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N° 1 20 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Il cannone è una sagoma nera contro il cielo cobalto ed il gallo passeggia impettito dentro il nostro cortile se la guerra è finita perché ti si annebbia di pianto questo giorno d’aprile Ma il paese è in festa e saluta i soldati tornati mentre mandrie di nuvole pigre dormono sul campanile ed ognuno ritorna alla vita come i fiori dei prati come il vento di aprile E la Russia è una favola bianca che conosci a memoria e che sogni ogni notte stringendo la sua lettera breve le cicogne sospese nell’aria il suo viso bagnato di neve E l’Italia cantando ormai libera allaga le strade sventolando nel cielo bandiere impazzite di luce e tua madre prendendoti in braccio piangendo sorride mentre attorno qualcuno una storia o una vita ricuce e chissà se hai addosso un cappotto o se dormi in un caldo fienile sotto il glicine tuo padre lo aspetti con il sole d’aprile E’ domenica e in bici con lui hai più anni e respiri l’odore delle sue sigarette e del fiume che morde il pontile si dipinge d’azzurro o di fumo ogni vago timore in un giorno di aprile Ma nei suoi sogni continua la guerra e lui scivola ancora sull’immensa pianura e rivela in quell’attimo breve le cicogne sospese nell’aria, i compagni coperti di neve E l’Italia è una donna che balla sui tetti di Roma nell’amara dolcezza dei film dove canta la vita ed un papa si affaccia e accarezza i bambini e la luna mentre l’anima dorme davanti a una scatola vuota Suona ancora per tutti campana e non stai su nessun campanile perché dentro di noi troppo in fretta ci allontana quel giorno di aprile. Francesco Guccini Quel giorno d’aprile

Cultura Commestibile 120

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N° 120

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Il cannone è una sagoma nera contro il cielo cobaltoed il gallo passeggia impettito dentro il nostro cortilese la guerra è finita perché ti si annebbia di piantoquesto giorno d’aprileMa il paese è in festa e saluta i soldati tornatimentre mandrie di nuvole pigre dormono sul campanileed ognuno ritorna alla vita come i fiori dei praticome il vento di aprileE la Russia è una favola bianca che conosci a memoriae che sogni ogni notte stringendo la sua lettera brevele cicogne sospese nell’aria il suo viso bagnato di neveE l’Italia cantando ormai libera allaga le stradesventolando nel cielo bandiere impazzite di lucee tua madre prendendoti in braccio piangendo sorridementre attorno qualcuno una storia o una vita ricucee chissà se hai addosso un cappotto o se dormi in un caldo fienile

sotto il glicine tuo padre lo aspetticon il sole d’aprileE’ domenica e in bici con lui hai più anni e respiri l’odoredelle sue sigarette e del fiume che morde il pontilesi dipinge d’azzurro o di fumo ogni vago timorein un giorno di aprileMa nei suoi sogni continua la guerra e lui scivola ancorasull’immensa pianura e rivela in quell’attimo brevele cicogne sospese nell’aria, i compagni coperti di neveE l’Italia è una donna che balla sui tetti di Romanell’amara dolcezza dei film dove canta la vitaed un papa si affaccia e accarezza i bambini e la lunamentre l’anima dorme davanti a una scatola vuotaSuona ancora per tutti campana e non stai su nessun campanileperché dentro di noi troppo in fretta ci allontanaquel giorno di aprile.

Francesco Guccini Quel giorno d’aprile

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Da nonsaltare

al teatro dell’Opera di Firen-ze andrà in scena da lunedì 27 il Fidelio di Beethoven,

diretto da Zubin Metha con la regia di Pier’ Alli, regista toscano che negli anni settanta e ottanta ha fatto parte dell’avanguardia teatrale italiana e i suoi spetta-coli hanno avuto importanti riconoscimenti nei festival più prestigiosi d’Europa. In seguito è passato alla regia operistica nei più grandi teatri lirici, dove ha applicato le nuove tecnologie vi-deo con soluzioni scenografiche. In questa messa in scena dichiara di non voler essere trasgressivo ma di voler esprimere il contenu-to Idealista del libretto che vede una situazione serena trasformar-si in tragedia fino alla soluzione finale straordinaria che rivela la fiducia in una dialettica di spirito idealista del primo ottocento. Lei accennava ad un ritorno dell’opera ad una ambientazione scenica classica senza forzature verso una modernizzazione a tutti i costi.Io rispetto la classicità dell’opera pur con una sigla moderna per cui non faccio dissacrazioni e posso così aderire ad una ideolo-gia come quella del Fidelio che è di stampo idealista, profonda-mente idealista, lontanissima da tutta la filosofia nichilista, del dubbio eccetera. Io sono molto rispettoso della musica, la trama viene nobilitata dalla musica perché di fronte ad un libretto fragile com’è quello del Fidelio, la musica riesce a farlo andare ol-tre, a portarlo nella trascendenza.Lei viene dal teatro di ricerca, come vede la ricerca applicata nel teatro dell’opera. Difficile dirlo per me perché tanto modernismo di oggi non posso neanche seguirlo, mi irrita, lo trovo stupido. Molti di questi registi non credono nella musica, non credono nell’opera hanno un progetto e il risultato è solo uno sberleffo, pensano: chi me lo fa fare? se lo faccio lo faccio ridendo. Questa è un po’ la filosofia di oggi. Ho visto alla televisione un Fidelio spaven-toso. La scena è ridotta ad un retroscena di un palcoscenico con operai che lavorano … en-trano con le bandiere alla fine... sembra non si sia capito cosa c’è dentro quella struttura musicale.

Il Pier’Allifurioso

di daniele [email protected] Poco rispetto per il libretto ma

soprattutto non c’è rispetto per la musica. Mi domando come i direttori di oggi possano dirigere, lo fanno perché il denaro co-manda comunque, lo dice Rocco nell’opera: se non hai dell’oro appresso non puoi esser davvero felice. E dirigono col naso tuffa-to nella partitura. Tutte le conquiste del novecen-to sul piano del linguaggio: la simbiosi tra parole e musica, l’unione delle arti, i colori, pen-siamo a Rimbaud, il valore delle parole dov’è andato a finire? Uno guarda il palcoscenico e vede tutto il contrario di quel che dice la musica, c’è un sovvertimento totale dei valori. Io infatti non riesco a vedere opere che non abbiano una certa linea perché mi sembra che la musica sia ridotta a musica di scena. Ad esempio avevo questa sensazione anni fa di fronte ad un Macbeth di Nekrosius dove mi sembrava che lui non avesse familiarità col teatro musicale, mentre è bra-vissimo nella prosa, non pareva avere il senso della dimensione macroscopica che l’Opera dà e riduceva l’azione in un quadra-tino dove le streghe razzolano. Lui porta nella lirica la dimen-sione del teatro di parola che è uno degli errori più ricorrenti dei registi teatrali. La dimensio-ne della musica e dell’opera è un’altra: macroscopica, per cui non puoi ridurla alla minuzio-sità di una piccola azione. Però Nekrosius, al di là della riduzio-ne dello spazio, non tradiva il contenuto musicale. Invece ora si assiste ad una Traviata in cui lui taglia le zucchine mentre canta di Provenza il mare e il suol. Es-senzialmente i direttori di teatro vogliono lo scandaletto e anche se gli spettacoli vengono decre-tati come insuccessi di pubblico continuano a farli, preferiscono

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Da nonsaltare

il pubblico arrabbiato a quello plaudente. Da parte di questi registi c’è più la voglia di scherni-re che la generosità verso il teatro e la musica. Questi enti lirici italiani che fine faranno?Io penso che dureranno tanto, tutte le istituzioni si arroccano su se stesse, come avviene in politi-ca, l’importante è sopravvivere, quindi non possono smontare tutto quanto. Hanno costruito grandi teatri e li dovranno pure abitare in qualche modo, per cui durerà. Ci saranno tempi miglio-ri se torneranno i soldi, perché adesso la mancanza di finanzia-menti causa problemi, anche profondi. L’avvento del minima-lismo in palcoscenico è avvenu-to anche per questo motivo, poi ne hanno fatto una filosofia, ma sono convinto che sia avvenuto per mancanza di risorse e allora pigliano una seggiola e con quel-la si fa regia. Tutti, compresi i direttori di teatro, lodano la regia che ha saputo mettere una sedia in palcoscenico. Come vede la politica culturale in Italia?La politica culturale fa schifo, in-vestono pochissimo e non sanno neanche di cosa si tratta. Anche se tifo un po’ per Renzi perché è l’unico che mobilita un po’ la situazione italiana di fronte al

“La politica culturale italiana fa schifo

“Il teatro di 20-30 anni fa era grande teatro, adesso non c’è nulla

blocco totale, mi chiedo se avrà attenzione verso la cultura. Il ministro Franceschini si interessa veramente alla cultura, non lo so, non si è visto molto. Vedi lo stento con cui procedono i lavori a Pompei che ancora crollano pezzi di cose.Il teatro di prosa e di ricerca adesso c’è?No, non c’è nulla. Anche qui si fa del minimalismo con un atto-re solo in scena che fa monolo-ghi, si fa le domande e risponde. Questa è la drammaturgia di oggi. Il teatro di venti trent’anni fa era grande teatro. Io ho assisti-to a spettacoli memorabili. Era-no lezioni di teatro e di bravura, oggi applaudono per qualsiasi stupidaggine perché non hanno altro. Non sanno cosa può essere il teatro, con i mezzi, l’intelligen-za, la disciplina, il lavoro. Se non c’è l’attore eccezionale a reggere il palcoscenico, ormai la dram-maturgia è ridotta a pochissimo. Tanti lo fanno con presunzione e basta: io mi faccio il mio spet-tacolino. La gente va a vederli e poi applaude anche, talmente è povero il bagaglio culturale ge-nerale che si possono applaudire anche queste stupidaggini. Progetti futuri?Porterò il Fidelio a Madrid poi di altre cose meglio non parlarne per scaramanzia.

