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N° 1 27 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Paolo Brosio santo subito “Papa Francesco è contrario al miracolismo, alla fede fai date, alla curiosità per il futuro. Ma Medjugorje non è questo, è confessione, eucarestia, rosario, digiuno e vangelo, parola di Dio e antico testamento, oltre che povertà, semplicità e umiltà. Qualcuno ha mentito a Papa Francesco”

Cultura Commestibile 127

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N° 127

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Paolo Brosiosantosubito

“Papa Francesco è contrario al miracolismo, alla fede fai date, alla curiosità per il futuro. Ma Medjugorje non è questo, è confessione, eucarestia, rosario, digiuno e vangelo, parola di Dio e antico testamento, oltre che povertà, semplicità e umiltà.Qualcuno ha mentito a Papa Francesco”

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to il libro con la frase “Sono sessantadue anni che aspetta”: l’ho fatta soffrire per 62 anni. E durante questi 62 anni lei inizia ad indagare; cerca documenti, dossier. Vuole, in qualche modo, lavar via la patina di indifferenza che la avvolge. L’unico modo con cui possiamo gestire il senso di colpevolezza è l’essere perso-nalmente colpiti; se sperimen-tiamo direttamente l’ingiustizia e cerchiamo delle risposte per salvare la nostra anima, allora in qualche modo forse possiamo di-ventare più consapevoli di quello che ci accade intorno e possiamo trasferire questa consapevolezza anche alle vite di altre persone.In qualche modo possiamo dire che il passato è sempre lì, sopito, pronto ad essere riattivato per agire sul presente. E’ un passato insidioso?Non è insidioso se ne siamo con-sapevoli, e ne saremo consapevoli se ne parliamo, se ricordiamo; ma se lo ricordiamo, non è più il passato, bensì il presente. Gran parte del libro è scritto al pre-

sente, per quanto si occupi del passato.Tutto quello che era nel passato è narrato al presente. Il passato diventa il momento suc-cessivo e quindi non vi è in realtà nessun passato; e neppure esiste il presente: è semplicemente il flusso continuo del tempo. Se vogliamo preservare questo flus-so temporale – che non ha quasi mai un andamento regolare e facile, ma è piuttosto un flusso agitato da onde, tempeste, alti e bassi -, se vogliamo mantenere questo fiume vitale dobbiamo curare le sponde e tutte le sue particelle. Non è un obiettivo fa-cile perché alcune parti di questo fiume della vita sono dolorose e naturalmente ciascuno di noi tende ad allontanarsi da queste parti dolorose, ma se non affron-tiamo il nostro dolore, non ce ne libereremo mai.Quindi, noi ricordiamo perché il passato possa trasformarsi in qual-cosa di utile per il nostro presente, per la nostra vita.Beh, in qualche modo la non

conoscenza, i segreti sono pericolosi: ti verranno addosso un giorno o l’altro. I segreti ti assalgono quando meno te lo aspetti e ti possono fare molto male. E i segreti non sono eterni. Nella nostra lingua c’è una favola che parla di un re che cerca di nascondere il fatto di avere le orecchie da caprone, ma per quanto cerchi di nasconderle, ad un certo punto saltano fuori perché un ragazzo suona un flauto magico. Ogni segreto è disvelato, prima o poi. Possiamo essere presenti o meno quando ciò avviene. Anche oggi, 70 anni dopo la Seconda Guerra Mon-diale, per esempio, alcuni segreti continuano a rivelarsi.E’ per questo che lei pubblica tutti i 9.000 nomi degli ebrei italiani deportati nei campi di concen-tramento o i nomi degli aguzzini nazisti? Perché dietro ogni nome vi è una storia?Io ho pubblicato i nomi perché penso che quelle persone sono il cuore della storia. La storia ufficiale può essere spesso una menzogna; c’è molto revisioni-smo nella storia ufficiale, perché può attagliarsi a diversi obiettivi. Queste “piccole” storie indivi-duali, durante i periodi di crisi, sono veramente quelle che fanno la storia,sia che concordiamo con esse o no; appartengono intima-mente a qualcuno. Abbiamo sto-rie cosidette tragiche e patetiche di nazisti, di fascisti, di ustacia, che credevano nella tragedia della loro vita; e poi abbiamo altre storie, quelle delle vittime del regime. Dovremmo ascoltare tutte queste storie.Naturalmente l’altro protagonista del suo romanzo sono le città, di Gorizia e di Trieste: città di confine, dalla mutevole identità. Il destino di questi luoghi di confine può essere quello di luoghi di or-ribili conflitti perché ogni confine definisce un “noi” e gli “altri” e quindi conflitti. Ma possono anche essere luoghi di incontri, di passag-gio, perché anche questo avviene sui confini.Dipende da chi governa i confini e dalle idee che si propugnano in questi luoghi. Questo luogo di confine dove abbiamo tre culture, tre nazioni, tre lingue, tre, quattro, cinque religioni l’ho scelto volutamente perché volevo che qualche lettore della ex-Jugoslavia potesse identificarci

Dasa Drndic è una scrittrice croata. Laureata all’U-niversità di Belgrado –

Facoltà di Filologia presso il Di-partimento di lingua e letteratura inglese, con una borsa di studio Fullbright, continua il suo corso di studi in Teatro e Comunica-zione negli Stati Uniti, conse-guendo infine il dottorato con una ricerca su Sinistra e Proto-femminismo, presso la Facoltà di discipline umanistiche e Scienze sociali all’Università di Fiume (Rijeka). E’ autrice di “Trieste”, un romanzo documentario (anche se lei dice di preferire semplicemente “testo letterario”, non amando la classificazione in generi dei romanzi), pubblicato in Italia da Bompiani e finalista al Premio von Rezzori Città di Firenze. Abbiamo parlato con lei durante il Festival degli Scrittori, organizzato dalla Fondazione S.Maddalena a Firenze nei giorni scorsi.La famiglia Tedeschi, protagoni-sta del romanzo, è una famiglia di bystanders: assistono, inermi e inattivi, alla storia tragica del ‘900 che si srotola davanti a loro. E’ la storia della maggioranza silenziosa, protagonista per la sua indifferenza, Ma una di loro, Haya, avverte il peso della responsabilità. Si attiva quando un suo ex allievo le regala “Un altro mare” di Claudio Magris che narra la storia di Michaelstadter, uno dei pochi che disse “no” al Fascismo, e la rimprovera di non aver mai parlato ai suoi allievi di quello che era accaduto a Gori-zia durante la Seconda Guerra Mondiale.Naturalmente non era solo la famiglia Tedeschi ad essere dei bystanders. In realtà questo tema non riguarda tanto la Seconda Guerra Mondiale, ma ha a che fare con l’intero nostro mondo di oggi. C’è un passaggio del libro in cui si parla dei sempre nuovi bystanders, di giovani bystanders che si fanno avanti. Quindi è un processo continuo. In realtà non credo che Haya Tedeschi diventa consapevole di quanto è accaduto solo quando il suo allievo le scrive: lei inizia a diventare consapevole quan-do suo figlio le viene sottratto: quello è il suo grande dolore. Infatti, volutamente ho inizia-

Intervista a Dasa Drndic

Un passatosenza memoria

di Simone [email protected]

TriesteLa Risiera di San Sabba

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per questo libri come i suoi sono così importanti: fra poco non avremo più testimoni.Ma avremo testimoni se i soprav-vissuti racconteranno le loro storie ai nipoti, Abbiamo anche questo cliché per cui i giovani dicono non abbiamo saputo niente, ma è anche vero che non avete mai chiesto. Se le storie non vengono chieste e trasmesse, allora la memoria si disperderà.Ma Haya, alla fine, in questo senso è un’eroina perché domanda, ricerca, indaga sul suo passato; cerca il figlio che ha avuto con la SS tedesca.Sì, ma in qualche modo questa ricerca la uccide: il confronto con questa realtà, il senso di colpa che la attanaglia le sembra troppo grande per lei, anche perché è molto anziana (ha oltre 83 anni). Ma credo che alme-no potrà morire in pace con sé stessa.Vorrei sapere qualcosa sul processo di scrittura del libro. Ha fatto un grande lavoro di ricerca di docu-menti, di materiale storico?

