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N° 1 219 52 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Ci proveremo “Voglio essere dimenticato” Sandro Bondi

Cultura Commestibile 152

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N° 121952

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Ci proveremo

“Voglio essere dimenticato”

Sandro Bondi

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Da nonsaltare

Ha avuto un certo successo di pubblico e di critica il libro di Antonio Scurati, “Il

tempo migliore della nostra vita” (Bompiani, 2015), aggiudican-dosi anche il premio Viareggio e risultando finalista nel Campiello.Vite parallele di Leone Gin-sburg, giovane intellettuale di straordinario rigore morale, etico e scientifico, oppositore del fascismo, spedito al confino a Piz-zoli, piccolo paese degli Abruzzi, morto a seguito delle percosse e delle violenze subite nel carcere di Regina Coeli il 4 febbraio 1944; e delle famiglie Ferrieri (dal 1900 a Napoli), Scurati (dal 1900 a Milano), i cui estremi rappre-sentanti Rosaria e Luigi sono i genitori dell’autore, attraverso gli anni terribili della guerra. Il successo è meritato, per molti motivi. In primo luogo perché, senza aggiungere niente a quanto già noto attraverso la pubblica-zione delle lettere e degli scritti di Leone, le memorie e gli scritti della moglie Natalia Ginzburg, gli studi sull’ambiente culturale in cui si muoveva, restituiscono al grande pubblico, l’immagine e la consapevolezza della statura di intellettuale e di uomo che fu Leone Ginzburg. Il tempo che ci separa dalla guerra e dal fascismo, sfuma nella memoria dei più il rilievo di figure come Ginzburg nella storia della cultura italiana. Scurati apre il romanzo con l’im-magine di Ginzburg che giova-nissimo (nel gennaio 1934, all’età di 25 anni) docente di letteratura russa rifiuta di prestare giuramen-to di fedeltà al fascismo (obbligo già per i professori universitari dal 1931, ora esteso ai liberi docenti).Un libro che dovrebbe finire fra le mani di molti adolescenti e giovani di oggi che avvertono un istintivo sentimento democrati-co, egualitario e genericamente antifascista. Per dirsi anche oggi antifascisti (e Dio solo sa se non ve ne sia bisogno in una Europa in cui crescono le forze politiche xenofobe e fascistoidi, dalla Fran-cia all’Ungheria, dalla Romania fino all’Italia), occorre capire che cosa volesse dire essere fra i soli 12 docenti universitari su 1250 che rifiutano di prestare giuramento di fedeltà al regime nell’ottobre 1931 e ancor più nel 1934 come fa Leone Ginzburg. Per questi in-

tellettuali lo studio, l’insegnamen-to universitario, le pubblicazioni scientifiche sono tutto, il senso della propria vita e ciascuno di loro è perfettamente consapevole che rifiutare di giurare vuol dire condannarsi a rinunciare a tutto ciò, alla vita, appunto. Per farsene un’idea, basta leggere il breve racconto/memoria, “Inverno in Abruzzo” (confluito nella raccolta “Le piccole virtù”, Einaudi) che Natalia Ginzburg scrive nel 1944 sui tre anni di confino trascorsi in Abruzzo: “Era un esilio il nostro: la nostra città era lontana e lontani erano i libri, gli amici, le vicende varie e mutevoli di una vera esistenza”. Un isolamento assoluto, in una terra dura dove l’inverno dura 6 mesi, senza colle-gamenti con il mondo esterno, se non la corrispondenza.Fondatore della casa editrice Einaudi e di “Giustizia e Libertà”, Ginzburg viene ben inquadrato da Scurati come intellettuale rigoroso eppure indissolubilmente associato all’impegno politico. Le pagine sul confino in Abruzzo, la lettura delle “Lettere dal confino. 1940-1943” (Einaudi, 2004) e degli “Scritti” (Einaudi, 1964), ci restituiscono l’immagine di un intellettuale impegnato nel lavoro editoriale eppure straordinaria-mente consapevole della situazio-ne politica italiana. Un intellet-tuale italiano e cosmopolita; della stessa razza del suo compagno

di militanza politica e di lavoro editoriale all’Einaudi, Giaime Pintor, morto il 1° dicembre 1943 a seguito dello scoppio di una mina mentre tenta di passare le linee nemiche a Castelnuovo al Volturno per raggiungere i primi gruppi partigiani.Che tipo di antifascista era Gin-zburg? Come racconta Norberto Bobbio (che gli fu compagno di liceo e di impegno politico e intellettuale) nell’introduzione al volume degli “Scritti”, intransi-gente, una “resistenza al fascismo come fatto morale prima che politico, come valore culturale oltre che politico”, che affondava le sue radici nella tradizione della lotta per le libertà civili del Risor-gimento (su cui inizia a preparare un saggio nella primavera del 1943, le cui poche pagine rimaste sono pubblicate postume nel 1945 su “Aretusa”). Certamente di tipo gobettiano, che gli arriva-va attraverso Augusto Monti (di cui fu allievo liceale), che aveva costituito una sorta di libera ac-cademia informale, un gruppo di discussione politico-culturale che si incontrava al caffè Rattazzi di Torino, cui partecipavano Pavese, Mila, Bobbio, Argan, Antonicelli. Da qui nacque la collaborazione all’ultima delle riviste gobettiane, “Il Baretti” e poi, nel 1934, a “La Cultura”. Un antifascismo che risponde ad un imperativo morale, e chiede coerenza dei