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Dopo oltre un anno di imbaraz-zante silenzio, si sono levate le trombe del Movimento 5 Stelle in Palazzo Vecchio, rendendoci così edotti della sua esistenza e dando un senso alla elezione di un drappello agguerrito di consiglieri nel Salone de’ Dugen-to. Così, la consigliera comunale Silvia Noferi, punta di diamante dei pentastellati, ha avviato una virulenta battaglia per la giustizia in questo paese (e Dio solo sa se ce n’è di bisogno!): sia ripristinata giustizia per tale Alighieri Dante, condannato ingiustamente 700 anni or sono e si annulli la sentenza del 27 gennaio 1302, riabilitandolo agli occhi di tutti! Et voilà! Ci immaginiamo l’Avvocatura di Palazzo Vecchio freneticamente al lavoro per preparare appello (ma a chi? Difficile individuare gli eredi dell’istituzione che nel 1302 pronuncia l’impudica sentenza), cercare codici e codicilli delle norme dell’epoca a cui ricorrere per inficiare la sentenza, appel-larsi alla Corte di Giustizia di Strasburgo. Tutto ciò condito da una sommossa popolare, nella rete s’intende. E, intanto, la Noferi tuona contro la timida e titubante Giachi (vice sindaca di Firenze): “Non emettere atti ufficiali per rimediare a quanto ingiustamente comminato vuol dire tenersi fuori dalla storia … e dimostrare, se ancora ce ne fosse bisogno, quanto poco amore per

la cultura si nasconda in realtà in Palazzo Vecchio”.Una sola domanda oggi ci assilla: come sia stato possibile che il nostro caro Eugenio Giani

(presidente del Comitato per le celebrazioni del 750° della nascita del divin poeta, ça va sans dire) si sia lasciato sfuggire una simile lodevole iniziativa?

riunione

difamiglia

Finalmente abbiamo scoper-to il vero dramma del mite Matteo Salvini. Eccesso di sudorazione ascellare. E’ questa eccessiva produzione delle sue ghiandole sudorifere che lo ob-bligano a cambiare maglietta ogni pié sospinto. Nel suo giro in Toscana ne ha cambiate di-verse. All’inizio aveva pensato di sfruttare questo handicap per proporre i suoi program-mi elettorali. Ma questa idea è stata subito abbandonata perchè lo spremersi le meningi produceva un ulteriore produ-zione ascellare con evidenti in-convenienti anche nel suo staff più intimo. Così per evitare

danni si è pensato di scrivere sulle magliette solo slogan facili facili che non impegnavano troppo il cervello.. Ma non perchè non vi fosse la capacità di produrre idee. Giammai. Chi lo pensa è in male fede. Naturalmente le cose facili fa-cili sono facili anche ad essere copiate e così anche gli altri partiti si sono adeguati. E’ tutto un proliferare di slogan. Tutti per Titta, Giani per i To-scani, e via slogheggiando. Noi modestamente suggeriamo uno slogan semplice semplice. Sco-pritevi i programmi e copritivi gli slogan. Anche per il rispetto della pubblica decenza.

Neppure il vostro Zio, che pure di un anarchico illustre èparente in linea diretta, è riuscito a resistere alle sirene dell’incipiente campagna elettorale per le regionali in terra di Toscana. E siccome mi piace vin-cere, mi sono subito accodato alla campagna della (vincente, senza tema di smentita) vice presidente Stefania Saccardi. Del resto la sua campagna è tutto un program-ma: il suo asso nella manica sono i “Sac-caffé”, tra le 8 e le 9,30 colazione pagata per tutti nei vari caffé della città. Così mi presento al primo bar della lista e mi trovo davanti mezzo cornetto e mezzo cappuccino. Vero che la campagna della Saccardi si annuncia sobria, ma così mi sembrava eccessivo. Incuriosito, ne domando ragione. Un cortese inserviente mi allunga un foglietto: “Testa e cuore. Torna il 1° giugno: mezzo cornetto e mezzo cappuccino pagati. Stefania, tradizione e innovazione”.

le Sorelle Marx lo Zio di trotZky

i CuGini enGelS

Dante libero! Il caffèsospesoa metà

La politica da indossare

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Arte pubblicaArte privataMargherita Levo Rosenberg

Nell’opera d’arte contempora-nea confluiscono innumere-voli tensioni: la percezione,

l’interpretazione, la rappresenta-zione, l’armonia fra forma con-tenuto, l’equilibrio dualistico fra l’esperienza personale e l’espressio-ne, nonché fra il senso collettivo e la comprensione soggettiva sono solo alcuni dei dettami estetici del contemporaneo. Dall’altra parte operare oggi nella dimensione artistica significa porsi oltre le categorizzazioni canoniche, oltre la sistematicità delle discipline e oltre le sfere individualistiche di ricerca, mettendo in risalto la necessità pragmatica di una com-penetrazione di più riflessioni, in quanto unica modalità possibile per cogliere e dare un’immagine del reale maggiormente aderen-te alla complessità quotidiana. L’opera d’arte di Margherita Levo Rosenberg si inserisce pienamente nell’idea che l’Arte è una ricerca a metà strada fra il sé e l’altro da sé, in senso profondo e conscio delle pulsioni che risiedono nella percezione estetica del mondo e nella volontà di dare una forma ai concetti imprevedibili e impren-dibili, sfuggenti agli occhi della collettività sempre più disarmata, poco attenta e spesso incapace di procedere cognitivamente oltre le tautologie e le apparenze, rimanendo vincolata a un ciclo infinito di corsi e ricorsi ermeneu-tici. Solo il genio artistico ha la facoltà di dare luogo al progresso estetico, mutando le prospettive e rinnovando i linguaggi artistici in nome dello scarto dalla norma e del rinnovamento, non solo collettivo ma anche individualisti-co e personale. In tal senso entra in gioco l’immaginazione creativa come spinta trascendentale ad at-tuare un processo intellettivo vol-to a superare la ciclicità del tempo e la stasi spaziale, con l’intento di dare luogo a una mutevolezza che elabora i dati sensibili, registra le emozioni e crea un’espressione densa di prospettive che acquisi-scono, combinano ed elaborano i concetti astratti che l’artista di volta in volta mette in luce. Per Margherita Levo Rosenberg la dimensione culturale dell’arte non si è mai separata da quella naturale dell’uomo e, per tale motivo, non può fare altro che prendere coscienza della necessità Preghiere perdute, veduta dell’installazione

di laura [email protected]

di una sintesi delle multi-direzio-ni del pensiero contemporaneo. Nelle sue opere pubblico e privato si amalgamano in una poetica espressiva in cui il tempo e lo spa-zio si annullano, pur rimanendo immanenti nell’istante creativo, in virtù di un ardore soggettivo, che ricerca il senso dell’arte nell’arte stessa, come unico strumento di comunicazione e rivelazione espressiva. Da qui nasce la speri-mentazione sulle simbologie dei concetti, oggetti conici e riccioli che impongono alla materia e alle immagini un movimento spiraliforme, in quanto fram-menti attraverso i quali indagare, vagliare ed esaminare le possibilità di una creazione artistica capace di annullare le distanze esistenziali e ritornare a un luogo d’origine e a un grado zero di autenticità meditativa, priva di aporie e co-strizioni ideologiche. Non a caso le installazioni si contaminano perfettamente con la spazio circo-stante, anche attraverso le com-posizioni in versi che spesso vi si sovrappongono, coinvolgendo direttamente il fruitore costretto a entrare in contatto con l’opera e apprendere che al centro della riflessione artistica vi è un comu-ne denominatore fra l’oggetto e il concetto, in una resa originale e inedita che si adatta esattamente alle esigenze percettive, poiché l’arte è anche una terapia dello spirito e in essa la coscienza può operare un’introspezione contem-plativa tesa a generare liberamente pensieri e riflessioni.