No, avevo alcuni libri importanti a casa che mi sono serviti per ricavare informazioni; poi molte informazioni le ho ricavate da internet e dall’archivio storico di Rovigno; ho avuto accesso ai giornali dell’epoca a Gorizia, dove ho ricavato dettagli su negozi, numeri di telefono, per-sone. Gli scrittori e i poeti che sono nel libro ovviamente li ho letti e amati. Scrivevo e quando arrivavo ad un nodo o ad un blocco, cercavo le informazioni. Il mio non è un lavoro scientifi-co di ricerca storica, quindi non avevo bisogno di note, schede dettagliate, cataloghi. Certa-mente avevo un’idea e sapevo quello che volevo raccontare, Ed ero molto arrabbiata, Allora ho iniziato a scrive e i vari file e dossier hanno iniziato ad aprirsi automaticamente e le idee sono arrivate. Io inizio da una idea, ma non ho un piano precostitu-ito dettagliato quando incomin-cio il lavoro. Ho impiegato circa due anni e mezzo a scrivere il libro.

Leonardo Mori è uno dei giovanis-simi vincitori del Premio Gregor von Rezzori Giovani Lettori. Cen-to studenti delle scuole superiori di Firenze hanno recensito i cinque finalisti del Premio: Dasa Drndic “Trieste”, Andrew Miller “Pura”, Guadalupe Nettel “Il corpo in cui sono nata”, Vladimir Sorokin “La giornata di un Opricnik”, Tommy Wieringa “Questi sono I nomi”. Leonardo Mori, classe 1997, è studente del Liceo classico “Galileo Galilei” di Firenze.Tessere un’unica mastodontica ragnatela da cui ripartono infini-ti fili non è un’impresa semplice, eppure Dasa Drndic, scrittrice croata tradotta in più lingue, riesce in questa fatica con su-perba maestria stilistica e perizia ineguagliabile, virtù degne dei migliori ragni. Riuscendo a setacciare il fondale melmoso e profondissimo della Storia, questa prosa mai no-stalgica e banale riunisce in sé la durezza della materia e la varietà della forma: una sequen-za inenarrabile di nomi e date che finiscono per intrecciarsi, confondersi, incontrarsi negli anni più bui del secolo scorso. La

Seconda Guerra Mondiale e l’O-locausto fanno da protagoniste e insieme sfondo della vicenda attorno a cui ruota il romanzo, ossia il progetto segreto Leben-sborn ideato e in parte realizzato da Himmler. Trieste occupata dai nazisti, irriconoscibile per le troppe ferite inflittele, è la città dove Haya, una delle prede prin-cipali della rete tessuta dall’au-trice, smarrisce il figlio avuto con una SS. La continua ricerca conduce ad un incubo senza fine nella tragedia dell’Olocausto e nell’impunità dei carnefici nazisti che gestirono i lager, rovinando e spesso togliendo la vita a milioni di esseri umani. Eppure l’acuta e drammatica grandezza di questo romanzo, sfuggente e velato dalle neb-bie del ricordo e dalle tenebre dell’oblio, sta proprio nella cruda semplicità e nella feroce e lampante accusa contro la Storia, depositaria di mali indicibili e orrori senza volto. Scendendo sempre più in profondità nell’abisso, il registro linguistico e la narrazione prose-

guono nei modi più multifor-mi e colorati possibili, con un sottofondo malinconico e acre che tiene per mano il lettore, trascinandolo senza alcun sorriso verso il fon-do. Là la città di Trieste, Gorizia, la storia della famiglia Tedeschi dal bisnonno soldato nell’e-sercito austroungarico all’in-segnante di matematica Haya, fondamentale attrice in questo incommensurabile palcoscenico, esprimono appieno la loro voce come anime dantesche, senza mai scadere in imperfezioni o sbavature retoriche, senza perde-re di forza pur narrando eventi distantissimi negli anni. Echi oscuri e senza volto rimbombano dalle pagine, prendono forma e vita per brevi istanti in fotografie che testimoniano che ciò che si sta leggendo è stato, è accaduto veramente in un passato che troppo spesso vogliamo e tendia-mo a dimenticare. Pur essendo ebrea, Haya e la sua famiglia non sono difatti distrutti dall’im-mensa tragedia toccata ai loro

correligionari. Nessu-no potrà

restitu-irle quasi

sessant’an-ni di vita familiare,

passata senza il figlio

scomparso, instancabil-mente cercato

attraverso archivi e altre

vite.È fondamentale che alla fine della lettura si abbia un po’ di tempo da parte per riflettere, respirare profondamente e pren-dere coscienza di cosa sia capace l’essere umano, possibilmente senza divincolarsi dalla trap-pola tesa dalla Drndic. Questo documento titanico e inquie-tante ci costringe a interrogarci sulla vera natura del male, ed esplorando gli abissi oscuri e senza fine del continuo ed eterno orrore della Storia si possono percepire frammenti di esistenze, voci, storie, volti, individui che non si esauriscono certo in uno degli epiloghi meglio scritti degli ultimi anni.

con questa storia, con la dissolu-zione della Jugoslavia. Ma questo non riguarda solo i Balcani: in tutto il mondo il tema riguar-da l’accettare o meno gli altri. Guarda cosa succede oggi con i migranti dall’Africa: proprio perché sono diversi non vengo-no integrati, ma dall’altro lato potrebbero portare nuove idee, nuove culture. C’è un’idea che mi disturba e mi assilla sempre su questo tema: noi non sapremo mai, la capacità, le possibilità di un essere umano se non le diamo una chance. Non sapremo mai quanti geni furono bruciati nei forni crematori; non sapremo probabilmente mai quanti QI 200 vi son fra questi immigrati africani perché a loro non viene data una chance; forse vi sono persone 10 volte più intelligenti di tutti i Karajan, Rubinstein, Picasso dell’Occidente, ma dob-biamo dar loro una possibilità. E questo mi disturba moltissimo.Stiamo per affrontare un inedito problema, nella storia dell’Olocau-sto e in generale di quegli anni, e

La recensionedi leonardo [email protected]

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Testè rientrata da un esilio forzato in quel di Bologna la ex Soprintendente Paola Grifoni, ora Segretario Regionale dell’ineffabi-le ministro Franceschini per la Toscana, ha avuto per ben due volte l’occa-sione per dimostrare come “cambiare aria” faccia bene. Intervistata da un noto quotidiano locale sulla presenza turistica a Firenze, e sulla “peri-colosità” (anche intesa come incolumità fisica) per le opere d’arte e per la città, di questo afflusso

incontrollato, ha dettato due ricette fondamentali. La prima è che per decidere come gestire

la Loggia dell’Orcagna conviene “aspettare” di sapere cosa ne pensa il nuovo Direttore degli Uffizi E

comunque si potrebbe pensare ad un numero chiuso per l’accesso. La seconda è che per governa-re il problema “Le armi sono tante: il numero chiuso? Mah...Scaglionare i turisti? Non so se sia

praticabile. Certo pensare di portare sempre più persone a visitare Firenze è una follia. .....A Bologna la situazione è completamente diversa”.Certo che se il Poggi non aves-se demolito le mura cittadine la soluzione sarebbe stata a portata di mano. Chiudere le porte della città e fare passare solo i fiorentini e quelli del contado. W la Repubblica Fiorentina.

riunione

difamiglia

Sono scosse e turbate le cancelle-rie di mezzo mondo: la potenza diplomatica italiana ha battuto un terribile colpo per bocca del suo, fin qui silente, Ministro de-gli Affari Esteri Paolo Gentiloni.No, il capo della nostra diplo-mazia, indossata marsina e felu-ca (o forse più propriamente fez) in testa, non ha parlato all’As-semblea generale delle Nazioni Unite o all’incontro con Putin, bensì dal convegno organizza-to per celebrare il trentennale dell’Atto Unico Europeo dalla prestigiosissima Fondazione Craxi.Ma ben al di là del sorprendente scranno dal quale Gentiloni ha profferito verbo, ha colpito il contenuto delle sue parole, dav-vero inedito e rivoluzionario: ha prima pronosticato che l’emer-genza dei prossimi 20 anni sarà, niente meno che, l’immi-grazione, la quale “fa leva sulle differenze economiche e demo-grafiche Europa-Africa” (e chi l’avrebbe mai detto?!). Ma poi ha concluso sorprendentemente affermando che “se l’Europa sarà capace di battere un colpo, darà un segnale di vitalità”. Insomma una visione internazionale che farebbe impallidire Churchill!D’altra parte, al suono dell’inno garibaldino “Si scopron le tom-be, si levano i morti. I martiri nostri son tutti risorti, gli hanno fatto eco dal medesimo podio, nell’ordine: Romano Prodi