comportamenti perché deriva dalla necessità di aderire ad una legge morale interiore, di stampo appunto kantiano. Che Ginzburg conferma, orgogliosamente e consapevole delle conseguenze, davanti al Tribunale speciale per la difesa dello Stato nel novembre 1934, che lo condanna a 4 anni di carcere. E non v’è dubbio che, oltre alle inclinazioni personali, abbia in ciò influito il rapporto con Benedetto Croce, molto forte e attestato dal carteggio, e quella “religione della libertà” con cui il filosofo napoletano traduceva la sua concezione etica del liberali-smo. In Ginzburg l’opposizione morale al fascismo, la militanza politica e quella culturale coesi-stono, sono tutt’uno. In ciò non dissimile da Giame Pintor che, seppur di 10 anni più giovane, condivise l’impegno editoriale e culturale nella casa editrice Einau-di e quello politico nei gruppi di “Giustizia e Libertà”. L’ultima lettera di Giaime al fratello Luigi del novembre 1943, sintetizza chiaramente quale fosse la con-dizione di questi giovani e la loro necessità dell’impegno antifa-scista: “A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune... Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. … non ho mai apprezzato come ora i pregi della vita civile e ho coscienza di essere un ottimo traduttore e un buon diplomati-co, ma secondo ogni probabilità un mediocre partigiano. Tutta-via è l’unica possibilità aperta e l’accolgo”.Sì, perché tanto Ginzburg quanto Pintor sono prima di tutto degli intellettuali di grande rigore e preparazione. Sono degli straor-dinari animatori culturali: la casa editrice, le riviste, l’attenzione alla cultura europea (tedesca per Pintor, russa e francese per Gin-zburg), le interminabili discus-sioni fra i coetanei (che Bobbio definisce “la nostra Accademia, la nostra Stoa, il luogo in cui si è ri-cevuta l’educazione formatrice”), la scelta delle collane editoriali e delle pubblicazioni. Un lavoro puntiglioso e particolarmente fe-condo, incompiuto per entrambi e che avrebbe segnato la cultura italiana del dopoguerra se la loro vita non si fosse bruciata nei

di Simone [email protected]

Una vitada Leone

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drammatici giorni della fine della dittatura fascista.Intellettuale italiano, consapevole del significato profondo e, di nuovo, culturale e interiore del termine. E che oggi vale la pena riportare all’attenzione pubblica, proprio mentre il riferimento alla patria o all’identità nazionale riemerge (dopo i decenni del dopoguerra in cui, a mio avviso giustamente, era stato oscurato quasi per depurarlo dai signifi-cati totalitari e razzisti che avesa assunto durante il Ventennio), nel migliore dei casi come un richia-mo esteriore a simboli talvolta anche frivoli (l’inno, la bandiera, i campioni sportivi, astronauti...) o, invece, nel peggiore assume i toni dell’esclusivismo etnico verso gli “stranieri”. Così possiamo comprendere quanto tragica debba essere stata per Ginzburg la motivazione con la quale gli viene revocata la cittadinanza italiana il 5 gennaio 1939 a seguito delle leggi razziali: “Straniero di razza ebraica”. Infatti ancora nel 1943 Ginzburg scrive a Croce del “senso di malinconia e di rabbia che mi dà il continuare a essere considerato straniero nel mio pae-se”. Uno sradicamento, culminato nel confino, da una comunità nazionale che Ginzburg avverte profondamente radicata nella migliore storia italiana. Bastereb-be ricordare il processo verbale dell’interrogatorio al quale Gin-zburg viene sottoposto il 5 giugno 1934 in cui egli dichiara: “Io pur essendo orgoglioso di essere ebreo sono orientato verso o per meglio dire traggo le mie idee dal senti-mento nazionale italiano”. Ma si tratta di un sentimento profondo, tanto lontano da quell’antina-zionale nazionalismo contro il quale occorreva combattere, come scriveva a Croce nell’agosto 1943, per “incivilire la gente”. Di nuovo, qualcosa che corrisponde ad una legge morale interiore e che Giorgio Boatti, riferendosi ai 12 professori universitari che nel 1931 rifiutarono di giurare fedeltà al regime fascista, ha apposto ad esergo del suo libro “Preferirei di no” (Einaudi, 2001): “Patria di silenzio condiviso e di comu-ne linguaggio: oppone assoluta estraneità non solo alla dittatura dei totalitarismi e al fondamen-talismo intollerante delle chiese, ma anche ai richiami dei dema-goghi, al vociare della marmaglia

in camicia nera, all’osanna delle plebi”. Un’idea di patria che pos-siamo sentire di assoluta attualità. Del resto, proprio il saggio “La tradizione del Risorgimento” di Ginzburg attesta la profondità e la consapevolezza della radice della sua italianità e, al contempo, la sua necessità storica: “L’Italia in cui viviamo e operiamo non è pensabile senza il Risorgimen-to”; che però non è il semplice richiamo ad un periodo storico: “è, invece, una tradizione tuttora viva e gelosamente custodita, a cui ci si richiama di continuo per ricavarne norme di giudizio e incentivi all’azione”. Non è am-messa indifferenza per Ginzburg di fronte al Risorgimento, perché prima ancora che un movimento di riscatto dal giogo straniero, esso era un”processo di rigenera-zione interiore”. E Ginzburg di-chiara qui la propria intransigenza verso quanti reclamano il rispetto di idee altrui per mascherare la propria adesione agli oppressori invece che alle vittime e “per chi parte da presupposti morali artificiosi e usa un linguaggio in cui il significato delle parole più auguste - “patria”, “libertà”, “reli-gione” - è miserevolmente svisato e pervertito”.