Celeste tallit, installazione multimediale, hd

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William (Bill) Vandivert (1912-1989), dopo avere studiato presso lo

Art Institut di Chicago, inizia a fotografare nel 1935, come fo-toreporter per lo Herald Exami-ner di Chicago, per passare poi alle dipendenze della prestigiosa rivista Life, da poco acquistata da Henry Luce e trasformata nel maggiore settimanale americano di informazione, basato sul gior-nalismo fotografico. Vandivert fotografa per Life gli effetti della grande depressione a Kansas City ed il Mardi Gras di New Orleans. Su richiesta di Life nel dicembre del 1938 si trasferisce in Inghilterra per documentare l’imminente conflitto. Negli anni che seguono, sempre per conto della stessa rivista ed al seguito delle truppe americane, fotografa il corso della guerra che sconvolge l’Europa. Van-divert è il primo fotoreporter ad entrare nella Berlino appena conquistata, dove documenta quello che resta di una città completamente devastata dai bombardamenti anglo ameri-cani. E’ anche il primo fotore-porter ad entrare nel bunker di Hitler, ed il primo a procurarsi le ultime immagini di Hit-ler scattate dal suo fotografo personale Heinrich Hoffmann. Fotografa la liberazione dei pri-gionieri e dei reclusi nei campi di lavoro nazisti, i “Monuments Men” che recuperano le opere d’arte trafugate, e le condizioni in cui si trovano la Germania e l’Europa dopo la fine del conflitto. Nell’immediato dopo-guerra Vandivert lascia Life per compiere una serie di viaggi nei diversi continenti, viaggi che lo occupano per un anno intero. Nel corso della guerra conosce Robert Capa, e viene sedotto dall’idea di fondare insieme a lui una nuova agenzia foto-grafica, indipendente, su base cooperativa, e proprietaria dei negativi di cui sarebbero stati ceduti alla stampa di informa-zione solo i diritti di riprodu-zione. Come è noto questa idea viene concretizzata dopo la fine della guerra. Nel corso di una famosa riunio-ne tenuta il 17 aprile del 1947 nel ristorante del Moma di New York, si decide di fondare

di danilo [email protected]

l’agenzia Magnum, che nasce ufficialmente il 22 di maggio, con il nome “Magnum Pho-tos Inc.”, con una sede a New York ed una a Parigi. I soci fondatori sono cinque, Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, George Rodger, David Seymour “Chim” e Bill Vandivert. La moglie di Vandivert, Rita, viene eletta presidente e responsabile della sede di New York. Per ragioni che non è dato cono-scere, già nel 1948 Bill e Rita Vandivert abbandonano la Magnum, mentre gli altri quat-tro fondatori si spartiscono le relative zone di influenza, l’Asia a Cartier-Bresson, L’Europa a Seymour, l’Africa a Rodger, l’America ed il resto del mondo a Capa. I coniugi Vandivert vengono di fatto cancellati dalla storia della Magnum, ed in molte delle pubblicazioni storiche della Magnum si conti-nuerà a parlare solo dei “quattro fondatori” storici, omettendo il nome di Bill Vandivert. Grazie al lavoro del “quattro fondato-ri”, a cui si aggiungono come soci nel 1949 Werner Bishof, nel 1950 Ernst Haas, e succes-sivamente molti altri fotore-porter, la Magnum cresce fino a diventare un mito nel mondo del fotogiornalismo. Da parte loro, gli “esclusi” Bill e Rita Vandivert continuano a lavorare da indipendenti, dedicandosi a temi diversi da quelli affrontati in passato. Forse disgustati dalle atrocità viste e vissute nel corso della guerra, e stanchi di seguire la sofferenza del mondo e le guerre locali, come la Corea e l’Indoci-na, si impegnano a fotografare la natura e gli animali selvaggi, pubblicando numerosi libri con testi di Rita ed immagini di Bill. Nel 1959 i due si recano in URSS, e dal 1965 al 1966 Bill diventa presidente della American Society of Magazine Photographers, riscattando così almeno in parte quell’oblio a cui lo aveva condannato l’ab-bandono della Magnum.

Il quintoMagnum

Bill Vandivert

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Si è svolto due settimane orsono la seconda edizione del Convegno “Spaziare02.

Paesaggio tra passato, presente e futuro”, nella cornice di Villa Chigi a Castelnuovo Berarden-ga, organizzato dall’associazione MultiKulti, con sede a Firenze, in collaborazione con il comune senese. L’obiettivo dell’incontro è stato quello di sviluppare un dialogo sul paesaggio come pa-trimonio vivente e seguire la sua evoluzione nel tempo, partendo da molteplici punti vista con un approccio basato sulla contami-nazione dei saperi che utilizzano metodologie divergenti. Questo metodo porta a una visione sfaccettata e multiforme della realtà analizzata e alla scoperta di un’infinita rete di collegamenti, un crossing over che lega il pae-saggio non solo a saperi tradizio-nali - la geografia, l’archeologia, l’architettura, l’agricoltura – ma anche a mondi apparentemente lontani, come le neuroscienze, la letteratura, la poesia, il cinema, le tecniche della comunica-zione. Emblematico il nome dell’associazione, MultiKulti, che richiama il neologismo nato verso la fine degli anni ’80 nella Germania Ovest che all’epoca stava affrontando le nuove pro-blematiche legate agli immigrati di seconda generazione. E’ stato interessante, oltre che piacevole, seguire i due giorni di lavoro del convegno, durante il quale è stato presentata una documentazione visiva di grande fascino, a partire dalle immagini sui paesaggi senesi. La sensazione è che in questo percorso si dà un’inedita centralità al ruolo del paesaggio, creando nuovi scenari culturali. Si è parlato nel Convegno di un nuovo “sguardo” sul paesaggio, della sua percezione e del senso di appartenenza e si è discusso di quanto di virtuoso e incorag-giante sta accadendo nel presente. L’obiettivo primario è stato quello di sostenere tendenze positive che possano avere effetti e ricadu-te nel futuro anche prossimo, e di individuare, al tempo stesso, criti-cità e vulnerabilità. La discussione ha coinvolto docenti universitari, architetti, giornalisti, letterati, artisti, archeologi e geografi e vi è stato spazio anche per riflessioni

L’importanza del dialogo sul paesaggio

di roberto [email protected] dentro il sistema di comunicazio-

ne della società dello spettacolo, fa correre il rischio di “narrare” il paesaggio nei termini di uno spot pubblicitario. Mariachiara Pozzana, architetto, ha parlato del restauro del paesaggio – “ un bene culturale vivente” – come di “un’utopia possibile”. Annalisa Giovani, ricercatrice, ha posto in evidenza il valore delle “rimanen-ze ferroviarie”, capaci di influen-zare la fisionomia dei paesaggi e le dinamiche sociali a esse legate. Andrea Marzi, psicoanalista, ha offerto punti di riflessione nei confronti di alcune poesie di Mario Luzi incentrate sulla terra senese e sul paesaggio di questa zona. Franco Cambi, docente di archeologia del paesaggio, ha mostrato i frutti portati di questa disciplina nella costruzione dei Piani Paesaggistici regionali e nella preparazione di strumenti predittivi e di tutela, di nuove forme di comunicazione e di va-lorizzazione delle identità cultu-rali locali. Da parte di chi scrive, infine, un richiamo ai ruoli di promozione e di salvaguardia, che stanno svolgendo alcune associa-zioni, come quelle escursioniste, interessate alle nuove acquisizioni conoscitive sul paesaggio e alla divulgazione fra i cittadini, dei valori a esse legati.L’auspicio, dunque, è che l’intrec-cio delle voci di questo dialogo si sviluppi e divenga sempre più partecipato, in attesa di prossimi, significativi appuntamenti come quello della terza edizione, nel 2016, del Convegno Spaziare a Castelnuovo Berardenga.

sul tema in ambito psicologico e antropologico.