Il mondo del calcio è in sub-buglio. Blatter, padre padrone della FIFA, costretto alle di-missioni dagli scandali e da un indagine del FBI americana. In Italia dopo le affermazioni infelici di molti dirigenti, il consigliere federale Lotito è sotto accusa dalla procura di Napoli. Non va meglio coi pre-sunti moralizzatori; un Platini o un Tavecchio non paiono proprio una garanzia che dalla padella non si passi alla brace. Serve un uomo nuovo ma di esperienza, capace di trasfor-mare la FIFA in una lodevole iniziativa perenne. Un uomo che possa fare da guida in ogni stadio del pianeta e trasfor-mare ogni finale di coppa nel miglior rinfresco del mondo. Sì quell’uomo è lui l’inimi-tabile Eugenio Giani, è lui il candidato perfetto per la guida del calcio mondiale. E poi la carica di presidente della FIFA non è nemmeno incompatibile con il consiglio regionale.

le Sorelle marx

lo Zio di TroTZkyi Cugini engelS

Le porte della città

Dopo Blatter, Giani

La rivoluzionedi Gentiloni

BoBo

(che annuncia la catastrofe: “Gli studenti dei seminari che

tengo in Cina mi chiedevano sempre dell’Europa. Oggi non lo fanno più”), Stefania e Bobo Craxi (che furono, senza lasciare traccia alcuna, sottosegretari agli esteri) e addirittura Franco Frattini, che essendo stato il Ministro degli Esteri più etereo della storia repubblicana (fino

all’avvento di Gentilo-ni), ha bacchettato l’Europa per aver lasciato il cam-po a Francia e Germania nella trattativa con Putin su Kiev.

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Desiatoil

di

camminoinarrestabile

L’Arte ha la tendenza a insinuarsi nei territori più vari e disparati, riuscen-

do a garantire la possibilità di qualificarsi come un linguaggio originale, dotato di un’auten-ticità inedita e per tale motivo degno di nota e apprezzamento. Essere artisti oggi non significa legarsi a un movimento o a un progetto, ma significa operare là dove l’espressione non è ancora giunta, là dove l’inesplorato è un terreno fertile di scoperte e prospettive. Sin dagli esordi Giuseppe De-siato si è contraddistinto per l’at-tività performativa e trasgressiva della sua poetica, spesso volta a creare, distruggere, sotterrare piccole sculture; manipolare fotocopie, filmare, fotografa-re incessantemente, scartare, incartare e progettare senza sosta; coniugare la body art con l’ideologia fluxus e l’azionismo viennnese: atti che si legano perfettamente alla sfera onirica, ironica e orrorifica di un fare artistico connesso all’estempora-neo, all’ispirazione momentanea e all’abbattimento del tedio, in nome di un otium costruttivo e operativo sopra ogni norma e/o convenzione. Giuseppe Desiato è un artista che non si arresta, ma prosegue il suo cammino con una stra-ordinaria vitalità e la concreta consapevolezza che dietro al rea-le si nasconde un sapere, capace di unire esperienza e quotidiano, che solo l’artista può portare alla luce, riuscendo a spiegare la pro-pria riflessione, il proprio appro-fondimento, la propria visione del mondo per mezzo dell’Arte. I materiali come oggetto d’in-dagine, l’ironia come luogo di ricerca, il gesto come formatività significante e significativa sono gli strumenti d’espressione della sua poetica, della sua irriverente immagine del mondo, del suo modo di essere nei confronti di una realtà estetica, dal suo punto di vista, corrotta e indisciplinata. Una personalissima condizione esperienziale che gli ha permesso di creare apparentemente, in un continuo processo di rivelazione e svelamento della materia, in grado di implicare il lettore in un totale coinvolgimento emoti-vo e psicologico.

A sisnistra Pro-vocazione religiosa. Venerdì santo, 1975Fotografia a colori cm 75,8x50,6. Le altre Senza titolo, 1966Fotografia in b/n. cm 65x50,3

Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

di laura [email protected]

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i turisti e i molti che tran-sitano da piazza Santa Maria Novella guardano con

perplessità quella pietra a terra, una pietra quadrata, liscia rispetto alle altre scanalate, e con su, in italiano e in inglese, una scritta a caratteri lapidari: “tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora”. Faticano a capire di cosa si tratti, turisti e passanti. E non c’è da meravigliarsene: se i monumenti, in genere, si contraddistinguono per monumentalità, appunto, e retorica, questo è esattamente l’opposto. Ma di un monumento si tratta comunque, inaugurato per di più in occasione di una delle ricorrenze che più si prestano e si sono prestate negli anni alla patria retorica, il 25 aprile, festa della Liberazione, della Resistenza contro il fascismo e l’occupazione nazista. Qui, come si è fatto altrove in quello stesso giorno (Pistoletto a Rifredi), si è chiamato un artista, Alberto Garutti, il cui lavoro si caratterizza da sempre per un aspetto squisitamente relazionale e gli si è chiesto – da parte del Museo del ‘900 - un intervento. Garutti, lo si ricorderà, era già intervenuto più volte in Toscana. Nel ’92 a Peccioli, in provincia di Pisa, nel piano di una riqualifica-zione ambientale affidata a artisti, usò il suo budget per restaurare la facciata del vicino teatro di Fabbrica, dedicato poi, con una lapide “ alle ragazze e ai ragazzi che in questo piccolo teatro si innamorarono”. Stessa operazione avvenne dieci anni dopo a Colle Val d’Elsa. Anche qui c’era una grande rassegna, “Arte all’arte”, e anche qui Garutti aveva la possi-bilità di realizzare un’opera sua, un’opera ambientale, come face-vano altri artisti invitato. Solo che, anche qui Garutti scelse un’altra via e ancora una volta con i fondi del proprio budget restaurò la corale Bellini di Colle Val d’Elsa, l’edificio più importante del paese da tempo in precarie condizioni. Si tratta di operazioni che hanno a che vedere con il motivo del dono, il gesto capace di aprire una relazione dove il dare e l’avere diventano la stessa cosa. E si tratta – come è capitato di osservare – di una mediazione tra il sé dell’artista e l’ascolto collettivo, concretizzata

Un monumento antimonumentale

Una installazionedi Alberto Garutti

in piazza Santa Maria Novella

di gianni [email protected] in opere che non riferiscono tanto

dell’autore quanto di chi le usa, di chi ne partecipa. Opere capaci di catalizzare il senso di una comuni-tà e di parlare di questa e a questa, mentre parlano dell’autore, anche.Ecco, anche qui Garutti si è messo in contatto con il sentire di una comunità. E’ partito da quella lapide che c’è sotto il loggiato del Museo del ‘900 – una lapide im-barazzante per chi la osservi, dove si ricorda come proprio lì venis-sero ammassati coloro che erano destinati ai campi di concentra-mento in Germania. Una sorta di anticamera dell’inferno, il cui senso oggi sfugge poiché si fatica a tenere insieme la piacevolezza odierna del luogo - anticamera di un museo del contemporaneo, il Museo del ‘900 appunto - con l’orrore di appena ieri. Garutti, con la sua frase incisa nella pietra, è come se riportasse l’attenzione su quegli eventi. Come se con-centrasse lì tutto il proprio vissuto (“tutti i passi fatti nella vita”) e se ne servisse come di un indicato-re, di una freccia. Che metta in contatto la piazza, e i passi di chi transita, con i “passi perduti” di chi sotto quel loggiato aspettava una orrenda fine.L’operazione è quindi far rivivere qualcosa, riattivarne la capacità di ammonimento. Non a caso l’inaugurazione del “monumen-to”, il 25 aprile, consisteva in un incontro fra l’artista e vari gruppi di studenti, dell’Università e dell’Accademia di belle Arti, dove si discuteva del senso di quel lavoro, del perché. Poi quegli stessi studenti si erano sparpagliati distribuendo ai passanti un po’ di foglietti bianco/rosso/verdi con su la scritta di quella pietra. Un monumento attivo dunque, coin-volgente, che prevede operazioni del genere da ripetersi di volta in volta diverse.Il lavoro di Garutti, concretizzato-si negli anni in tante altre occasio-ni, dal becchime distribuito agli uccelli sul tetto di una fabbrica in Belgio alla grande mostra al PAC di Milano che rimetteva in circolo i commenti dei visitatori come il vero materiale della mostra, è una occasione di riflessione importante. Su quel che indica (la lapide dei deportati) ma anche su una delle dimensioni del fare arte come forma e modello di una relazione, che pare oggi tra le più vitali. Sc

avez

zaco

llo

di maSSimo [email protected]

