di numerose tipologie di volatili, compreso l’airone cinerino. Dagli argini s’intravedono numerose cascine abbandonate e altre costruzioni, testimonianza di uno sfruttamen-to intensivo avvenuto nel passato della fertile pianura risultata dalle notevoli opere di regolazione delle acque, con chiuse e canali scol-matori, di origine granducale e di tempi più recenti, in una zona che nel corso del Novecento ha conosciuto tre disastrose alluvioni. In alcuni tratti, specie sul fiume Marina, la presenza di masse ina-nimate di vecchie fabbriche con rivoli d’acqua che si riversano nel fiume. Il pensiero va alla poesia “Presso il Bisenzio” di Mario Luzi che inizia con le parole:“La nebbia ghiacciata affumica la gora della concia / e il viottolo che segue la proda. .. “. Nell’ultima parte della poesia poi un altro tratto del nostro paesaggio:“ … mentre l’acqua della gora fruscia, / mentre ronzano fili alti nella nebbia sopra pali e antenne.” È fatto di immedesimarsi nel paesaggio della poesia, ci si aspetta di incontrare i quattro amici della gioventù di Mario Luzi e di senti-

Per borghi, castelli e argini di fiume

di roBerto [email protected]

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Cosa hanno in comune un imprenditore argentino, le paradisiache isole dei

Caraibi e la Villa di Cafaggiolo, a Barberino di Mugello? Tutto ciò, che potrebbe sembrare il prologo di un thriller jamesbondiano, è in realtà l’inizio di una scommessa importantissima per la rivalutazione del patrimonio culturale mugellano e fioren-tino.Andiamo con or-dine. Quattro anni fa, precisamente nel Settembre 2011, fece notizia il fatto che Alfredo Lowenstein, già proprietario di resort di lusso ai Caraibi e negli Stati Uniti, avesse acquistato la Villa di Cafaggiolo, splendido lascito mediceo sulle colline tra Bar-berino di Mugello e San Piero a Sieve. Il progetto di Lowen-stein, a cui si interessò con piacere anche il Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, avrebbe trasformato il palazzo trecentesco in un moderno re-lais-château, completo di campo da golf, scuderie e campo da polo. L’operazione fu nominata “Progetto Cafaggiolo”, anche se comprendeva l’annessione di ulteriori casali abbandonati nelle aree circostanti. Entusiasti, i comuni interessati chiamarono al miracolo, sicuri che il proget-to avrebbe portato occupazione ed avrebbe attirato i portafogli di altri investitori sul nostro territorio.Quasi quattro anni dopo, nel Gennaio 2015, nella villa medicea, ancora intatta se non per un’armatura di impalcature, veniva firmata la lettera d’inten-ti, con il proposito di iniziare i lavori quanto prima.Mentre aspettiamo che il signor Lowenstein cominci la ristrut-turazione, perché non parlare della splendida architettura di questa perla rinascimentale? Patrimonio dell’UNESCO, all’interno del complesso di Ville e Giardini Medicei della Toscana, il palazzo risale molto probabilmente ai primi del ‘300, con un’attività radicata e riconosciuta già nel 1359. La sua forma è rettangolare, come

voluta dal Michelozzo, che ci lavorò a partire dal 1451. Sem-pre di questo periodo sono le stanze con sale comunicanti che corrono per tutto il perimetro interno della villa, proprio sopra le logge. Michelozzo concluse l’ampiamento con la costruzio-ne di una seconda torre, di un fossato e del piazzale antistante la villa. Tutto questo ci è noto perché addirittura il Maestro Vasari dedicò qualche riga al Cafaggiolo nel suo “Le Vite”. Con Cosimo I la villa assunse tutte le caratteristiche dell’o-pulenza ed eleganza medicee; egli introdusse, infatti, un più vasto salone dal soffitto di legno magistralmente decorato e stan-ze con volte a crociera e travi a vista. Infine, fece aggiungere una riserva di caccia nella quale poteva mettere in mostra gli animali più rari ed esotici.Durante il periodo dell’Unità d’Italia il palazzo fu venduto al rampollo di una delle famiglie più ricche e conosciute dell’ari-stocrazia romana: il Principe Pa-olo Borghese. Egli fece trasfor-mare il Cafaggiolo in una villa ibrida tra lo stile romantico del giardino e le influenze neo-ri-nascimentali degli affreschi del soggiorno. Nel dopoguerra la Villa passò alla congregazione dei Frati Trappisti, che la lascia-rono in mano a privati fino ai giorni nostri. Dopo tutte queste trasforma-zioni, da fortezza a sontuoso palazzo mediceo a Villa roman-tica, non ci resta che aspettare e vedere cosa i progetti di Alfredo Lowenstein hanno in serbo per questo notevole patrimonio.

di andrea BamBi [email protected]

aldo Frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della Bella

ScottexIpposculturacartacea, cavallo senza destriero, Omaggio ad Ugo Sanchez, il cavallo scosso della contrada del Leocorno, che nel 2001 vinse il Palio di Siena, il cavallo lituano del Barone di Munchhausen tagliato in due durante una battaglia contro Turchi, bozzetto per una cavalcata del Gattamelata etc. etc. quanti altri titoli si possono trovare a questa meravigliosa opera del della Bella. Quanti altri artisti, dando-si all’ippica, possono vantare lavori come questo?