I contributi presentati nel corso del convegno, saranno riportati, come in occasione della prima edizione, sul sito dell’associazione (www.kulti.it). Un accenno fra questi, ad alcuni interventi che presentano un carattere partico-lare. Giorgio Boatti, scrittore, si è soffermato sul libro di viaggio che si prospetta tra le proposte vincenti dell’editoria e del sistema mediatico attuale, facendo notare come questo progressivo imporsi della “narrazione territoriale”

Scavezzacollo

di MaSSiMo [email protected]

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la ciminiera si staglia ancora alta sull’orizzonte per chi si affaccia sulla

via di Novoli dal ponte di San Donato. È l’elemento che caratterizza ancora, nonostante i grandi interventi in corso, il complesso dell’area ex Fiat a Novoli. L’edificio della ex Centrale termica della fabbrica di Aeroplani sta li ad attendere il suo destino, mentre intorno ad essa si affannano le attività della contemporaneità, con la tranquillità di chi sa che da essa non si potrà prescindere per mantenere “l’anima” del luogo. Un edificio molto singolare quello della ex centrale termica. Sia dal punto di vista strutturale sia dal punto di vista dell’uso previsto.Strutturalmente l’edificio si presenta come una grande struttura in cemento armato e laterizio, per le tamponature, internamente completamente vuota fino alla quota di coro-namento della parte centrale, caratterizzata dalle grandi finestrature verticali. All’inter-no di questo immenso vano sono collocate le due centrali termiche, ancora presenti (e che l’amministrazione Domenici non fece demolire come invece era previsto), e poggianti su un solaio di cemento armato che scarica direttamente a terra, con una struttura indipendente da quella dell’edificio principale, il gigantesco peso dei due impian-ti. Quindi una sorta di struttura incastonata dentro la struttura più grande.La struttura principale inve-ce sorregge la parte più alta dell’edificio dove erano colloca-te sia le vasche per l’acqua, sia le tramogge per la lignite (che cadeva per gravità all’interno delle caldaie), sia la struttura al di sopra della quale si innalza la ciminiera. Quindi la ciminiera è strutturalmente “appoggiata” su un sistema di travi reticolari che sono collocate appena al di sotto del solaio di copertura dell’edificio. Il risultato di questo sistema è che i maggiori carichi struttu-rali sono collocati in prossimità della sommità dell’edificio, realizzando un sistema struttu-rale davvero “singolare”.

L’interno si presenta ancora oggi come una grande mac-china, di notevole suggestione, dove si impone la presenza delle due caldaie e delle scale di servizio per la manovre.L’uso previsto per la ex centrale termica è sempre stato pubblico ma solo verso la fine della prima legislatura Domenici si iniziò concretamente a pensare ad una effettiva destinazione per la cit-tà, prevedendo in questi locali il nuovo Urban Center della città.Recentemente l’assessore Titta Meucci ha riproposto questo tema. In effetti la struttura si presta ad un uso collettivo e anche a essere sede, come pensato nel progetto vincitore del concorso bandito all’epoca (nel 2004) della sede di attività collettive destinate a raccontare lo svilup-po della città (quello pensato e quello effettivamente realizzato) oltre a ospitare al piano terreno, una sorta di racconto memoria della storia della fabbrica.Nella parte superiore, come si vede bene nel progetto redat-to da Aimaro Oreglia D’Isola nel novembre di quello stesso 2004, la struttura avrebbe do-vuto ospitare anche il modello di Firenze in scala 1:1.000 che l’amministrazione, in quei tempi stava facendo realizzare alla Banca Cassa di Risparmio, come uno dei benefit pubblici a seguito del progetto di costru-zione della nuova sede a Novoli. Il modello avrebbe dovuto essere ospitato in un’apposita struttura coperta realizzata al posto del tetto piano della cen-trale termica. Un punto di vista panoramico sulla città dal quale poter guardare la città reale (al di fuori) e la città rappresentata (all’interno) e giocare così sui due piani visivi per regalare ai fiorentini un punto di vista inedito della loro città.Un progetto quello di Aimaro Oreglia D’Isola giocoso e di-vertente che ben coglie il senso ludico e didattico della fun-zione dell’Urban Center e che speriamo possa vedere presto la luce, restituendo anche alla città il modello in scala 1:1000 ad oggi ancora misteriosamente “scomparso” dalla pubblica fruizione.Articolo pubblicato sul sito ciclo-stilatoinproprio.blogspot.it/

di Joh StaMMer Alla ricerca dell’Urban Centerdi Firenze

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nifesta in questo disco la stessa maestria. Sei dei sette pezzi contenuti in Memories Lost sono stati scritti in questo secolo. Nel disco si alternano compositori delle

due repubbliche a maggioranza sinofona (quattro cinesi e un taiwanese). L’unica eccezione è il concerto per piano “Silence of Anatolia” del turco Fazil Say, in-terprete e compositore che gode ormai di larga fama. Nella com-posizione il musicista di Ankara fonde ritmi irregolari, momenti d’improvvisazione e melodie ispirate al folklore turco. Queste ultime gli sono particolarmente

care, come confermano “Alt-A-natolisches Tagebuch” (1991), la sinfonia “Mesopotamia” (2011) e altre composizioni.Il “Concerto per piano e orche-stra” di Wang Xilin mette in luce

l’influenza di Schostakovič e un forte attaccamento alla musica tradizionale cinese. La composizione è dedicata a Lu Hongun, direttore della Shanghai Symphony Orche-stra e maestro dell’autore, che fu ucciso durante la Rivolu-zione Culturale (1966-1976). In questo decennio la Cina visse un’epoca particolarmen-te buia. Il governo dispose che molte collezioni di musica classica venissero distrutte;

quella del Conservatorio di Pe-chino si salvò grazie agli studenti, che riuscirono a nascondere i di-schi. La furia del regime maoista colpì anche gli strumenti, e in particolare i pianoforti, che fu-rono bruciati in quanto “simboli dell’imperialismo borghese”.Chen Qigang, oggi cittadino francese, ha trascorso molti anni in un “campo di rieducazione”. Chen Sa propone la sua “Instan-

l’appassionato di musica classica ha imparato ad ap-prezzare numerosi pianisti

cinesi per le loro interpretazioni del repertorio europeo: da Liszt a Chopin, da Mendelssohn a Mozart. Negli ultimi anni, però, alcuni di loro hanno sentito la necessità di cimentarsi anche con le composizioni dei propri connazionali.Si tratta di una scelta merito-ria, grazie alla quale possiamo cominciare a colmare le enormi lacune determinate da un euro-centrismo ancora vivo.Il più noto dei pianisti cinesi, Lang Lang, ha inciso Dragon Songs (Deutsche Grammophon, 2006); Jie Chen gli ha fatto eco con Chinese Piano Favourites (Naxos, 2007); The Red Piano (EMI) è il titolo del CDrealizzato da Yundi Li nel 2012. A confermare questa tendenza arriva oggi la pianista Chen Sa con il suo nuovo CD, Memories Lost (BIS 2014). Vincitrice di premi prestigiosi, l’artista cinese è nota in particolare per le sue interpretazioni di Chopin, Rachmaninov e Ravel. Musicista sensibile e attenta ai dettagli, ma-

ts d’un opéra de Pékin”. Il brano rielabora appunto due temi tratti dall’Opera di Pechino, la forma teatrale autoctona nella quale si intrecciano danza, musica, pan-tomima e arte drammatica.Hsiao Tyzen (1938-2015), l’unico taiwanese, è influenzato da certi autori europei (Bartók, Chopin e Rachmaninov), ma an-che dalle musiche autoctone del suo paese. In altre parole, quelle dei popoli che vennero massacra-ti dai soldati di Chiang-Kai shek quando invasero l’isola.Autore di molte composizioni per piano, Tyzen compare con due brani, “Farewell Étude” e “Memory”, quest’ultimo tratto dalla suite “Memories of Home”. Entrambi esprimono la nostalgia del passato che viene anticipata dallo stesso titolo del CD. Taiwanese è anche la Taipei Chinese Orchestra, la prima orchestra professionale dell’isola. La dirige Chung Yiu-Kwong, compositore di rilievo. L’orche-stra cinese moderna, pur adot-tando una conformazione simile a quella europea, fa ampio uso di strumenti autoctoni e si compo-ne di quattro sezioni: cordofoni ad arco, cordofoni a pizzico, aerofoni e percussioni.

In occasione della Notte Bianca 2015, stART_art projects presen-ta alla Sinagoga e Museo Ebraico di Firenze l’installazione Orion – Frammenti di spazio di Stefano Tondo, che dialogherà per una notte con lo spazio suggestivo del Tempio Israelitico inserendosi anche all’interno del progetto Firenze Capitale dell’Esotismo curato dalla Comunità Ebraica.Orior è parola latina che significa nasco, sorgo - spuntare, cominciare, alzarsi, quasi a racchiudere in sé l’idea della radice delle cose. Da qui derivano parole come Oriente (il luogo dove sorge il sole) e, allo

stesso tempo, orto (il luogo dove la terra dà i suoi frutti), e ancora origine. I lavori della serie Orior sono ottenuti sagomando sottili lastre di ottone, una materia che non ha spessore, una materia luminosa che non suggerisce una natura organica ma un’energia primordiale. Dietro ogni forma è posizionato un dispositivo, completamente nascosto alla

vista, che emette un’onda sonora a bassa frequenza (non udibile ad orecchio umano). L’onda sonora fa entrare in vibrazione ciascuna delle lastre. L’effetto che si ottiene è un leggero tremito delle forme e il generarsi di un suono profon-do e carico di suggestioni. Nell’installazione realizzata appo-sitamente per questa occasione, Orior - Frammenti di spazio, due

lastre rettangolari sono collocate davanti alle porte del tempio. La loro superficie appare come una teoria di fosfeni, un frammento ritagliato da uno spazio infinito che, in quanto tale, non si può rappresentare per intero. L’installazione sarà visibile alla Sinagoga e Museo Ebraico di Firenze, via Luigi Carlo Farini, 6 il 30 aprile 2015 dalle 20 alle 24

di Spela [email protected]