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Clyde Butcher nasce nel 1942 a Kansas City e studia architettura

all’Università della California, dove impara anche a fotogra-fare, costruendosi da solo una fotocamera. Sposa Niki Vogel nel 1963, e visitando con lei il parco di Yosemite rimane colpito dalle fotografie di paesaggio in bianco e nero di Ansel Adams. Nel 1970 esce definitivamente dal mondo dell’architettura e comincia ad esporre le sue foto, per fondare nel 1971 una piccola impresa per la produzione e vendita di fotografie di paesaggio. Per sei anni, fino al 1977, viaggia e fotografa attraversando gli stati di Washington, Oregon, Wyoming ed Ohio, spingendosi fino alle Hawaii, per fermarsi alla fine in Florida, stabilendosi prima a Fort Lauderdale e nel 1980 a Fort Myers. Per foto-grafare usa una 13x18cm a sof-fietto di grande formato, e per incontrare il gusto dominante del mercato, usa quasi esclusi-vamente pellicole a colori. Nel 1983 comincia a fotografare le spiagge della Florida, ed arriva a scoprire, con l’aiuto di un nativo della regione, i tesori naturalistici della zona, come la Big Cypress National Preser-ve e le Everglades. La morte accidentale nel 1986 del figlio diciassettenne gli provoca un forte trauma psicologico, da cui Clyde esce isolandosi nella natura selvaggia e legandosi alle particolarità del luogo, che scopre essere permeato, ai suoi occhi, di grande mistero e spiritualità. Dopo questo tra-gico episodio Clyde cambia in maniera radicale il proprio me-todo di lavoro, distrugge le sue opere a colori ed acquista una fotocamera di formato ancora più grande, 20x25cm, deciden-do di dedicarsi unicamente alla fotografia in bianco e nero. Big Cypress Swamp e le Everglades diventano il suo tema preferito, anche se non esclusivo, ed è a questo tema che si dedica con una passione ed una attenzione tali da fargli assumere in breve tempo un ruolo di primo piano nel mondo della fotografia na-turalistica e di paesaggio. Pub-blica degli splendidi libri e dif-

di danilo [email protected] fonde la conoscenza di questo

angolo della Florida, che non cessa di esplorare sempre più a fondo ed in maniera sempre più sistematica, raccogliendo con la propria opere numerosi consensi ed onorificenze. Per ottenere nelle sue immagini la massima definizione ed il più alto numero possibile di det-tagli Clyde utilizza fotocamere di diversi formati, scegliendo il formato in funzione del tema, arrivando fino a negativi di 30x50cm. Dai negativi di grandi dimensioni trae, per ingrandimento, delle stampe di

dimensioni ancora maggiori, da 60x90cm a 100x150cm ed ol-tre. Ogni stampa così ottenuta viene numerata e firmata. Lo scopo del suo lavoro è quello di ricreare nell’osservatore le stesse sensazioni provate di fronte allo spettacolo diretto della realtà, filtrata attraverso una visione monocromatica che rende la percezione ancora più nitida ed essenziale. Le notevoli dimen-sioni delle sue opere, da sole, non sarebbero sufficienti a fare di Clyde un “grande” fotografo. Dalle sue immagini traspare un rapporto intimo, diretto ed emotivo, quasi di natura religiosa e panteistica con la particolare essenza dei luoghi. La lezione dell’ultimo Adams è stata ben compresa da Clyde, che vede nelle forme della na-tura lo svolgersi di un processo vitale complesso ed inarresta-bile, dove nuvole ed acqua, rocce e vegetazione, echeggiano sagome animali, e dove tutto è permeato di una vitalità diffusa e prorompente, in un ciclo che la morte può solo sospendere, ma non arrestare

Clyde Butcher

IlfotografodelleEverglades

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mistica nel Paradiso. Eppure è la stessa lingua che sa, miracolosa-mente, adattarsi a condizioni così radicalmente diverse. Una lingua selvaggia, dicevo, addomesticata da Cauteruccio nella sua ascesa alla Luce assoluta e accecante della beatitudine; per poi tornare, ancora, sempre, a perdersi nella

selva oscura. Virtuosismi musicale di Lorenzo D’Attoma (primo percussionista dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino) e vocale-performativo di Chiara De Palo rendono questo eterno ciclo catartico che Cauteruccio propo-ne fino a sabato 12 giugno (ore 23), un’esperienza imperdibile.

Corpo, suono e luci invado-no, occupano la scena... che non esiste, perché lo spet-

tatore (che poi spettatore non è, quanto piuttosto protagonista del viaggio) è scaraventato in quello che dovrebbe essere il palcosce-nico per antonomasia (il Teatro dell’Opera di Firenze) senza mai sedersi ad assistere ad uno spet-tacolo, appunto, messo in scena. “Tre movimenti di luce. Rumore. Tremore. Fulgore” di Giancarlo Cauteruccio è un viaggio scenico sensoriale nella Commedia di Dante: veramente un’esperienza forte, avvolgente e immergente, nei tre regni danteschi che si svolge dentro le nuove architettu-re del teatro dell’Opera di Firenze (ed è già un fatto notevole che la direzione artistica del Maggio Musicale Fiorentino abbia inserito un lavoro così off nell’edizione numero 78 del Festival). Queste architetture (dai sottosuoli al retropalco, fino alla cavea) si tra-sformano, vengono sconvolte (o rivelate, che poi è lo stesso) dalle luci, dai suoni, dallo spasmo dei corpi che Cauteruccio concepisce, e diventano veramente l’altrove che è dentro di noi in cui Dante immagina la sua Commedia. Come le architetture straordina-rie, inimmaginabili, smodate del Teatro, anche noi viaggiatori, i nostri corpi, sensi e spirito, sono condotti attraverso trasformazioni drammatiche: non è un viaggio, quanto una transumanza da uno stato all’altro dei nostri corpi: dal-la claustrofobica e disperata con-dizione infernale, alla anodina ma atletica situazione purgatoriale, fino allo svanire nella paradisiaca luminosa ascesa. Anche la lingua che Cauteruccio sceglie, accom-pagna queste mutazioni: non è l’i-taliano del Trecento, ma la lingua della Grande Madre del regista, la Calabria, quella primordiale carica di undici secoli di storia e di connubi di popoli e lingue, gli Aschenazi, Ausoni-Enotri (Itali, Morgeti, Siculi), Lucani, Bruzi, Greci e Romani; poi i Bizantini e i Normanni nel Medioevo; fino agli Angioini ed Aragonesi. Cauteruccio ha mirabilmente tradotto e reso parti della Com-media dantesca in questa lingua composita: selvaggia e violenta dei primordi nell’Inferno; liquida e colta nel Purgatorio; dolce e

di Simone [email protected] Tre movimenti

luce

Robert e Sonia Delauny

di

“Artisti in coppia” di Marilena Mo-sco (ediz. Nicomp L.E.) è un libro denso, corposo, fitto di notizie rare che riguardano la vita intima oltre che artistica di dodici coppie celebri. Il sottotitolo “Passioni, complicità, competizione” riassume le tre principali dinamiche emotive e psicologiche intorno alle quali ruotano queste vite. La narrazione si articola su livelli molteplici, toccando il rapporto amoroso sviluppa nello stesso tem-po le idee e le pratiche artistiche di ciascuno, inserito a sua volta nelle correnti e movimenti presenti al tempo. Un libro dalle molte valen-ze,  prezioso per i molti dati tecnici, per i commenti critici puntuali, per la bibliografia rigorosa, per le immagini delle opere in gran parte delle figure femminili, ancora così poco conosciute.Dal secondo Ottocento sino agli anni Settanta del Novecento, si narra un secolo di storia raccontata nei diversi luoghi in cui si è svolta.