Qui registriamo quanto fos-se intimamente legato il suo antifascismo militante agli studi umanistici, letterari e storici. Era anche questo un retaggio gobet-tiano (tanto che come Gobetti, si dedicò – anche se con minore sistematicità date le condizio-ni impervie in cui si trovava a lavorare dall’esilio abruzzese e nel tempo della guerra – allo studio del Risorgimento). Ma in modo più originale, lo studio dei clas-sici, della storia, della letteratura (dall’Ariosto al Foscolo, da Dante a Leopardi, fino ai romantici fran-cesi e ovviamente ai classici russi da Tolstoj a Cechov, da Dostoe-vskij a Puskin e Gogol) è per lui l’affermazione della necessità di comprendere che non può esservi un presente spazzando via questi morti e la loro eredità; come giustamente scrive Scurati “Leone Ginzburg vuole far sapere al let-tore del 1939 che tutto il passato non ci ha dimenticati”. Questo significato civile dello studio dei classici, Ginzburg lo trasfonde nel progetto editoriale dell’Einaudi (come ci testimoniano le lettere dal confino, con una puntigliosità e una chiarezza d’intenti cultu-rali che ancora oggi ci appaiono di una lucidità e attualità che, purtroppo, mancano in qualsiasi impresa editoriale contempora-nea). Ma niente di questo lavoro è distaccato dalla vita presente. Basti ricordare la sua (sofferta) prefazione a “Guerra e Pace”, di cui Einaudi pubblica la traduzio-ne (a cura di Enrichetta Carafa D’Andria) nel 1942 e che lui controlla e corregge dal confino di Pizzoli: qui tutto ruota attorno alla differenza nel capolavoro di Tolstoj fra i personaggi umani, che “amano, soffrono, sbagliano, si ricredono, cioè, in una parola, vivono”, e i personaggi storici che “sono condannati a recitare una parte che non è scritta da loro, anche se tutti s’immaginano d’improvvisarla”. E’ la stessa dif-ferenza che Ginzburg registra nel fuoco della guerra, della crisi del fascismo e dell’impegno militante antifascista, al quale nessuno che sia consapevole del baratro morale nel quale il regime ha fatto cadere l’Italia, può sottrarsi.Ecco, credo che la forza del libro di Scurati sia tutta qui, e non è poco. Confesso che mi ha con-vinto meno l’intreccio narrativo della vita tragicamente eroica di

Ginsburg, con quella drammati-camente ordinaria degli Scurati e dei Ferrieri, se non altro perché la vita di Ginzburg fu ordina-riamente eroica, vissuta come normale adempimento ai doveri morali che la legge interiore gli imponeva. Antonio Scurati spiega, forse senza che ve ne sia una particolare necessità, il perché della scelta narrativa: “Dove sono io in quella corrente?... Cosa avrei fatto io al loro posto? Ecco il dilemma”. Forse non necessarie le ultime 10 pagine del libro, ma alla fine neppure queste inutili. Perché il punto non è, a mio avviso, affermare che la nostra posizione nella corrente è riconoscibile in quanto l’esercizio della memoria e del racconto ci rende coevi ad una stagione eroica di cui abbiano nostalgia per non avere avuto la ventura di far parte di alcuna epica: “...la memoria conservata in un racconto è l’unica forma di sopravvivenza. Si narrino, dunque, una accanto all’altra, in una sorta di profano vangelo sinottico, la vicenda tragica dell’eroe intellettuale, della sua stirpe e della sua discendenza, e quella della mia gente, gente comune, le si narrino addirittura fino al punto in cui questa linea genera me, lo scrivente. Il più insignificante”. L’utilità, invece, di libri come questo sta nella comprensione storica e intellet-tuale di vite come quella di Leone Ginzburg e di quanto necessaria sarebbe oggi la loro “ordinaria intransigenza”. Tornando alla prefazione di “Guerra e pace”, vite come quelle di Ginzburg aiu-terebbero ad evitare il rischio di quella “felicità [che] può perfino far distogliere lo sguardo di un giusto da un uomo ucciso ingiu-stamente”. Ma, purtroppo, oggi le avvertiamo come vite inattuali, lontane dalla corrente impetuosa dell’eterno presente. Tuttavia, ho fiducia, lo so, che verranno mo-menti migliori, più avanti. Come scrive Norberto Bobbio nella sua introduzione degli “Scritti”: “I gesti stupendi, come quello di Giaime, le nobili vite, come quel-la di Leone, sono stati inghiottiti dal mare della storia, sempre in burrasca; un relitto si erge per un attimo sulla cresta dell’onda, e poi è sommerso; ricomparirà per un altro attimo più avanti, ma tra un’onda e l’altra c’è solo furia, squallore, paura e impotenza”.

La storiadi Ginzburgnell’ultimoromanzodi Scurati

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Si dirà che l’immagine non è sostanza, che l’abito non fa il monaco. Si dirà tutto questo ma ciò non toglie che dopo il magione della nonna di cui abbiamo parla-to a Befana, questa trasferta sulle nevi del Presidente del Consiglio lo avvicina molto più (per il look sia chiaro) alla sua ministra feticcio che alla classe della sua consorte. Inutile girarci intorno Renzi in calzoncini ascellari sotto la neve con sopra un parka è inguarda-bile. Più del Renzi salsicciotto all’Avana. Fare attività fisica è cosa buona e giusta e al premier, aggiungo, fa anche molto bene vista la stazza post feste. Ma se questa è invece tentativo di co-struzione dell’immagine di quello che, nonostante impegni e clima

avverso, riesce a prendersi cura di sé, equivale a una pacchiana paraculata. E comunque nel caso (e col fisico adatto) si addobbi con un completino adatto alla bisogna e non con la divisa da boy scout sperduto nel bosco.