Sculturaleggera

il resortcaraibicodei medici

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Acqua, vetro, cera, ferro, piom-bo… rumore, parola, luce gli elementi di cui si compone la mostra che Gregorio Botta ha ideato per la Galleria Il Ponte. La levità di rarefatte strutture sospende immagini e suoni in una dimensione di indecifrabile e impermanente poesia che si definisce e si perde sulla materia.Ciò che resta è quanto riaffiora attraverso le opere che Botta compone e in cui insinuano le memorie di un canto sospeso, sottaciuto, parzialmente ine-spresso. Le opere tracciano un percorso, lo accennano senza delimitarlo, lasciano campo al visitatore di perdersi in una propria visione. Fino al 24 luglio, Galleria Il Pon-te, via di Mezzo,42/b, Firenze

Il Lyceum Club Internazionale di Firenze rende omaggio al pittore fiorentino Silvano (Nano) Cam-peggi, il cui nome salì alla ribalta internazionale come autore di celebri manifesti di successi cine-matografici made in Hollywood fra il dopoguerra e gli anni ’70.

Giovedì 4 giugno, alle 17.30, in Palazzo Giugni Fraschetti, verranno presentati per la prima volta a Firenze i suoi disegni delle “Figure fem-minili nelle opere di Giacomo Puccini’, una serie di ritratti ideali delle protagoniste delle opere pucciniane, esposti a Torre del Lago nel 2008, 150° anniversario della nascita del compositore.

in

giro

Botta al Ponte Omaggio a Nano

Galleria Continua è lieta di invitarvi a visitare la mostra Chen Zhen. Without going to New York and Paris, life could be internationalized, che si terrà presso il Rockbund Art Museum di Shanghai.

CHEN ZHEN ‘Social Investigation-Shanghai No.2‘ (detail), 1998

Galleria Continua is pleased to invite you to visit Chen Zhen. Without going to New York and Paris, life could be internationalized, the solo exhibition at Rockbund Art Museum of Shanghai.

Galleria Continua est très ravie de vous inviter à visiter l’exposition Chen Zhen. Without going to New York and Paris, life could be internationalized, au Rockbund Art Museum de Shanghai.

CHEN ZHENWithout going to New York and Paris,

life could be internationalized

May 30 - October 7, 2015

Rockbund Art Museum20 Huqiu Road, Huang Pu District, Shanghai, China

www.rockbundartmuseum.org

Via del Castello 11 53037 San Gimignano (SI), ItaliaTel. +39.0577.943134 | [email protected]

Dashanzi 798 Art District #8503, 2 Jiuxianqiao Road Chaoyang Dst. 100015 Beijing, ChinaTel. +86.1059789505 | [email protected]

46, rue de la Ferté Gaucher, 77169 Boissy-le-Châtel, France Tel. +33 (0)1 64 20 39 50 | [email protected]

Aguila de OroRayo 108, Barrio Chino de La Habana, Cuba

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horror

vacuiDisegni di Pam

Testi di aldo Frangioni

Ci sono occasioni che ci fanno pensare che poco è cambiato dalla battaglia di Lepanto, da quella di Waterloo, di Stalingrado o, ancora più lontano nel tempo di quella di Bannackbum, quando l’armata scozzese, nel 1314, sconfisse le truppe di Eduardo II di Inghilterra

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L

Siamo sempre al “Memorial Day”, il Giorno della Memoria, un’evento che all’epoca mi colpì per la grande partecipazione popolare. Ai miei occhi sembrò una via di mezzo tra la festa paesana e il desiderio di mostrare in pubblico tutti quei sentimenti patriottici che negli Stati Uniti fanno parte integrante della cultura materiale della popolazione. La trasversalità delle presenze fu, per un’italiano come me,

decisamente sconvolgente sia per la qualità che per le dimensioni della folla. Sono ormai passati parecchi decenni e non saprei dire se le mie considerazioni siano ancora attuali oppure no. A volte penso che sarebbe piuttosto interessante tornare indietro per verificarlo.

San Jose, California, 1972

Dall’archiviodi maurizio Berlincioni

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