I luoghi che fanno da sfondo sono anch’essi protagonisti. In primis Parigi capitale mondiale dell’arte perché era lì che tutto accadeva, con artisti quali Rodin e Camille Claudel, Modigliani e Beatrice Hasting, Picasso e Dora Maar. La Germania di Kandinskij e Gabriele Münter, o la Russia di Laronov e la Natalija Goucărova, l’Italia di Marinetti e Benedetta Cappa e più tardi la Roma di Mafai e Antoniet-ta Raphael. La New York di Alfred Stieglitz e di Georgia O’ Keeffe o di Pollock e Lee Krasner, persino il Messico coi suoi movimenti rivo-luzionari nel caso di Frida Kahlo e Rivera. Storia dell’arte ma anche storia sociologica e di costume nei suoi mutamenti avvenuti con lo scorrere del Novecento. Attrazioni fatali e coup de foudre tra per-sonalità forti che in alcuni casi si

assomigliano e che condividono le stesse poetiche o passioni politiche o tendenze artistiche, in altri casi si distinguono per temperamento. Donne dalla forte personalità, di spirito indipendente e man mano che cresce il secolo, sempre meno oppresse dai sensi di colpa di voler essere libere nella vita e nell’arte.Ognuno di questi artisti, uomini e donne, con le loro contraddizio-ni, le fragilità, gli ego sofferenti, personalità magari forti dal punto di vista artistico ma fragili intima-mente. Destini spesso tragici. Rari gli esempi di amori armoniosi, tra questi Robert e Sonia Delanay o Larionov e Goucărova. Più spesso prevale l’emergere di contraddizio-ni o rivalità sia delle donne come degli uomini seppur geniali, con nomadismi sentimentali degli uni come delle altre. Il libro, fonte imperdibile per gli addetti ai lavori ma facilmente fruibile da un pubblico ampio, si chiude con un ultimo testo  “Amare l’arte, l’arte di amare” che fa da summa allo sviluppo del libro, ove l’autrice Marilena Mosco fa il punto sulla condizione del “femminino” e della capacità di darsi all’altro.

di elda [email protected]

Coppie di artisti

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to da vaste aiuole fiorite (50.000 bulbi arrivarono da Costantino-

poli, allora ca-pitale dei fiori), poi boschetti e, più a distanza, gli alberi d’alto fusto (furono trapiantate inte-re foreste della Normandia e delle Fiandre).

Le diverse parti sono divise da viali con uno più grande centra-le che consente di spaziare con lo sguardo in una prospettiva di grandissimo effetto. Oltre le 2400 fontane che, al tempo come oggi, non sono mai potute essere state azionate contem-poraneamente a causa dell’e-norme consumo d’acqua non riciclabile, Le Notre progettò un piccolo giardino privato con un minuscolo laghetto contor-nato da alberi e fiori. A fianco di questo una grotta naturale con un’apertura al centro e una piccola costruzione sopra, luogo dove stavano i musici che con le loro note inondavano la grotta dove spesso il re e i suoi ospiti solevano trovare riposo dalle loro passeggiate. Una parte del terreno era dedicato agli orti e frutteti (oggi, purtroppo , non aperti al pubblico) resi non visibili dalla villa e dal parco at-traverso alti muri che servivano anche per imprigionare il calore del sole creando tanti microcli-mi per le diverse esigenze pro-duttive. Il successo di Le Notre fu enorme. Il parco di Versailles con le prospettive fatte di fiori e alberi dava quella sensazione di controllo dello spazio e di potere che ben si adattava allo spirito di grandeur dell’aristo-crazia francese, e così dal XVII secolo fino alla fine del XIX non ci fu giardino in Francia di villa o castello che non sia ispirato ai canoni estetici del giardiniere del re.

il film Le regole del caos di Alan Rickman, ambientato alla corte di Luigi XIV,

nonostante le incongruenze sto-riche e i personaggi fittizi come la volitiva orticultrice Simone de Barra, dà l’occasione per conoscere la figura di Andrè Le Notre (1613-1700), uno dei più grandi paesaggisti di tutti i tem-pi. Suo padre, Jean Le Notre, giardiniere capo delle Tuileries, i giardini del re, trasmise la sua carica al figlio già talentuoso pittore. Ben presto le sue capacità artistiche lo portarono a ri-voluzionare la ma-niera di progettare gli spazi verdi creando uno stile unico che pas-sò alla storia come giardino alla francese. Si trattava di disporre fiori, alberi e decori in un gran-de disegno unitario e armonico in modo tale che fosse godibile, con prospettive a perdita d’oc-chio, anche da una certa distan-za dall’abitazione in una visione d’insieme d’imponente sugge-stione. Andrè Le notre aveva già creato il capolavoro del parco del castello di Vaux-Le-Vicomte, residenza di Fouquet, quando Luigi XIV gli affidò la realizza-zione dei giardini del castello di Versailles. In effetti quella che poi, dopo vent’anni di lavori, si trasformò nella più grande residenza reale d’Europa, era in origine un vecchio castello, a 17 chilometri da Parigi, utilizzato come alloggio dopo le battute di caccia, circondato da paludi, acquitrini e sabbie mobili tanto da essere definito “il più triste e ingrato di tutti i luoghi”. Le Notre riuscì a domare questa natura così ostile creando una scenografia sfarzosa che diven-terà simbolo politico, insieme al castello-reggia, del potere assoluto di Luigi XIV, il grande Re Sole. Il terreno fu bonificato e fornito di acqua corrente che proveniva direttamente da Parigi con opere idrauliche enormi commissionate a Piero Francini di origini toscane, noto per le sue rivoluzionarie invenzioni nel settore. Per la progettazione del parco Le Notre applicò il suo schema con il castello circonda-

I giardini a perditad’occhio di Le Notre

di SimoneTTa [email protected]

Il migliore dei Lidi possibiliFinalmente

è arrivato il caldo!Disegnodi Lido Contemori

Didascalia di Aldo Frangioni

di lido [email protected]

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Quando in Italia cominciarono a solcare i cieli “quei temerari sulle macchine volanti”, per citare il titolo di un celebre film, Firenze non si lasciò cogliere impreparata. Il film di Ken Annakin è ambien-tato nel 1910 e fu appunto nel 1910 che si svolse al Campo di Marte la prima grande manife-stazione internazionale aviatoria della quale ho già avuto occasione di parlare: ma era da tempo che i fiorentini sfidavano la forza di gravità.Già il 19 marzo 1864 una mon-golfiera si era innalzata in cielo per un breve volo, salutata da una folla plaudente sui tetti: c’è una celebre foto che immortala l’avvenimento, riguardo al quale non ci sono però molte notizieSi sa invece tutto della trasvolata Firenze-Bagno a Ripoli del 27 giu-gno 1869, a cominciare dal nome dei partecipanti: i parigini Eugene Godard (progettista e pilota della mongolfiera che, in omaggio alla

città ospitante, fu battezzata “Città di Firenze”) e gentile signora, l’a-mericana Julie Belmonte, il polac-co Michel Schemboch, il torinese Luigi Zuccalà e il napoletano Renaud de Sterlich. La mongolfie-ra partì da Firenze alla sette e venti

di sera e atterrò a Bagno a Ripoli alle nove e diciassette: poco più di quello che ci si impiegherebbe oggi in auto, considerato il traffico e i vari cantieri. Non so quale sia il luogo dell’atterraggio ma quello di partenza è noto: il giardino zoologico delle Cascine, che, come altrove accennato, si trovava fra il Fosso Macinante e l’Arno, all’al-tezza del luogo dove ora hanno realizzato Piazza Vittorio Gui. La trasvolata si inseriva infatti in un ricco programma di manifestazioni organizzato dalla “Regia Società Anonima Zoologica Fiorentina” che gestiva il giardino. A scopo scientifico, oltre agli “umani”, sulla mongolfiera decollarono anche due gabbie con delle scimmie, gabbie che furono poi paracadu-tate sul Lungarni: gli animali, per quanto terrorizzati, arrivarono a terra incolumi e il programma del-le manifestazioni potè proseguire con il numero successivo, “il pasto delle belve feroci”.Nel 1912 la “settimana aviatoria”

si svolse nel pratone del Visarno. Fra i partecipanti Romolo Manis-sero, detto “la libellula rossa” per il colore del casco che era solito indossare. L’anno prima Manissero con il suo monoplano Bleriot era volato da Firenze a Prato e ritorno in 29 minuti e 15 secondi e aveva stabilito il record italiano d’altezza raggiungendo i 2.190 metri di quota.Al Visarno il Bleriot lo tradì: si era appena alzato quando il mono-plano perse rapidamente quota e si abbattè al suolo; l’aereo cadde nei frutteti che si trovavano lungo quella che oggi è Via Paisiello, precisamente nel tratto compreso fra Via Donizetti e Via Rinuccini, come mi ha raccontato molti anni fa un vecchio abitante della zona, testimone oculare dell’incidente. Manissero ne uscì incolume e continuò a volare per molti anni: il destino volle che, dopo essere sopravvissuto a tanti incidenti, morisse nel 1951 cadendo dalla sedia a rotelle dove era inchiodato.

il 7 ottobre 1944 a Te Aroha, cittadina rurale dell’Isola del Nord, una delle due isole principali che compongono la Nuova Zelanda. È l’ultimo di quattro figli e l’unico maschio. Terminata la scuola frequenta l’Università di Auckland, dove studia musica sotto la guida di Robin Maconie e Ronald Tremain. Dopo la laurea si trasferisce alla Victoria Universi-ty di Wellington: qui frequenta lo studio di musica elettronica diretto da Douglas Lilburn, che l’ha fondato nel 1966. Successivamente studia con