OriorFrammentidi spaziorientalialla Sinagoga

Nuove musiche asiatichedi aleSSandro [email protected]

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Rousseau che sognava i tropici trascorrendo le ore al Jardin des Plantes, ci sono tante testimo-nianza storiche. C’è ancora l’elegante labirinto progettato da Buffon, una specie di spirale verde che termina al centro, su una piccola collina, con un chiosco di metallo del 1786. Ci

sono, enormi e vetusti, alberi plurisecolari che, con orgoglio, dichiarano la loro età e la loro origine come un acero portato dall’Asia nel 1702, un cedro dal libano nel 1734, una sofora dal Giappone nel 1747, un platano dall’oriente nel 1785... C’è, accanto a quelle grandi e bellis-

sime in vetro e metallo del XX secolo, un’ antica serra del 1714 costruita per preservare una pianta di caffè donata a Luigi XIV. C’è lo zoo, uno dei più antichi del mondo. Vi furono trasferite nel 1794 gli animali rari provenienti dalla reggia di Versailles con lo scopo di dare ai filosofi, agli artisti e agli uomi-ni di scienza materiale su cui pensare e con cui creare. Oggi lo zoo è completamente rinnovato con qualche traccia delle antiche strutture. Come tutti gli zoo, attira la curiosità dei bambini e suscita spesso la tristezza negli adulti. Rainer Maria Rilke che amava passeggiare nel Jardin des Plantes durante il suo soggiorno

parigino, sostando davanti alla gabbia di un’infelice pantera le dedicò una delle sue più belle poesie: Nel flessuoso molleggiare dei passi grevi, tornanti entro il racchiuso giro par che l’impeto danzi attorno a un centro ove un’enorme Volontà vien meno.

Guy de la Brosse, medico personale di Luigi XIII, grazie al sostegno del

potente cardinale Richelieu, convinse il Re a farsi affidare una vasta zona periferica di Parigi vicina alla Senna per creare un orto botanico di erbe medici-nali. Il progetto andò avanti molto lentamente, osteggiato dai medici più tradizionalisti che si opponevano alle sue teorie in-novative e ai suoi insegnamenti, in francese e non il latino, aperti a tutti. Finalmente, nel 1635, il terreno, un tempo deposi-to di rifiuti, divenne il Jardin Royal des Plantes Médicinalés. Quando nel 1739 il naturalista e matematico Georges Louis Leclerc conte di Buffon ne diventò intendente, lo scopo di questo luogo di meraviglie e scienza si trasformò gradata-mente dall’arte di guarire con le piante allo studio della natura e centro di ricerca. Il parco fu ampliato e il nome cambiato in Jardin des Plantes. Buffon fece arrivare piante e semi da tutto il mondo, creò un museo e le sue ricerche richiamarono i più grandi scienziati del tempo e avrebbero influenzato le gene-razioni successive di naturalisti e in particolare gli evoluzionisti come Darwin.Oggi passeggiando tra i viali e i sentieri del magnifico Jardin des Plantes, con i suoi 28 ettari il più vasto orto botanico di tutta la Francia, circondati da mille colori e varietà di vegetazione, è difficile pensare che siamo in uno dei più antichi luoghi di scienza del mondo. Dall’ingresso principale, che Claude Simenon descrive come una vasta spia-nata incorniciata da due viali di platani le cui chiome, potate ogni anno, formano due muraglie verdi continue su entrambi i lati dei prati e delle aiuole di fiori, rinno-vati secondo le stagioni, si arriva a una serie di musei, quello di Storia Naturale, di Mineralogia, di Entomologia, di Palentologia, la Grande Galleria dell’Evolu-zione, musei unici per le loro collezioni e per il loro fascino un po’ polveroso d’altri tempi. Nel parco oltre ai molti giardini a tema, immersi in quella fitta e rigogliosa vegetazione che fa da sfondo in molti quadri di Henri

Les plantes médicinalés nella discarica di Luigi XIII

di SiMonetta [email protected]

Sono vent’anni che è usci-to Grace, vetta sonora di ogni tempo, l’album dello sturm und drang sonoro, del tormento, dell’estasi e del romanticismo più puro. L’au-tore è lo splendido e angelico Jeff Buckley, icona senza tempo, bello e maledetto a finire senza scampo nelle ac-que che lo hanno inghiottito a 30 anni, nelle acque. Come era successo a suo padre, Tim Buckley, altro celebre cantau-tore, in un destino comune. Sabato 25 aprile Firenze rende omaggio a quest’artista fuori dall’ordinario, presso la Sala del Rosso a Firenze (via di Badia a Ripoli, 5), alle ore 21.30, con “Remembering Jeff”, in cui gli artisti si riuni-ranno per celebrarlo (ingresso 12 euro, info e prenotazioni : 3458253448, www.lasaladel-rosso.it). Nato da un’idea di Alessandro Gerini, il concerto

vedrà la partecipazione di diversi musicisti di spicco da Iacopo Meille (storico can-tante hard rock fiorentino, già voce dei Tygers of Pan Tang, Mantra, General Stratocu-

ster and the Masharls), alla giovane soprano Sofia Folli, a Alessandro Corsi e France-sca Pirami dei “La vague”, al coro gospel “The Vocal Blue Trains” diretto dallo stesso Gerini e molti altri. Gli ar-tisti coinvolti, seppur prove-nienti da esperienze musicali profondamente diverse, si ritroveranno complici, dal jazz al gospel fino alla lirica, per poi ritornare all’intimi-tà del rock acustico. Alle esibizioni live si alterneranno degli intermezzi con interviste ed aneddoti su Buckley, tra la formula del concerto e quella dello “storytelling”. A presen-tare la serata sarà Giulia Nuti del Popolo del Blues, marchio fondato dal giornalista Erne-sto De Pascale e programma radiofonico in onda su Con-troradio, che sarà presente anche in veste di musicista in duo con Chiara White. Ciao Jeff, ci manchi molto.

di Sara Chiarellotwitter @Sara_Chiarello Remembering

la grazia di Jeff

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Il migliore dei Lidipossibili

Ritratto e opere patriottiche inedite

di Dominikos Theotokopoulos

detto El Greco

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

di lido [email protected]

vree dei Nobili Casati mostravano gli stemmi di famiglia ed erano costruiti dagli artigiani che conia-vano le monete. La datazione di un bottone non è quasi mai faci-le, anche perchè i bottonai spesso rifacevano modelli precedenti o classici con altri materiali. Ad una Fiera Isa, fortunata, incappò in una scatola-campionario, piena di bottoni di ceramica, conservata dalla vedova di Aldo Aiò, cera-mista ebreo di Gubbio, nel corso dell’ultima guerra per sopravvi-vere si erano messi a fare bottoni. Anche Lucie Rie ceramista di origine ebrea, fuggita dall’Austria in Inghilterra, si mise a costruire bottoni per la stessa ragione, alcuni sono conservati al Victoria ed Albert Museum, uno di essi, anche piccolissimo, può costare alle aste anche 2000 euro. In un astuccio, inglese, si notano i gancetti che servivano per fermare i bottoni e anche i gemelli in pendant. Le foto mostrano, oltre scatola Aiò e suo contenuto ed astuccio, due serie di bottoni di smalto, uno con Rosa tridimensionale in rilievo su avventurina con decorazioni micro mosaico, alcuni di metallo, altri ancora a mosaico, una rosa in tartaruga ed oro.... La Casa di Produzione TVKey presso cui Isa lavora e che conserva l’archivio storico,in pellicola, dei Caroselli girati dal 1957 al 1973 , quasi tutti in Toscana e Firenze merita un discorso a parte.