Tre palle, un soldo... si saran-no detti al Comune di Firenze quando hanno pensato di addob-bare per le feste natalizie Borgo S.Frediano. Magari, se mettiamo tre belle palle grosse, tiriamo su qualcosa di più che un soldo e rimettiamo in sesto le traballanti casse comunali. Così, dopo aver audito gli Angeli del Bello e il loro cantore (in arte il bardo Nardel-lo) e consultato fior di architetti e arredatori, hanno piazzato tre belle palle bianche di polistirolo a penzoloni fra i due lati della storica via dell’Oltrarno. Era così suggestivo che hanno ripetuto, a distanza di qualche metro, più volte la soluzione di raffinato design italico lungo la strada. Le tre palle, così, hanno penzolato per tutte le feste senza un orpello o un richiamo luminoso alla loro nuda bellezza. Qualcuno vi ha voluto vedere un ritorno alle linee e alla scelta dei materiali essenziali che fu del razionalismo architettonico che tanti segni importanti ha lasciato nella città. Altri vi sentono risuonare il richiamo alla gran-

dezza medicea, che pure di palle ne avevano sei, a cui indiretta-mente il sindaco Nardella ha fatto riferimento proclamando che nel 2016 a Firenze si investiranno tre miliardi di euro. Altri ancora, più verosimilmente, vi vedrebbero un tributo al compianto menestrello fiorentino Riccardo Marasco che, in un intermezzo recitativo de l’Ammucchiata, così verseggiava: “perché lo Squarcialupi ormai in là cogli anni, vero, non ce la faceva più con quest’organo in mano e a un certo punto tirò il calzino. Allora i Medici pensarono: qui va sostituito con uno che ce l’abbia duro, il nome, e lo fecero venire dai Paesi Bassi, che si chiamava Isaac. Il Maestro Isacco arrivato a Firenze, per ingraziosirsi i nuovi padroni compose subito un inno polifonico che cominciava “palle, palle” così, a iosa, senza dir quan-te. I Medici, entusiasti, lo fecero subito Maestro di Cappella.”. Noi troviamo più convincente questa ipotesi che potrebbe addirittura nobilitare un arredo che oseremmo definire orrido.

riunione

difamiglia

i Cugini engelS

le Sorelle marx

le avventure di nardelik

Calzoncino sulla neve

La storia siamo noi

Tre palle e un soldo

la StiliSta di lenin

“Ho visto quello striscione [contro il PD ndr] come tanti in questi giorni […]: Arezzo è una delle rare città che ha avuto meno governi di centrosinistra, insomma per definir-la terra rossa ci vuole fantasia. Qui negli ultimi anni il centrosinistra ha vinto soltanto con Giuseppe Fanfani”. Pausa. “Junior, non senior, naturalmente”. Così disse il premier Matteo Renzi nell’ultima conferenza stampa del 2015 cer-

cando di dribblare le polemiche su Banca Etruria e la sua ministra di punta. Peccato però che Arezzo dal 1946 al 1990 abbia avuto sindaci tutti, ma proprio tutti, espressione del PSI che evidentemente Renzi, in straordinaria continuità con i suoi “nemici” della sinistra PD, fatica a definire di sinistra (gli era

Il grande parco delle Cascine era li da tempo. Ci andavano i bambini a vedere lo zoo quando c’era, le coppiette a “pomiciare”, i ragazzi dell’al-tro mondo a giocare a calcio. E poi c’erano le corse dei cavalli. Troppo normale pensò il Lider Minimum. Lui voleva il “nuovo”. E allora via alle parole per fare le nuove Cascine (renziane): una parola per la nuova (renziana) porta d’ingresso, una parola per il nuovo (renziano) golf a 18 buche vicino al fiume (chi perde la palla nuota), una parola per la nuova (renziana) ruota panoramica che ti fa vedere gli alberi da vicino,una parola per la nuova (renziana) vigilanza continua utile per controllare la crescita delle erbette. Ma le Cascine non cambiavano. Non succedeva niente. Niente di niente. Anzi qualcuno cominciò a sostenere che non si doveva più credere alle parole (renziane). La situa-zione rischiava di sfuggire di mano. Ma Nardellik vigilava. Il nostro coraggioso capitano di periferia era già pronto per salvare il mondo (renziano) degli annunci e delle gare assegnate così così. Che importa se alle Mulina mulinano solo i giramenti di quelli che abitano li vicino. Che importa se all’Indiano qualcuno fa l’indiano e prova a lucrare con un’associazione senza fini (di lucro). Che importa se gli alberi cadono cadono come nelle fiabe cattive. Nardellik è già sul posto. Tutti fuori. Tutti a casa. I cattivi non sono più fra noi. Regna la felicità alle Casci-ne e la fiducia nel nuovo mondo (renziano). Grazie Nardellik, che il Macinante sia con te.

voleva riferirsi ai soli sindaci eletti direttamente dai cittadini. E anche qui il ragionamento del Premier non torna nemmeno un po’. Dal 1995 a oggi 3 sindaci su 5 sono stati espressione del centrosinistra (nelle sue molteplici forme). Insom-ma Arezzo non ha visto insediarsi un soviet Stalinista ma diciamo che in Storia, Renzi, si merita di torna-re al prossimo appello con maggior preparazione, speriamo invece sia più preparato in scienze bancarie.