Mauricio Kagel a Colonia, dove insegnano i maggiori esponen-ti dell’avanguardia musicale europea, quindi con Gottfried Michael Koenig a Utrecht. Qui scrive 23 Pages (1971), un brano per grande orchestra commis-sionato dalla New Zealand Broadcasting Corporation per il venticinquesimo anniversario della sua orchestra sinfonica. Il momento centrale della vita artistica di Body è rappresenta-to dall’incontro con la musica asiatica. Non soltanto in termini musicali, ma anche umani, dato che qui conosce il glottologo Yono Soekarno, che sarà il suo compagno per oltre quarant’an-ni. Fra il 1976 e il 1977 lavora come lettore all’Akademi Musik Indonesia di Yogyakarta. In que-sto periodo sviluppa un grande interesse per la varietà musicale dell’arcipelago indonesiano. Negli anni successivi realizza numerose incisioni, fra le quali Music for Sale: Street Musicians of Yogyakarta (Kiwi Pacific 1982), Music of Madura (Ode, 1991) e Jemblung: Sung Narrati-ve Traditions (Pan, 1997). Al tempo stesso promuove la diffusione e lo studio del gamelan, l’orchestra indonesia-na composta in prevalenza da strumenti a percussione. Il suo

Dove finisce l’Asia, dove inizia l’Oceania? Fra questi due continenti

esistono forti legami culturali, seppure più recenti e meno noti di quelli che uniscono l’Europa e l’Asia.Lo conferma la musica: l’in-fluenza asiatica è un tratto distintivo di molti compositori australiani e neozelandesi, che hanno costruito la propria originalità anche grazie a questo contatto. Per loro, del resto, Tokyo e Giakarta sono molto più vicine di Vienna e Berlino. Uno dei musicisti più profon-damente legati all’Asia è stato era il neozelandese Jack Body, deceduto a Wellington il 10 maggio scorso per un male incurabile. Il compositore, che aveva compiuto 70 anni nell’ot-tobre 2014, era rimasto molto attivo fino agli ultimi mesi di vita. Pochi giorni prima della morte le due principali etichette neozelandesi, Atoll e Rattle, ave-vano pubblicato altrettanti CD, Songs of Death & Desire (Atoll, 2015) e Passing By (Rattle, 2015), con musiche di Body eseguite da ensemble e orchestre prestigiose. John Stanley (Jack) Body nasce

interesse etnomusicologico non è però limitato all’Indonesia: Body compie numerosi viaggi in Corea, Giappone e in altri paesi asiatici. Nel 1981 entra a far parte della Asian Composers League. Si interessa alle mino-ranze dello Yunnan (Cina), alle quali dedica South of the Clouds (4 CD, Ode, 2003). Body col-labora a più riprese col Kronos Quartet, per il quale scrive Three Transcriptions (1987), Epicycle (1989) e Arum Manis (1991). Inoltre collabora al progetto multimediale A Chinese Home, che il quartetto porta in scena nel 2009 insieme al composi-tore cinese Wu Man. Come la maggior parte dei compositori neozelandesi - da Douglas Lilburn a Gillian Whitehead - Body mostra un interesse per la cultura maori che trova eco in varie composizioni. Scrive la co-lonna sonora di Uenuku (1974), il primo sceneggiato televisivo in lingua maori. Waiata Maori (2005), per voce e ensemble, propone varie poesie femminili tradotte e cantate nella lingua indigena. Songs and Dances of Desire: In Memoriam Carmen Rupe (2013), per chitarra solista, mezzosoprano, contralto e orchestra, è un omaggio a una famosa drag queen maori.

di FaBriZio [email protected] Via Paesiello

Oggi si vola

Lontano da Vienna,vicinoa Bali

di aleSSandro [email protected]

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di rivoluzionari assediati in una miseria diffusa e apparentemente senza speranza, rappresentata dalla enorme quantità di que-stuanti, dalle vecchie magrissime e sdentate che si offrono per farsi fotografare col sigaro in bocca e poi richiedono un Cuc (la mone-ta del turista) per la prestazione, alle bambine e bambini, anche di cinque, sei anni, basta che sap-

piano articolare, in cerca di bon bon, saponette, moneta, quasi come un secondo lavoro, mentre accompagnano la mamma al mercato o chi sa dove. E poi le vecchie farmacie restaurate e ri-empite di vasi rifatti sugli antichi contenitori, bellissime da vedere, ma desolanti per l’assenza di prodotti farmaceutici disponibili per il pubblico. Mi ha impres-

sionato molto e male, ma forse esagero, anche se poi il tassista che è esploso lamentandosi che a Cuba va tutto male, salvo la borsa nera, mi fa pensare che abbiamo visto poco, ma probabilmente abbastanza. Poi, è vero, c’è anche il bellissimo e faticosissimo lavoro dell’ufficio che si occupa del restauro urbano, che sta ridando luce e bellezza alle piazze e alle vie storiche delle città cubane, una casa dopo l’altra. Un lavoro me-ticoloso, lentissimo anche per via della mancanza di mezzi e risorse, ma che qua e là a macchia di leo-pardo, o in alcuni centri storici di particolare rilievo con maggiore intensità di risorse e di impegno, ha consentito di mantenere e ria-bilitare vedute bellissime di colori e composizioni architettoniche che raccontano e rappresentano la storia della Cuba coloniale fini ai primi decenni del novecento.Insomma sensazioni contrastanti, forse vissute con un certo senso di delusione rispetto alle aspet-tative. Voglio dire che forse una conoscenza più approfondita po-trebbe rivelare una situazione più viva e dinamica di quella che io ho creduto di vedere: le molte famiglie che investono nelle loro case per farne “casas particulares” per ospitare turisti, il numero in-finito di taxi, che rimediano alla sostanziale mancanza di una rete pubblica di trasporto affidabile e funzionale, botteghe e bottegucce che vendono di tutto, ristoranti e bar gremiti dai turisti, insom-ma tutto un mondo che punta sostanzialmente sul turismo e si sforza di moltiplicare le offerte e le occasioni di guadagno, aiutati, e anche in questo caso posso solo immaginare, dalle aperture del regime nei confronto della libera iniziativa. In questi giorni l’Avana mi ha ricordato le città di Gaza: bastava uscire dalle vie restaurate e aperte al passeggio dei turisti, per ritrovarsi in strade disselciate, polverose, sporche, senza luce, in mezzo ad edifici crollanti, disfatti, pieni di una miseria davvero im-pressionante. E come la Palestina anche L’Avana sembra perdere fiato e risorse strangolata dall’iso-lamento che ha subito e subisce. C’è da sperare che le aperture di Obama portino nuova linfa alla economia dell’isola, ma c’è da chiedersi che prezzi dovrà pagare il popolo cubano rispetto alla sua identità recente.

Curiosa esperienza questa di Cuba: dopo tanti anni di abitudine a Internet

sempre e dovunque disponibile, mi trovo immerso nel proble-ma della comunicazione in un universo “a rete condizionata”, in questo caso dalle disposizioni di regime, più che dalle insufficienze tecnologiche, peraltro indubbia-mente pesanti. Niente accesso ai quotidiani on-line, niente mail, nulla di quella immediatezza di scambi, certamente eccessiva, ma nel bisogno vantaggiosissi-ma, cui siamo ormai abituati e dipendenti. A Cuba l’accesso a Internet è permesso solo presso le agenzie dedicate o presso gli alberghi più grandi che dispon-gano di WiFi per la clientela, mediante acquisto di una tessera oraria che permette di acquisire la password per il fornitore del servizio, che credo sia l’unico per tutta l’isola; non esiste per quanto ho potuto verificare un WiFi free. I cubani hanno il loro account, ma possono accedere alla loro posta solo nelle agenzie suddette, evidentemente anche per esigenze di controllo del sistema. A Cuba si intreccia l’aspetto della diffusa povertà con lo sforzo del governo di mantenere al lavoro più gente possibile; così accade che a ven-dere pizze sulla spiaggia, su un vassoio che un ragazzino potreb-be tranquillamente appendersi al collo da solo, si presentino due baldi giovani, che mentre dividono lo scarso lavoro, si fanno compagnia su e giù lungo la spiaggia; si notano quantità di commessi a far la guardia a piccoli musei semideserti; due, tre persone addette a filtrare gli accessi in banca; lavoro lento e distratto, senza fretta e spesso con poca attenzione … Questa sensazione di una fondamentale povertà è ciò che colpisce prima di tutto. Che si esprima nelle macerie del centro antico della capitale o nella dignitosa e bellissima cittadina coloniale di Trinidad, avverti dietro a tutto la necessità di fare i conti con la pochezza delle risorse a disposizione, che a poco a poco ha strangolato la società cuba-na, e lavorato duramente sulle generazioni postrivoluzionarie, diluendo via via – immagino io – la dignitosa povertà di un popolo