Conoscere ed ascoltare un collezionista è un privilegio ed un piacere, la passio-

ne per gli oggetti che cercano, studiano, classificano e raccol-gono è straordinaria, le cose che sanno e sanno dire, davvero tante, sempre delle scoperte. Isabella Martorana è una gentile e dolce signora che possiede un numero talmente ampio da non essere precisabile di bottoni, di un tipo di essi , quelli in acciaio decorati con soggetti mitologici o semplici dice “ne avrò più di 1000!”. Li tiene raccolti in cassetti o scatole e non in mostra “dovrei tappez-zarci la casa”. Casualmente nel ‘92 comprò una scatola conte-nente bottoni di madreperla ed è da allora che li colleziona; è stata per anni in contatto con la National Button Society, nata in America nel 1929, che riuniva più di 4000 collezionisti ed ha fondato l’Associazione Collezio-nisti Bottoni Italiani (CIB) che fece produrre, nel ‘95, un bottone commemorativo della prima riunione e della pubblicazione di un Bollettino. Molti pare siano i Musei del Bottone, a Firenze, la Galleria del Costume di Palazzo Pitti ne ha acquisito una intera collezione, per ricostruire la storia di ciascuno di essi, catalogarli e proporne una suddivisione, per materiali, epoche o altro, si è avvalsa della collaborazione di Isabella. Vorrei riservare più spazio possibile alle immagini per cui dirò, in ordine sparso, solo alcune delle cose che più mi hanno colpito. Nel ‘700 usavano i bottoni solo gli uomini; la loro costruzione è piuttosto difficile e chi non è in essa sperimentato, anche se bravo artigiano, si trova in difficoltà, essi infatti devono avere una buona tattilità, essere tridimensionali e non troppo pesanti, non essere taglienti ed avere gancetti o altro per essere attaccati. Alcuni di quelli più an-tichi erano costruiti in più pezzi, il fondo da cui esce il gancetto, la decorazione, un cerchietto di contorno per unirli e, all’interno, per evitare lo schiacciamento, del cartone, “non erano lavabili” dice Isa. I materiali con cui si fabbricavano e decoravano erano i più vari, legno, corno, metallo, madreperla, bachelite, celluloide, pasta di vetro..I bottoni delle li-

Bottoni non attaccatidi CriStina [email protected]

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Durante la prigionia An-tonio Gramsci delineava nei suoi “Quaderni” –

scritti a partire dal 1929 ed editi postumi nel 1949 - il ruolo degli intellettuali organici ovvero coloro che erano in grado di fornire un apporto essenziale alla costruzione dell’egemonia culturale, in un contesto rivolu-zionario di lotta di classe, capace di riscattare il proletariato. L’analisi gramsciana, sempre netta nella precisione dei suoi termini, utilizza un aggettivo - organico – che pone l’uomo di pensiero non come un fatto disgiunto o distaccato dal conte-sto civile ma come un membro funzionale a un sistema socio-culturale, uno strumento con cui edificare un ordine che si occupi dei più poveri e degli esclusi, prima di tutto partendo dalla cultura quale risorsa per una nuova speranza di riscatto e di miglioramento. Gramsci scrisse, pensando all’organiz-zazione del sistema culturale, alcune delle sue pagine più belle, un vero e proprio manife-sto programmatico che ancora oggi risulta, nostro malgrado, attualissimo:“In una nuova situazione di rap-porti tra vita e cultura, lavoro intellettuale e lavoro industriale, le accademie dovrebbero diven-tare l’organizzazione culturale (di sistemazione, espansione e creazione intellettuale) di quegli elementi che dopo la scuola uni-taria passeranno al lavoro pro-fessionale, e un terreno d’incon-tro tra essi e gli universitari. Gli elementi sociali impegnati nel lavoro professionale non devo cadere nella passività intellettua-le, ma devo avere a loro disposi-zione (per iniziativa collettiva e non dei singoli, come funzione sociale organica riconosciuta di pubblica necessità e utilità) istituti specializzati in tutte le branche di ricerca e di lavoro scientifico ai quali potranno collaborare e in cui troveranno tutti i sussidi necessari per ogni forma di attività culturale che intendano intraprendere”.Gramsci descrive, in poche ni-tide righe, un sistema culturale che fa rete, che coniuga scuola e lavoro, sapere e operare, e in cui le accademie diventano i centri

Gramsci e l’organizzazionedella cultura Ruoli e reti

in un sistemaorganico

di Mario [email protected]

di davide [email protected]

Contaminature

Inerti in una cava di bauxite

di un terreno che incontra e include tutte le forze produttive, intellettuali e industriali, attra-verso uno scambio mutuale di conoscenze e pratiche. Una vi-sione questa che pone la cultura come quell’energia intellettuale che alimenta e sostiene tutto un tessuto civile, consentendo la valorizzazione di ogni individuo inserito in una dimensione siste-mica che lo mette in collabora-zione – in rete diremmo oggi – con tutte le altre parti sociali, organicamente organizzate. La società dei consumi, afferma-tasi in modo sempre più forte a partire dal dopoguerra, compor-terà invece, in Italia e non solo, l’emergere di un intellettuale di élite, non tanto funzionale a un progresso collettivo, quanto più strumento, a volte inconsa-pevole, del mantenimento delle strutture di potere come eviden-ziò più volte Pier Paolo Pasolini; un intellettuale più interessato a descrivere, anche criticamente, i processi in atto che a proporre e praticare modelli organizzativi alternativi in grado di migliora-re il livello culturale medio.Oggi, nell’era della partecipa-zione in rete delle comunità (sempre più intensamente off-line che liquidamente on-line), in cui l’intellettuale, o presunto tale, cerca spesso la spettacolarizzazione individuali-stica (sulla scia di quanto intese Guy Debord) più che la divul-gazione olistica del suo sapere, il pensiero gramsciano appare un’eredità preziosa che deve ispirare chi crede, a dispetto di qualche stupida provocazione, che la cultura non solo “dà da mangiare” ma è soprattutto la risorsa migliore di cui disponia-mo per preparare, per tutti con l’aiuto di tutti, quel cibo che alimenta e fa progredire una collettività.

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Monica Gentile è una sicilia-na verace, di Agrigento, e ha scritto un bel romanzo sici-liano, “Tira scirocco” (Pacini editore,Pisa, 2014; vincitore del premio letterario “Edizione Straordinaria” 2013 e segnalato al “Premio Calvino” 2014), ma non solo perché è ambientato in un tipico paese dell’isola, Bagnomaria, ma perché dentro ci sono i colori, le asperità, i sa-pori, la musicalità della Sicilia. Una musica che sta prima di tutto nella lingua che ha scelto: la Gentile non compie una operazione di traslitterazione dal siculo all’italiano (un po’ alla Camilleri), ma usa l’italia-no con la musica, l’incedere, il ritmo del siciliano. Ed è una musicalità che dona vita ai suoi personaggi, nessuno dei quali è protagonista assoluto, am tutti sono parte di un coro, eppure tutti straordinariamente carat-terizzati. Da quelli che stanno più sullo sfondo, ma per questo non sono meno rilevanti. Sasà Prinzivalli, licenziato da Man-fredi Onorato con la falsa accu-sa di aver rubato cinque casse d’arance, finito stalliere a spala-re merda di cavallo e morto di umiliazioni (“Se sapevo tanto, me le fottevo vero le arance”). Concetta Incardona, sarta che

cuce il vestito della Baronessa di Ranciforte ma con un moto di dignità lo strappa quando la ba-ronessa la critica ingiustamente, lei sarta di cuccesso. Vicé Man-dolino, che sembra lo scemo del villaggio, ma salva, ospita e accetta le condizioni del rapporto con Serafina, la figlia della Parrina la “bottana” del paese. La coppia impossibile, don Manfredi Onorato (figlio della terra che gli dà ricchezza, ma che lui rispetta e idolatra) e

Maria Anonietta di Ranciforte (che odia quella terra e Bagno-maria, dai quali scapperà e non farà mai più ritorno, se non al cimitero. Learco di Ranciforte che all’età di 7 anni desidera “fare la bella vita. Mangiare, dormire e giocare per sempre” e sarà accontentato dal padre Manfredi. L’insieme delle loro storie si intreccia, si scontrano, si incontrano, collassano una nell’altra e fanno insieme la storia di Bagnomaria, battuta

dallo scirocco, come la sua vita, un vento caldo, che sconvolge e affloscia le vele. Un romanzo dove non succede niente e, quindi, succede tutto, ma tutto resta come sospeso; ma questa è la vita, questi sono i romanzi migliori. La storia si apre nel cimitero, dove il fioraio l’Americano soprintende ai cancelli di questa Spoon River isolana, e si chiude lì, dove incalzato da una vera sommossa popolare, Leandro Ranciforte confessa

che lui visita le tombe di coloro che non ha conosciuto a causa del suo lungo esilio da Bagno-maria perché vuole lasciare una traccia nella memoria del popolo di Bagnomaria, perché vuole ricucire uno strappo lungo una vita, perché “quando i vivi pensano ai morti, i morti non muoiono del tutto, il pensiero è fiato ai polmoni del ricordo”. Un romanzo (meglio, un racconto lungo) intenso, profondo.

di SiMone [email protected]

aldo Frangioni presental’arte del riciclo di paolo della Bella

Scottex

Siamo molto incerti del titolo da dare a quest’opera dellabelliana. Dobbiamo chia-marla con una didascalia dadaista (una dada-dida), tipo “Enrico Toti di notte senza bicicletta e senza stampella che procede a zoppino verso le trincee nemiche” oppure “Ghiacciaio che scivola a valle per effetto delle modifiche climatiche”? Potremmo trovare un terzo, quarto, quinto titolo, ma avendo ancora da descrivere 33 scottex, ci lasciamo un po’ di riserve per il futuro.