già capitato dicendo che la sinistra aveva votato contro lo Statuto dei lavoratori). Certo avrebbe potuto farglielo notare il segretario del PS e viceministro Nencini che proba-bilmente era rimasto a magnificare la variante di Valico nella natia Barberino e non si è accorto dello svarione. Magari si dirà che Renzi

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alcuni dei quali praticano la foto-grafia solo marginalmente, come lo stesso Tato, mentre alcuni foto-collages vengono realizzati da altri pittori futuristi come Ivo Pannag-gi, Vinicio Paladini e Fortunato Depero. Alcuni fotografi, come Italo Bertoglio, Mario Castagneri o Giulio Parisio si dichiarano “futuristi”, nonostante la sostan-ziale linearità delle loro opere, ed altri vengono arruolati nelle file futuriste quasi loro malgrado, come la professionista triestina Wanda Wulz, erede di una dina-stia di fotografi ritrattisti, mentre Maggiorino Gramaglia giunge ad applicare il logo “futurista” in un angolo dei ritratti che esegue in maniera del tutto tradizionale, contraddicendo il primo punto del manifesto, dove si proclama che “la fotografia di un paesaggio, di una persona o di un gruppo di persone, ottenuta con minuzia di particolari, è cosa per noi asso-lutamente superata”. La seconda stagione della fotografia futurista abbonda di ritratti ed autoritratti di artisti futuristi, magari ritagliati o incorniciati in maniera “futu-rista” all’interno del rettangolo di carta, così come della raffigu-razione di azioni o performances futuriste, ed abbonda di compo-sizioni, spesso con marionette, come di assemblaggi di oggetti realizzati a tavolino, mentre manca invece l’individuazione di temi specifici. La sola eccezione al proposito riguarda le riprese aeree, uno dei temi adorati dai futuristi, e realizzate da Filippo Masoero. Per differenziare le sue immagini dalle semplici riprese aerotopogra-fiche, e per conferire alle imma-gini un dinamismo artificioso, Masoero ricorre agli effetti del “mosso”, ottenuto probabilmente in fase di stampa piuttosto che durante problematiche “cadute libere” o avvitamenti dell’aereo. Nonostante gli sforzi, culminati nel 1931 nella “Mostra Sperimen-tale della Fotografia Futurista” di Torino, l’influenza della fotografia futurista sulla cultura fotografica degli anni Trenta rimane debole, e viene sospinta ai margini dalla fotografia prepotentemente cele-brativa del fascismo, fatta di pro-paganda, realizzazioni “epocali” e masse “oceaniche”, e culminata nella Mostra della Rivoluzione Fascista, che monopolizza l’inte-resse per due anni esatti, dal 1932 al 1934.

La Grande Guerra, che per i futuristi rappresenta “la sola igiene del mondo”,

non ostacola troppo l’attività dei futuristi, e passa al di sopra dei manifesti che i futuristi pubbli-cano a ripetizione. La morte di Boccioni nel 1918 determina un primo cambiamento nel movi-mento futurista, che comincia ad essere influenzato sempre di più dal cubismo e dal surrealismo. La nuova situazione politica italiana, con l’arrivo al potere del fascismo, impone delle scelte, e nel 1923 lo stesso Marinetti, propugnatore di concetti come l’amore del pericolo, l’abitudine all’energia, il culto per il coraggio e l’audacia, l’ammirazione per la velocità, la lotta contro il passato, l’esaltazione dell’aggressività e della guerra, chiede a Mussolini di considerare il futurismo come “arte di regime”. La filosofia futu-rista, impregnata di un esasperato vitalismo e di un individualismo populista ed antidemocratico, si sposa con l’ideologia fascista, ma non riesce nel corso degli anni Venti ad elaborare nuove forme, sviluppando invece atteggiamenti di tipo nazionalistico, mentre l’arte di “regime” si dimostra ostile ai movimenti dell’avanguar-dia. Rendendosi conto di avere chiuso troppo frettolosamente ed ingloriosamente la parentesi del foto dinamismo, il futurismo addomesticato dal fascismo si accorge di non poter fare a meno della fotografia. Nel corso degli anni Venti la fotografia italiana ha cominciato ad emancipar-si dai modelli prebellici, sotto l’influenza degli esempi tedeschi e sovietici, e Marinetti corre ai ripari cercando di inserirsi in questo processo, organizzando con Guglielmo Sansoni (Tato) nel 1930 il primo concorso fotogra-fico nazionale, e firmando con lui il manifesto della Fotografia Futurista. Nel manifesto si detta-no le nuove regole estetiche, che vengono riassunte in sedici punti. Il realtà il futurismo si adegua ad una situazione di fatto, aprendo a tutti quei trucchi fotografici, dalle esposizioni doppie o multiple ai fotomontaggi, che vorrebbero rendere le immagini fotografiche drammatiche, ambigue, simboli-che, straripanti ed immaginifiche. Come nella fotografia dell’avan-

di danilo [email protected]

La stagione della fotografia futuristaguardia tedesca e sovietica, ed allo scopo di confondere le reali proporzioni degli oggetti fotogra-fati, si consigliano riprese molto dal basso o molto dall’alto, molto da vicino e molto in diagonale.