Cuba libre/1di andrea [email protected]

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Mercoledì 13 maggio alla Galle-ria La Corte Arte Contempora-nea di Firenze ho presentato in anteprima la performance Em) i!c, iCL . i dove parola scritta, voce, suono, corpo e movimen-to, immagini e pittura s’incon-trano creando uno spazio e un tempo dell’accoglienza. L’armo-nica di Juri “Pilgrim” Pellegrini, la sonorità delle voci di Luis Algado e Elisa Zuri, il corpo dei ballerini Cristina e Giuseppe Salerno vibrano sui testi delle poesie di Algado basi dalle quali tutto si è mosso in completa sintonia e percezione l’uno degli altri. Perché Em) i!c, iCL . i è un po’questo cioè saper ascolta-re, cogliere il momento adatto per inserirsi, andare incontro all’altro, fare posto all’altro in un gioco di allargamento e restringimento, adattamento e inserimento nello spazio mante-nendo l’apertura verso l’esterno e l’interno per cogliere anche le variazioni appena percettibili. Em) i!c, iCL . i è la possibi-lità di ascolto profondo, è la sperimentazione e il confronto con le parole ma è anche spazio bianco d’incontro tra un io e un noi. Ha infinite poten-zialità, è il vuoto, è l’assenza e proprio per questo accoglie diversi linguaggi artistici e si fa presenza. Em) i!c, iCL . i sarà

sempre in divenire perché agisce nell’adesso cogliendo le emo-zioni individuali e traducendole in una corale dove le varie voci si amalgamano suscitando negli spettatori un ventaglio di sentimenti diversi e a volte contrastanti. Le immagini delle opere di Beatrice Pieroni Lubé sono semicerchio e abbraccio confortevole, la scena in cui gli altri artisti agiscono. Le

loro immagini proiettate sulla parete divengono la terra con la certezza della sua ciclici-tà mentre le voci, il suono dell’armonica, i movimenti del corpo dei ballerini cambiano, improvvisano, diventano urli, sono gioiosi oppure disperati in un’atmosfera elettrizzante dove il diverso s’incontra e il caos e la non armonia iniziale diventano equilibrio e bellezza.

Em)i!ciCL . i

Emicicli

di angela [email protected]

Nel IX Arrondissement di Parigi, al n.12 di Boulevard des Capuci-nes, si trova uno dei più antichi e famosi caffè della Ville Lumière: il Cafè de la Paix, dal 1975 monumento nazionale come l’edificio di cui fa parte.Come l’Opéra che si trova poco distante è stato progettato dall’architetto Charles Garnier, uno dei protagonisti del periodo di rinnovamento urbanistico di Parigi attuato durante il Secondo Impero.Napoleone III, durante un sog-giorno in Inghilterra (1846-48), rimase colpito da come Londra aveva saputo ricostruirsi dopo il grande incendio del 1666 e decise che Parigi, dotata di un impianto di stampo medievale ancora alla metà dell’800, doveva rinnovarsi per divenire punto di riferimento come la metropoli inglese.

L’architetto Georges-Eugène Haussmann venne così incari-cato di elaborare e attuare un imponente piano di ristruttura-zione che, tra il 1852 e il 1869, comprese nuovi regolamenti urbanistici, nuove costruzioni, rifacimento della rete idrica e del sistema fognario interessando circa il 60% della cittàNacquero così fra l’altro i «grands boulevards» e gli Champs-Elysées presero l’aspetto attuale. Il Caffè venne aperto nel 1862 come caffè del Grand Hotel de la Paix e l’imperatrice Eugenia di Montijo presenziò all’inaugu-

razione allietata da un’orchestra diretta da Jacques Offenbach. I visitatori dell’Esposizione Universale del 1867 poterono così frequentare il Cafè de la Paix che, con l’inaugurazione della vicina Opéra nel 1875, divenne un punto di riferimento della vita culturale di Parigi e fu frequenta-to nel tempo da personaggi quali Cajkovskij, Massenet, Zola, Guy de Maupassant, Josephine Baker, Oscar Wilde.Il Cafè è stato uno dei punti di riferimento della Belle Epoque e della “Generazione perduta” degli

anni ‘20 del XX secolo quando molti letterati e artisti angloa-mericani si stabilirono a Parigi: Francis Scott e Zelda Fitzgerald, Cole Porter, Ernest Hemingway, Gertrude Stein, Samuel Beckett, James Joyce, Henry James. A loro si unirono artisti come Amedeo Modigliani, Salvador Dalì, Luis Bunuel, Pablo Picasso, Man Ray e altri in un eccezionale periodo culturale il cui spirito si muove ancora tra i tavoli di diversi locali della Rive Droite della Senna. Il Cafè de la Paix è entrato nella letteratura e nella musica. Nella “Ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust è frequentato da Robert Marchese di Saint-Loup en Bray mentre Franco Battiato, forse con riferimento a Georges Ivanovic Gurdjieff che frequen-tava il locale, gli ha dedicato una canzone contenuta nell’omonimo album.

di STeFano [email protected]

Caffè LetterarioVenite a prendere un tè al Caffède la Paix

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ne, come è stato detto. Ma se di ossessione si tratta, allora è della stessa natura di quella di un Morandi, o di un Giacometti.Sabato 13 giugno ore 12,00 a Quadro 0,96 (lo spazio espositivo più piccolo del mondo), aperto 24 ore al giorno

Franco Valsangiacomo viene dal Canton Ticino, quella Svizzera Italiana che sulla

carta potrebbe avere tutte le caratteristiche di immobilità e stagnazione artistica proprie di una dimenticata “periferia dell’impero”, ma che nella realtà mostra una vitalità artistica sor-prendente quanto inaspettata, animata da una folta schiera di artisti di primissimo piano nel contesto svizzero e lombardo. Basta ricordare qualche nome sull’arco di due generazioni: Mario Chiattone, Nag Arnol-di, Giuseppe Bolzani, Guido Gonzato, Felice Filippini, Pietro Salati, Mario Comensoli, Gino Macconi, prima e Silvano Gi-lardi, Cesare Lucchini, Samuele Gabai, Nando Snozzi, Alfredo Tadini, Mauro Valsangicomo poi. Proprio a quest’ultima ge-nerazione, nata a cavallo fra gli anni ’40 e ’50, appartiene anche Franco Valsangiacomo. Era un gruppo di giovani di talento che negli anni ’70 raggiungeva (con viaggio biquotidiano in treno) l’Accademia di Belle arti di Brera per formarsi alla scuola di Reggiani, Cantatore e Purificato, in quella Milano non ancora “da bere”, così vicina e nel contempo così lontana dalla placida e ovattata quotidianità ticinese. La grande metropoli fra gli anni della contestazione e gli anni di piombo in cui, oltre alla tecnica pittorica, questi giovani avrebbero preso consapevolezza di quell’ “impegno” artistico e sociale che contraddistinguerà in seguito la loro produzione. Ed è proprio in quell’ambien-te «tremendamente vivo» che Franco Valsangiacomo, in una postazione discosta in fondo all’aula, proiezione di un animo timido se non schivo, lontano dalla folla tumultuosa che lo cir-conda, trova la sua espressività, la sua poetica. Non la massa nel suo dinamismo rivoluzionario, nella sua energia creatrice, ma l’uomo nella sua individualità, nella sua solitudine, nella sua drammatica unicità. La raffi-gurazione della figura umana, proposta e riproposta negli anni successivi in una evoluzione fluida, senza soluzione di conti-nuità. Un eterno ricorso di temi e di soggetti, forse un’ossessio-

Un ticinese a Fiesole

di Joël F. vauCher-de-la-Croix

Franco Valsangiacomoa Quadro 0,96

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vittoriano, di seta nera, (1898) che vediamo in foto proviene da un

Museo America-no da cui hanno acquistato l’intero guardaroba di una singola famiglia, tramandato per tre generazioni sia pure con modifiche e aggiornamenti in base alla moda del tempo e chissà a variazioni di misu-re di chi li doveva indossare. Accanto alla raccolta muse-ale, Lapadula-Le-rario dispongono di molti abiti ed accessori-1900 Ate-lier- che noleggia-no per realizzare video, spettacoli teatrali,film; anche privati desiderosi di apparire chic a qualche importan-te soirée possono rivolgersi a loro.