Sculturaleggera

lo scirocco di Monica Gentile

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Che testo meraviglioso questo “hanno sparato a Maria”, andato in scena

al Teatro Studio di Scandicci il 10 e l’11 aprile per la regia di Giancarlo Cauteruccio, interpretato intensamente da Patrizia Schiavo, prima parte del trittico “15/45 Tre studi sulle guerre. Un progetto in tre atti sul desiderio di libertà”. Un testo, scritto da Giuliano Compagno, che dice alcune verità importanti su quella guerra assurda combattuta sulle montagne del Friuli, in una terra che non è più Italia e non è ancora Austria. Prima verità: siamo tutti soli, mentre intorno scoppia la retorica del “noi” nazionalista; siamo soli quando Giuseppe parte per il fronte, quando Dorina – la figlia ado-rata – attende mamma Maria che ogni giorno sale la mon-tagna per portare vettovaglie e materiali nelle trincee, sono soli Luigi e Leo amici che la guerra trasforma in nemici ma che non si arrendono a questo illogico sovvertimento di senso che è la guerra. E’ una storia di solitudini e di silenzi. Giusep-pe, trasformato in fante, lassù nelle trincee delle montagne del Timau, sarà muto per sem-pre, anche quando scrive lettere a Maria, che nega a sua moglie la verità sulla guerra, che non vuole più frasi di circostanza, non vuole essere protetta da lui. Lei, forse, capisce cosa è la guerra, anche se non la vede, se non dall’alto quando ascen-de la montagna insieme alle altre donne, e solo la sente da lontano. La guerra “sono i vivi che sono morti, i morti che ri-mangono vivi... Prima c’erano i vivi o i morti. Ora un vivo è un morte che spara, che è sparato, che la scampa o non la scampa. Oppure un morto è un vivo che non respira, che non parla ed è parlato da noi”. La guerra, separa o crea artificiosamente identità, che le mette una con-tro le altre e quindi strappa le interiora: Maria si dichiara, “Io sono di Timau, sono cresciuta con un papà mezzo austriaco e mezzo timavese, con una lingua che voi non conoscete e che il mio marito non ha anco-ra imparato... Io che ne sapevo

della guerra... So che ora sono italiana, che lo siamo tutti... me lo dite voi e io ci credo!”. Storie di identità scagliate vio-lentemente una contro l’altra, ma anche di piccole eroiche ribellioni a questa logica di guerra: Leo e Luigi da sempre e per sempre amici anche se la guerra li vorrebbe mortali nemici; il tenendo Ernst che non sparerà al soldato inglese; Prè Florio che impedirà agli austriaci di requisire le cam-pane della chiesa. Anche di ribellioni mancate: “Potevamo dire di no e pensare ai bambini.

Dire di no ai soldati era dire sì ai bambini”.Un testo drammatico, commo-vente, duro ma al contempo pieno di dolente pietà; che co-stringe a tracciare un bilancio di questo secolo che ci separa dalla prima guerra mondiale: “Tra cento anni di tutto quello che ci circonda resta in piedi soltanto la montagna... Per cento anni non c’è stata guerra, non è così?... E c’è rispetto, come no, verso tutte le persone differenti, verso i poveri, verso gli slavi e gli ebrei, verso quelli che sbarcano da giù e non si capisce cosa dicono. Nessuno si sente superiore a qualcun altro. Giusto. E finalmente l’Italia!!!”.E’ struggente la storia di Maria, con quella sua innocente fidu-cia in un ritorno alla normalità armoniosa dell’anteguerra. Ma siamo noi, immemori eredi di un’Italia forse più certa di allora, ma infinitamente più egoista, lacera, retorica, ad essere interrogati.Cauteruccio ha raffigurato Maria su un mondo di mace-rie, simile – ha scritto qualcuno – all’odierno Medio Oriente; ma il mondo di Maria era forse ancora integro, inviolato come il suo monte Elmo; ma è Maria oggi, nel 2015, che ci parla dalle rovine devastate di questo nuovo secolo in cui ancora ri-suonano rumori di guerra, che si fanno sempre più vicini.

Hanno sparatoa Maria

di SiMone [email protected]

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intervista al critico e se-miologo Luigi Tassoni, che anticipa i contenuti e

alcuni protagonisti del seminario internazionale sulla fortuna del romanzo europeo organizzato dal 6 all’8 maggio presso il Dipar-timento di Italianistica dell’U-niversità di Pécs da lui diretto. Tra i fenomeni più interessanti, l’evoluzione del genere storico. Il romanzo europeo è sempre molto vitale, come quello ita-liano. E parte del merito di tale vitalità e ricchezza è della “gran-dissima abilità e competenza dei traduttori europei”, grazie ai quali “ciò che sembrava un handicap si è trasformato in un’apertura”, nella possibilità di far dialogare tradizioni linguistiche e letterarie differenti. Questo il messaggio di Luigi Tassoni, direttore del Di-partimento di Italianistica dell’an-tica Università di Pécs (Unghe-ria), intervistato a Firenze dopo la lectio magistralis sul tema “La poesia non ha segreti - il lettore di poesia oggi”, organizzata dalla

Fondazione il Fiore al Teatro l’Af-fratellamento il 13 aprile. Cuco ha parlato con lui, comparatista di lunga esperienza, sulla fortuna del romanzo europeo: il tema del Seminario internazionale di Pécs (6-8 maggio), che sarà preceduto il 5 maggio all’Istituto italiano di cultura di Budapest dall’in-contro “Il romanzo italiano e il lettore europeo: Luigi Tassoni a colloquio con gli scrittori Giulio Angioni, Daniele Benati, Marina Mander”. “Scrittori – ci ha detto Tassoni - che in questo momento sono al centro dell’attenzione di critica e pubblico per le caratteri-stiche dei loro romanzi”. Giulio Angioni con Sulla faccia della terra, Marina Mander con Nes-sundorma e Il potere del miao e, infine, Daniele Benati con Cani dell’inferno. Il Seminario di Pécs, giunto alla XXI edizione, ospiterà

alcuni fra i migliori traduttori e studiosi di vari Paesi europei. “Uno dei fenomeni da tenere d’occhio – ha detto Tassoni - riguarda quello che una volta si chiamava il romanzo storico, e che oggi è una forma mista, con la tendenza a entrare nella Storia come scoperta, reinterpretazione, memoria di un’identità comples-sa”. “Oggi – ha precisato Tassoni - si scrivono romanzi che, sia pure con differenti livelli qualitativi, affrontano la Storia come genere misto, che dà maggiore visibilità a conflitti e aspirazioni piú vicini alla nostra percezione della mul-ticulturalitá contemporanea. A Pécs, suppongo, si parlerà anche del plurilinguismo di autori e let-tori, e anche delle storie narrate, tracciando forse la mappa di un romanzo riconoscibile davvero come europeo”.

intervista al critico lugi TassoniSulla vitalità del romanzodi lorenZo Sandiford

Un grande classico claustrofo-bico del filone “film dentro ai sommergibili”, di cui ricordia-mo un non recentissimo e pre-gevole “Caccia a Ottobre Rosso” di John Mc Tiernan. Trama scarna ed efficace, ritmo coin-volgente, “Black Sea” non è il classico filmetto “blockbuster”: tutt’altro. La sua fascinazione è legata alle ambientazioni subacquee, alla mastodontica precarietà della Cosa-Macchina, che è casa e tomba, rifugio e trappola, non certo agli scarni effetti speciali, o ai prevedibili colpi di scena. Il microcosmo dentro al sommergibile (l’equipaggio) è composto da una collettività disomogenea (russi e america-ni), divisa nella lingua e nella cultura, ma unita dalla straor-dinaria competenza che serve a governare l’obsoleta e mito-logica Macchina. L’obiettivo è quello di rintracciare un enorme tesoro custodito all’interno di un altro sommergibile tedesco, affondato durante la seconda guerra mondiale. Va da sé che tutti i problemi cominciano quando gli equilibri vengo-

no a spezzarsi in seguito alle psicosi individuali e quando la realtà atomizzata dei soggetti si impone e prende il sopravven-to. L’inabissarsi della “ Cosa” è il nucleo del film, il principio della sua fascinazione. Non è

dunque importante tanto il plot di Black Sea, quanto il fatto che gli eventi si svolgano in un determinato luogo: la profondi-tà, il buio degli abissi, l’angustia degli spazi (ricordiamo una simile ambientazione in “Air-

port 77” di Jerry Jameson, dove il tema era quello del recupero dell’aeromobile precipitato nel fondale oceanico).Preferiamo di gran lunga questo filone di cinema avventuroso che riconcilia lo spettatore con la dimensione del rischio, dell’azzardo, della sfida, alla vulgata dominante dell’indagine introspettiva, stucchevolmente psicologica (quando non si han-no strumenti e mezzi di grande rilievo e spessore registico e intellettuale).Il bello di “Black Sea” sta tutto nella sua dimensione scarna e “classica” del racconto, con quei bei salti di scena a riassu-mere implicitamente quanto è accaduto, senza troppi fronzoli.Jude Law (Robinson) è il capita-no perfetto (anche da un punto di vista strettamente fisiogno-mico) che non esita a sacrificare il necessario per raggiungere il suo obiettivo, ciò in perfetto accordo con la tradizione del romanzo ottocentesco. Desta poco interesse la tematica dello sfruttamento capitalistico, che rimane là sullo sfondo, schiac-ciata dalla dimensione del fantastico, dalla sfida ultima dell’uomo contro l’ignoto.