La fotografia futurista degli anni Trenta, nonostante la tardiva con-versione, non riesce comunque ad esprimere nessun nome di rilievo, ed in essa confluiscono personaggi di tendenze e di statura diversa,

Parte 2

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Alison

di laura [email protected]

Nell’universo multicen-trico delle neoavanguar-die, Alison Knowles ha

colto l’essenza poliedrica che la filosofia fluxus porta con sé dagli anni Sessanta a oggi. Incorporando vari stili artistici e modalità espressive ha creato un percorso poetico ispirato alla percezione soggettiva della realtà quotidiana. L’indeter-minatezza degli “event scores” mettono in secondo piano l’autorevolezza dell’artista per permettere al fruitore di contemplare l’opera d’arte oltre i sensi comuni e le prese di posizione: il quotidiano diviene un veicolo performativo denso di possibilità e riflessioni; la musica, assimilata nell’evento, accorda l’azione e ristabilisce l’armonia persa nella casualità e nell’andamento aleatorio dei movimenti; infine, l’uso degli oggetti pone l’accento sulla concretezza che l’Arte deve avere nella vita di ogni singolo uomo, fondendosi con essa e con ogni sua particolarità. Negli eventi artistici di Alison Knowles il pubblico è chiama-to ha partecipare attivamente all’azione, divenendo un ingre-diente essenziale alla realizza-zione finale del lavoro estetico, frutto di un’intensa riflessione e preparazione poetica. Non a caso nella prassi dell’artista vi è l’intento di focalizzare l’attenzione del pubblico sulle esperienze tattili e uditive con lo scopo di creare una mag-giore interazione con l’opera d’arte, che non può e non deve rimanere fine a se stessa. Allo stesso modo i libri d’artista, i readymade, gli assemblaggi e le sculture evidenziano non solo la scelta di materiali poveri, presi in prestito dalla realtà di tutti i giorni, ma anche un vero e proprio avvicinamento delle coscienze alla forza creatrice dell’immaginazione e dell’ispi-razione artistica. Se è vero che nell’Arte si cela un mistero in-sondabile che solo l’artista con la propria intenzionalità può far emergere, Alison Knowles riesce a far emergere dalla ba-nalità del quotidiano la meravi-glia del mondo e del creato per restituirlo agli occhi dell’uomo in tutta la sua meraviglia.

In alto Senza titolo, 1983 Tecnica mista su carta cm 66x67A destra Leonardo 1452-1519, 1999 Assemblaggio su tela cm 132x30A sinistra The mysterious Master, 1999 Assemblaggio su tela cm 129x46Tutte le immagini Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

KnowlesPercezionequotidiana

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Correva l’anno 1540 quando a Padova Leone Orsini, vescovo di Frejus (non chiedetemi che cosa vuol dire) fondò l’”Accademia degli infiammati”, che si propone-va di diffondere la lingua volgare nella prosa e nella poesia.Non l’avesse mai fatto. Quando la notizia arrivò a Firenze, culla del volgare, immediatamente un gruppo di letterati e intellettuali fiorentini si costituì in un’Acca-demia alternativa, che aveva gli stessi obiettivi ma che, in segno di dispregio per i patavini, si dette il nome di “Accademia degli umidi”. Per statuto i membri dell’Accademia dovevano farsi riconoscere con un sopranno-me che richiamasse appunto “l’umidità”: così troviamo “Il ranocchio”, “Il lacrimoso”, “Il lombrico” e “L’annacquato”. Fra i fondatori dell’Accademia c’era Anton Francesco Grazzini, che scelse per sé il soprannome “Il Lasca”.Ora questo “Lasca” doveva essere

un tipo singolare assai. Tanto per cominciare la sua professione non era quella di letterato, bensì di speziale e tale professione la esercitava con successo in una farmacia al Canto alla Paglia; a distanza di quasi cinquecento anni quella farmacia è ancora lì, all’angolo fra Borgo San Lorenzo e Piazza San Giovanni, con una lapide, all’interno, che ricorda il suo più illustre proprietario: ma questa lapide, se la leggete con attenzione, anticipa, senza però spiegarle nei dettagli, altre vicende della vita del Lasca.All’epoca era signore di Firenze Cosimo I dei Medici, uomo di cultura, grande mecenate, ma poco incline alle facezie. Quell’Accademia acquatica,

perciò, poco gli piacque, e, per decreto, la sciolse facendola confluire nell’Accademia Fio-rentina, che aveva più serioso carattere: quasi tutti gli Umidi vi aderirono, eccetto il Lasca, che ne fu escluso per esserci ammesso solo moltissimi anni dopo, quasi in punto di morte. Nel frattempo però Grazzini, insieme ad altri let-terati, aveva dato vita, nel 1582, all’Accademia della Crusca che, se Umidi e Fiorentini sono ormai sepolti nell’oblio, è invece ancor oggi viva e vegeta e continua, da secoli, a essere il modello di riferi-mento per la lingua italiana.

Fra gli intellettuali che fondarono la Crusca, oltre al Lasca, dobbiamo ricordare Giovan Battista Deti, il Sollo, Bernardo Canigiani, il Gramolato, Bernardo Zan-chini, il Macerato, Bastiano de’ Rossi, l’Inferigno, ai quali si aggiunse nell’ottobre 1582 Lionardo Salviati, l’Infarinato. Si direbbe che questi austeri personaggi, al di là dei loro nom de plume,

passassero il tempo a disquisire in approfonditi dibattiti sulla lin-guistica, sull’etimologia e su altri argomenti che dovevano portare, nel 1612, alla pubblicazione a Venezia della prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca e ciò è sicuramente vero: le loro animate discussioni le chiamavano “cruscate”, da cui il nome dell’Accademia, e avevano lo scopo di “ripulire” la lingua italiana. Una volta l’anno gli Accademici si concedevano però uno “stravizzo”, del quale si parlerà altrove.

parte venne rinchiusa in istituti per orfani, dove subì violenze fisiche e psicologiche. Questa pratica disumana ricevette del-le critiche, ma continuò per un secolo. Soltanto in anni recenti il governo australiano (2009) e quello britannico (2010) hanno espresso le proprie scuse formali. Negli ultimi anni sono state organizzate varie iniziative per ricordare questa tragedia umana dimenticata. La mostra On