Varie le mostre organizzate, fra queste una a Milano, al Tea-tro del Verme, un’altra recente, “Siamo donne”, a Spello, il titolo cita un film collettivo italiano del 1952 interpretato da quattro dive nostrane ritratte in episodi facilmente riconducibili alla loro personale psicologia e realtà. In questa mostra si voleva ricordare come l’abito di una Diva possa mostrare e mimetizzare animo, gioia, dolori, ansie comuni a tutte le donne non stelle del cinema. La foto con molti abiti neri è tratta dalla mostra “Attraverso il nero”, collocata nel bellissimo Salone degli Affreschi dell’Ateneo di Bari.

Facebook è ricettacolo di molti gruppi, associazioni estemporanee, mostre di foto

storiche, oggetti personali, a volte in vendita, a volte solo mostrati con orgoglio, un sito bellissimo “parla con i muri” espone bislac-che scritte immortalate qua e là e via e via. Io girello fra queste varie pagine e ogni tanto trovo inizia-tive interessanti e poi “conosco” persone speciali. E’ così che, nella pagina “Storia del Costume e della Moda”, ho incontrato Luciano Lapadula e la sua ragguardevole collezione di abiti d’epoca. Non ho potuto ammirarli dal vero visto che si collocano, imbustati e riposti in grandi armadi in uno spazioso magazzino, a Bari dove Luciano lavora e insegna all’Uni-versità, ma ho dialogato con lui. I primi abiti che ha conservato sono quelli della madre e di alcune sue amiche, li trovava bellissimi e pen-sava fosse un inaccettabile spreco disfarsene e buttarli fra i rifiuti, a lui apparivano a volte già come piccole opere d’arte. La moda, la bellezza e l’arte in genere sono un po’ nell’imprinting di Luciano, il nonno materno lavorava per l’atelier delle sorelle Fontana e volentieri gli narrava di quel per-duto mondo, fatato e scintillante, un prozio brevettò un corset-to, un più lontano parente, Ernesto Lapadula, fu famoso architetto, realizzò il palaz-zo della Civiltà Italiana all’Eur, emblematico esempio razionalista. “In seguito -dice- la passione è cresciuta in modo naturale, amo l’arte e la socio antropologia, che insegno, e dunque la ricerca del “segno” nella storia è esemplare attraver-so lo studio e la collezione degli abiti.” Circa 10 anni fa Luciano ed un amico stilista, Vito Antonio Lerario, hanno pensato di rendere operativa la loro passione, posseg-gono circa 6000 abiti che spaziano dal 1700 ad oggi, Luciano ritiene che la più interessante e ricca sia la raccolta di abiti del ‘900 e in essa quella dedicata agli abiti italiani dall’epoca fascista agli anni ‘60. Li acquista ad aste, specifici mercatini, da privati, in musei, i reperti più preziosi ed antichi provengono da Parigi, i più cari possono essere quelli appartenuti a divi o personaggi pubblici. L’abito

armadiodi Lapadula e Lerario

di CriSTina [email protected]

Il grande

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“Le fiabe non insegnano ai bambini che i draghi esistono, loro lo sanno già che esistono. Le fiabe insegnano ai bambini che i draghi si possono sconfiggere.” Ma se ciò che G.K. Chesterton lu-cidamente afferma vale per i bimbi, lo stesso non è per gli adulti, che, smesso di credere all’esistenza dei draghi, si ritrovano ormai senza più armi per sconfiggerli. Così anche le fiabe diventano sentieri pericolosi nei boschi più oscuri, tanto che per addentrarvisi, serve una guida e non essere da soli, serve il coraggio di smascherare ad ogni passo il lupo travestito da amico e l’incantesimo che continui a chiamare sfortuna.Così affrontare il mondo di luci ed ombre evocato dalle fiabe dei fratelli Grimm è diventato per Elisa Biagini, affermata poetessa e cura-trice di raccolte e laboratori molto seguiti, ed il gruppo di autori che con lei ha lavorato mettendole e mettendosi in discussione, gli amici Marco Simonelli e Jacopo Ninni, Brenda Porster, Stefania Zampi-ga, Eva Taylor, Liliana Grueff, un “allenamento al vivere”, come ella stesse scrive nella Nota introduttiva, un modo per confrontarsi, riflettere ed infine “elaborare nuovi modelli di lettura del reale per cercare altro-ve, insieme, una strada nel bosco denso che ci circonda.”Non è raro, date queste premesse, incontrare sfogliando le pagine del libro scaturito da questo laboratorio

(Nei boschi, Edizioni Sui 2013) squarci delle biografie degli autori stessi: “sarebbe stato bello / avere un fratello grande / […] / non sono andata nel bosco / imparo a

raccontare i sassi” sospira Stefa-nia Zampiga mentre “l’osso che canta” rievoca a Eva Taylor che “la nostra storia / è diventata isola / greca”; riflessioni sulle storture in

seno all’umanità come nei versi “ci sforzavamo di non vedere / le gote rosse dei bambini / nei vetri della casa accanto” di Brenda Porster; svela i meccanismi che questi racconti celatamente innescano da sempre: “nascosti dietro un tronco / non credevamo ai nostri occhi / mentre sorridendo si toglieva ogni indumento / e poi s’arrampicava sulle trecce” nota con il suo occhio smaliziato Marco Simonelli. Non mancano, viste la qualità di chi ha preso parte al progetto, notevoli slanci lirici come, tra i molti altri, quelli di Jacopo Ninni (“… l’istan-za resta sempre quella / un amore che non si sfama mai / Nel mezzo si discioglie un deserto / dove la sete non sente il bisogno di guardare”) e di Liliana Grueff (“Sforbiciata la tua luna / - e sarà notte allora - / tenebra quieta / riposo d’ossa senza luce // e altrove, poi / un’altra luna in cielo”).La raccolta è suddivisa molto agilmente in sezioni di sei poesie per ogni fiaba affrontata (la luna, il leprotto marino, l’uccello strano, raperonzolo, hansel e gretel, rosaspi-na, l’osso che canta) ed ognuna di queste darà il nome alle pietanze che si alterneranno alle letture nella serata de Lo Stato intimo della Poesia di giovedì 18 giugno presso il Ristorante Mario alla Querciola di Fiesole dalle 19 in poi, perché insieme, in una situazione rilassan-te, si affrontano meglio le paure e ci si affida di più alle armi che la parte di noi rimasta bambina ci porge per sconfiggere il drago.

di maTTeo [email protected]

Aldo Frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della Bella

ScottexQuesta opera si potrebbe titolare: “Pam-plona quel giorno di Fiesta leggera, quando Romero, invece di infilare il corto coltello nel collo del toro, prese l’animale per le corna e le strappò in tanti pezzetti-ni”.

Sculturaleggera

nei boschi24

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in

giro

ANISH KAPOORDescension

ITALY - Via del Castello 11, 53037 - San Gimignano (SI) Tel. +39 0577 943134 [email protected] - Dashanzi Art District 798 #8503, 2 Jiuxianqiao Road, Chaoyang Dst. 100015 Beijing Tel. +86 1059789505 [email protected]

FRANCE - 46 rue de la Ferté Gaucher 77169 Boissy-le-Châtel (Seine-et-Marne) Tel. +33(0)1.64.203950 [email protected]

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horror

vacuiDisegni di Pam

Testi di Aldo Frangioni

Fuggendo dalla pazza folla, ritrovai la mia tranquillità in una selva oscura, ma tanto affascinante, che non sono più tornato indietro.

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L

i bambini sono sempre belli e (quasi) sempre allegri, anche quando le loro condizioni di vita sono piuttosto precarie e l’ambiente in cui crescono non è certo dei migliori. Questa è la loro forza, ed è ciò che permette loro di andare avanti anche quando tutto sembra muo-versi per il verso sbagliato. Siamo in una delle traverse della grande Avenue e come si può ben vedere l’ambiente è decisamente molto

degradato. Questo non ha impedito loro di rispondere alle mie sollecitazioni con grandi sorrisi ed una simpatia davvero fuori dell’ordinario. Mi hanno chiesto di tutto, come mi chiamavo, da dove venivo e come mai avevo deciso di fermarmi a parlare con loro per quasi mezz’ora. Non erano abituati a vedere così tanto interesse e tanta simpatia da parte di un bianco come me e con la barba, all’epoca, ancora profonda-mente rossa! Per la precisione qui siamo nella parte spagnola di Harlem e ricordo davvero con grande piacere questo momento.

new York City, 1969

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

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