Mare nerodi franCeSCo [email protected]

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Festa della liberazione? Come dare un senso non rituale, non cerimoniale, non di

mera passerella-per-politici-da-ve-trina alle vicende di 70 anni fa? E ancora - mi vien naturale la do-manda, posto che alcuni gravi pesi opprimono il consorzio civile, che la società e le istituzioni sembrano irrimediabilmente sulla via torta, del deragliamento, del fallimento - da cosa e come liberarsi, oggi? Per quanto non arreso, ammetto che come cittadino sono distacca-to, disilluso. Il pathos per la ‘casa comune’ è a terra. Anche perché una casa comune pare che non esista o è come se non esistesse o forse davvero non c’è. Quella che viene spacciata per tale è la sua ombra. E’ una figura retorica eret-ta senza pudore, un vessillo logoro, brandìto per lo più da soggetti cui non si dovrebbe affidare neppure l’amministrazione di un condo-minio. I sentimenti che scorrazzano nel tempo attuale incrociano così, nell’occasione, il pensiero della sto-ria o meglio della storiografia: cioè del modo in cui la storia è (stata) scritta, metabolizzata e, voglio aggiungere, usata.Il punto di inizio - proprio perché si parla di liberazione e tuttavia siamo nel 2015 - sarebbe per me, semplicemente, questo: (ri)partire dai fatti, con onestà, con lucidità, con animo sgombro da passioni e da lacci ideologici; lasciando la tentazione di usare la storia a fini di lotta politica, perché in tal modo si piegano i fatti all’uso e al consumo del momento - per lo più senza alcun amore, senza premure per la loro autenticità. I fatti che appartengono alla storia, correttamente indagati e ricostrui-ti, sono - o dovrebbero essere - un primo importante ‘asset’ della casa comune, del suo patrimonio. Per questo trovo ridicolo, grottesco che ancora oggi vi siano argomenti ‘di sinistra’ e ‘di destra’: si pensi alla resistenza, si pensi alle foibe. Si tratta, a ben riflettere, della stessa modalità di indebita appropriazio-ne della cosa pubblica fatta per/da bande (o forse, si può ormai dire, da quella omogenea e quanto mai salda incrostazione che è il regime partitocratico), per cui lo scempio istituzionale corrisponde, fa pari con quello della storia. Doveroso è ripartire dai fatti, dun-que, senza passioni (ideologiche)

ma non per questo senza passio-ne. Non è, quello che intendo rappresentare, un ideale di uomo/cittadino vuoto o depurato della sua identità e della sua stessa sto-ria; bensì di un individuo che con tutta la ricchezza del proprio essere e con il gusto di comprendere il passato - riconoscendone l’impor-tanza - è curioso di conoscere e guardare ai fatti per ciò che sono, interessandosi alla loro realtà piuttosto che ad una loro pretesa rappresentazione (condizionata dalla categoria del ‘politicamente corretto’). Dopo la conoscenza dei fatti, così, anche le opinioni sui fatti assurgeranno a segno di libertà individuale. La liberazione, oggi, è prima di tutto psicologica, i suoi strali debbono colpire i tentativi di adul-terazione tanto della storia quanto del presente. Lo storico, così come il cittadino, è tenuto a ritagliarsi questo recinto di spregiudicata, assoluta libertà. Di cui la passione può essere il baluardo; lo scrupolo o rigore metodologico debbono essere la guida. 70 anni sono un lasso temporale importante. Sufficientemente lun-go per tentare di dare un significa-to nuovo e un senso vivo, attuale, alla parola liberazione.

Dare un senso vivo, attuale alla Liberazione

di paolo [email protected]

Nell’allestimento di questa mostra si è tenuto presente la natura dei materiali. Stanno alcuni di questi panni sospesi, come lasciati ad asciugare al sole su dei lunghi pali colorati ed altri ripiegati su degli immacola-ti scaffali bianchi a suggerire un emporio fuori moda di merci introvabili. Sono tessuti natura-li, sottoposti a tinture leggere, accoppiati per modificarne lo spessore e conseguentemente l’uso, cuciti e ricamati per sotto-linearne la destinazione. Il loro rappresentare la pezza tessuta primigenia, ancora prima di trasformarsi in quello che serve all’uomo, privo com’è del neces-sario per proteggersi dal freddo e dal caldo. I panni del Piccini rimandano ai vestiti degli anti-chi che venivano “panneggiati” attorno al corpo divenendone l’estensione. Ancora prima che si sentisse il bisogno di tagliare e aggiustare questi geometrici frutti della tessitura, si senti-va il desiderio di avvolgersi,

Fuori dalle portedel paradiso

di compiere qui gesti ampi e circolari che per migliaia di anni gli uomini hanno ritualmente eseguito ben sapendo che tra quei panni ed il corpo esisteva un rapporto più complesso del semplice contatto. Le pieghe che questi formavano, ampie, morbide, a coste, elasti-che, modificate dal movimento e dal vento erano considerate rivelatrici e confacenti alle pro-prie reciproche personalità. Così sono le stoffe di Claudio Piccini, generose, arcaiche, tattili, utili, inutili, belle e infine misteriose. Ci tengono così fuori dalle porte del paradiso, ma ad un passo da questo.  Fuori dalle porte del paradiso, Arazzi di Claudio Piccini Fondazione Sensus, v.le Gramsci 42a Firenze, la mostra e la colle-zione sono visitabili su appunta-mento [email protected].

di Claudio [email protected]

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25aprile

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in

giro

25 aprile al Cango Cappuccetto OssoCango apre i battenti il 25 aprile per celebrare la Liberazione. Il Centro di produzione sui linguaggi del corpo e della danza diretto da Virgilio Sieniin via S. Maria, a due passi da Piazza Tasso, sarà aperto dalle ore 11 alle 19.Il pubblico potrà vedere la videoinstal-lazione Adagi partigiani per tutta la giornata e assistere alle prove aperte di Virgilio Sieni con un gruppo di parteci-panti dell’Accademia sull’arte del gesto dalle ore 15.

Al Teatro Studio Mila Pieralli debutta Gogmagog in prima nazionale con Cappuccetto Osso di Marcella Vanzo, interpreti Cristina Abati e Carlo Salva-dor, voce off di Tommaso Taddei.L’artista Marcella Vanzo e la compagnia Gogmagog di nuovo in-sieme, que-sta volta per presentarci Cappuccetto Osso, una performance cruda e im-maginifica. Mitologia del contem-poraneo, che contrappone due famosi personaggi: una dolce bimbetta che al solo vederla le volevan tutti bene e un uomo solo e dimenticato, che vuole disperatamente dimostrare di essere vivo. Una nuova riflessione sulla coppia, tutt’altro che dolce. 28, 29 e 30 aprile Teatro Studio di Scandicci

Incontro con l’armenia

In occasione del centenario del Genocidio del Popolo armeno Aprile 1915-2015Versiliadanza e Small Theatre NCAin collaborazione con Fondazione Sistema Toscanapresentano

Mercoledì 22 Aprile ore 18.00Mediateca di Fondazione Sistema Toscana, via San Gallo 25r

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horror

vacuiDisegni di pam

Testi di aldo FrangioniL’elaborazione del lutto è un procedimento in-dispensabile per continuare a vivere, per i sin-goli uomini come per i popoli, ma richiede un tempo lungo, una lunga riflessione, altrimenti si chiama rimozione. Per gran parte dell’Eu-ropa opulenta e per i suoi cittadini non si è avviata nessuna azione del genere preferendo, per ogni tragedia, l’oblio immediato.

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L

Mr. & Mrs De Rose, James & Rose De Rose! Sembra quasi un gioco di parole ma non lo è. Si trattava di una coppia di italiani immi-grati da un paesino della provincia di Cosenza, Donnici, per la precisione. Erano amici dei miei suoceri e stavano festeggiando le loro nozze d’oro in compagnia di un numero incredibile di figli, nipoti, pronipoti ed amici, anche loro rigorosamente quasi tutti di origine

italiana, e per la maggior parte calabresi. Il ristorante di San Jose, era ovviamente anch’esso di proprietà di una coppia di italo americani e l’atmosfera era piuttosto gioiosa, anche se da queste due immagini si potrebbe ipotizzare addirittura il contrario. Il pomeriggio danzante è stato allietato da un gruppo che si chiamava “Mike Cangi Trio” che era da sempre molto gettonato all’interno della comunità italoamericana della zona. La coppia De Rose alla fine della serata mi è parsa decisamente abbastanza provata.

San Jose, California, 1972

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

[email protected]

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