Their Own: Britain’s Child Mi-grants, che si è tenuta negli anni scorsi a Liverpool e in alcune città australiane, è attualmente allestita al Museum of Childho-od di Londra, dove sarà visibile fino al 12 giugno 2016.Allo stesso tema è dedicato il CD The Ballads of Child Migration: Songs for Britain’s Child Migrants (Delphonic Music, 2015), una bella raccolta di canzoni originali scritte da alcuni dei principali esponenti

Dagli anni Sessanta dell’Ot-tocento agli anni Settanta del secolo successivo il

governo britannico costrinse ol-tre 100.000 bambini a emigrare in Australia, Canada e in altri paesi del Commonwealth. Una minima parte era costituita da orfani, mentre molti venivano da famiglie povere che non potevano mantenerli. Sperando che questa emigrazione forza-ta avrebbe garantito ai bambini un futuro migliore, alcuneorganizzazioni religiose so-stennero l’azione governativa convincendo le famiglie ad accettare il distacco e fornendo il necessario aiuto logistico. In realtà l’obiettivo di Londra era quello di popolare le ex colonie e fornirle di manodo-podera a basso costo: i bambini venivano infatti costretti a fare lavori di vario genere. Strappate alle famiglie e catapultate in luoghi estranei, queste vittime innocenti ebbero reazioni molto diverse: alcuni riuscirono a trovare un lavoro e a costruir-si una famiglia, ma altri non ressero e scelsero il suicidio. Pochi furono inseriti in contesti familiari accoglienti; la maggior

del folk britannico e irlandese. Molti hanno fatto parte di gruppi prestigiosi: John Doyle (Solas), Kris Drever (Lau), Julie Matthews (Albion Band) e John McCusker (Battlefield Band). Jez Lowe ha collaborato a numerosi progetti musicali, fra i quali la serie radiofonica Radio Ballads e il progetto organizzato per il bicentenario della nascita di Charles Darwin.Le canzoni contengono riferi-menti espliciti ai luoghi dove i bambini vennero rinchiusi. L’iniziale Small Cases Full of Big Dreams, eseguita da Chris Whi-le e Julie Matthews, è stata ispi-rata dalla visita che la cantante fece al villaggio di Fairbridge, situato in Australia.Nello strumentale Leaving All We Know, scritto da John McCusker,si intrecciano felicemente chitarra, flauto, organetto, percussioni e violino. Jez Lowe firma numerosi brani, fra i quali Barnardo’s Party Time e Snow to Nova Scotia.Ognuno dei 14 brani è un omaggio sincero alle vittime di questa tragedia dimenticata che si è consumata in un paese europeo “democratico” durante il ventesimo secolo.

Bambini rubati

di aleSSandro [email protected]

di Fabrizio [email protected] Via del Lasca

Come nacque l’Accademia della Crusca

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collezione fu trasportata dal palazzo del Cardinale in rue de Richelieu insieme alle boiseries, gli scaffali e le colonne scanalate sormontate da capitelli corinzi in un padiglione del collegio des Quatre-Nations (che diven-terà molto più tardi l’Istituto

Francese), costruito nel 1662 dal famoso architetto Louis le Vau. In seguito la Biblioteca continuerà ad arricchirsi con le migliaia di libri, manoscritti e opere d’arte confiscati a nobili e istituzioni religiose durante la Rivoluzione, con acquisti,

lasciti e donazioni spesso molto importanti. Oggi con il suo fondo di 6.000 volumi, 4640 manoscritti e 2370 incunabo-li è una delle biblioteche più specializzate in ambito storico e letterario al mondo. E’ anche diventata deposito legale dei libri che trattano la storia della Francia e quindi, accumulando ogni anno migliaia di pubbli-cazioni sulla vita intellettuale di associazioni, accademie, istituti scientifici, è diventata Biblioteca del Patrimonio Francese. All’in-gresso un iscrizione Bibliotheca a fundatore Mazarinea e un busto del cardinale scolpito da Leram-bert accoglie i visitatori in questo meraviglioso tempio del libro nel cuore di Saint-Germain des Prés. La sua sala di lettura, lunga 65 metri con gli antichi busti e oggetti d’arte, i mobili decorati, i lampadari e le sontuose rilega-ture dei libri originali in maroc-chino rosso, appare come era una grande biblioteca del XVII secolo. Da per tutto campeggia lo stemma del cardinale Mazza-rino

Questa è la storia della Bibliothèque Mazarine, in quai de Conti 23, la

più antica biblioteca pubblica di Parigi. Costituita intorno alla metà del XVII secolo, rappresen-tava all’epoca con i suoi 40.000 volumi la più importante colle-zione privata di libri del mondo occidentale ed oggi, con il suo patrimonio scritto, è da consi-derarsi un monumento storico dedicato al libro. Prende il nome dal suo creatore, il potente car-dinale Mazzarino (1602-1661), primo ministro di Luigi XIV, che, con l’aiuto del suo consiglie-re e bibliotecario Gabriel Naudè, mandato alla ricerca di libri e manoscritti in tutta Europa, era riuscito a creare questa ricca biblioteca privata che però, caso unico al suo tempo, era aperta alla consultazione anche a stu-diosi e letterati. Nel corso degli anni la fortuna politica abban-donò il Cardinale. Il malconten-to sulla sua ferrea politica fiscale e sul troppo potere assolutistico suscitò l’avversione della nobiltà e il rancore dei contadini ridotti alla fame, portando a un moto di rivolta, la così detta Fronda, promossa dal Parlamento di Parigi. Mazzarino fu costret-to alla fuga e le momentanee disgrazie coinvolsero anche le sue proprietà tra le quali anche la famosa Biblioteca che, nel 1651, venne confiscata e messa in vendita all’incanto da una delibera del Parlamento. Il fe-dele Naudè, che vedeva svanire il lavoro di tutta una vita, dopo aver tentato di riacquistare una parte dei libri e di nasconderne altri, i più preziosi, nell’abazia di Sainte-Geneviève, non gli restò altro che rivolgere un’ac-corata supplica alla Camera dei Conti per evitare la dissipation de la plus belle & de la meilleur & plus nombreuse Bibliothèque qui ait iamais esté au monde. La decisione della vendita venne a lungo dibattuta in Parla-mento e poi, fortunatamente, rinviata a tempo indetermina-to. Ma la Storia, soprattutto quella politica, è da sempre capricciosa. Mazzarino ritornò nelle grazie del Re e, alla sua morte, Luigi XIV non volle che fosse dispersa la sua preziosa e unica raccolta di libri. L’intera

di Simonetta [email protected]

Partiti e istituzioni lontani dal cuore. A giudicare dalle risposte alla domanda “Quanto fiducia prova nei confronti di associazio-ni, organizzazioni, istituzioni e politica? – che Demos, l’istituto diretto da Ilvo Diamanti, ha ri-volto agli italiani in dicembre - le cose non sono messe per niente bene. Solo Papa Francesco ne esce alla grande con l’85% della fiducia. Oltre a lui, stanno sopra al 50% solo le forze dell’ordine (68) e la scuola (56). Tutto il resto sta sotto la sufficienza. I partiti sono il fanalino di coda fermi al 5%, il Parlamento al 10% le banche al 16, i sindacati tra il 16 e il 19 e lo Stato al 22%.

Poco più di un italiano su cin-que. Segno che cittadini vivono le istituzioni come controparte piuttosto che come gestori ocu-lati della cosa pubblica, nell’in-teresse della comunità. Colpisce il fatto che questo risultato sia scivolato via come se niente fosse, con pochi commenti e zero reazioni. Cancellato dall’atten-zione in poche ore. Preoccupante poi, perché se chi ci governa, la classe politica - a livello locale, regionale e nazionale - il Par-lamento e i partiti, stanno in fondo alla classifica della fiducia, c’è poco da stare allegri. Sono loro che approvano leggi, fanno le riforme, decidono come e a chi prendere i soldi e dove e per che cosa spenderli. Qualcuno dirà: non è una novità. E’ vero la crisi viene da lontano. Se ne parlava già sul finire del secolo scorso. Vi ricordate il referendum sulle preferenze del ’91, da allora

la transizione non si è ancora conclusa e infatti si continua a discutere sempre delle stesse cose. E oggi, nonostante promesse, impegni, programmi, primarie, governi di centrodestra e centro-sinistra, congressi e varie elezioni, le cose non sono migliorate. Anzi. I sondaggi ci dicono che oltre il 40% degli elettori non andrà al seggio e il 15% resta perennemente indeciso. Neppure il nuovo corso, quello fondato sulla rottamazione, è riuscito ad invertire questa tendenza. Dopo 20 anni di divisioni tra berlusconiani e antiberlusconi oggi siamo ancora lì, a dividerci tra renziani e antirenziani. Il 19% degli italiani giudica Renzi come il miglior personaggio dell’anno, mentre il 25 lo giudica il peggiore. E’ proprio così, da noi l’inverno civile non è ancora finito. Speriamo di non morire di freddo.

di remo Fattorini

Segnalidi fumo

Le alterne fortuneBiblioteca del Cardinaledella

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(potrei essere un genio così come un mediocre), il mio censo (per averne accumulato o meno ric-chezze) o la mia passione (per il fatto di avere il cosiddetto ‘sacro fuoco’ o al contrario attendere con sovrana indifferenza a ciò che faccio)? Ecco, ora che ti dico che cosa faccio, la trattazione dell’argomento principale – così repentinamente interrotta - può

riprendere il filo e proseguire senza ostacoli; forse la cono-scenza del mio lavoro ti servirà a misurare le parole, ti offrirà una cautela che tuttavia priverà lo scambio di quella ingenuità, del candore, della freschezza che proprio i dialoghi senza rete sanno donare. Vorrei dirti (ma non te lo dico) che credo sommamente nell’in-

dividuo come entità filosofica ed anche concreta; e credo che il valore dell’individuo possa più felicemente cogliersi attingendo gradualmente al suo essere, alla sua verità – non dico radical-mente a prescindere, comunque senza che sia necessario il suo inquadramento. Quel valore è antecedente al suo mestiere e al ruolo che riveste nella società. Punto. E potrei aggiungere un pippone (ma anche questo te lo risparmio) su concetti come conquista ed eredità, merito e successo, competenza e apparte-nenza. E ora concludo il mio pensiero confermando a me stesso che, malgrado tutto, nessuno mi ascolterà profferire il monito: “Non chiedermi (subito) che lavoro faccio”. Preferirò comun-que dover scegliere tra il mentire e il sopportare, riservandomi lo spazio di macerare ogni imperti-nenza, silenziosamente, dentro il mio cuore.

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’ani-mo nostro informe, (…).”;

e ancora, “(...) Non domandarci la formula che mondi possa aprirti...”: sono i versi di una ce-lebre lirica montaliana che risale alla mia mente, subito, mentre mi chiedi che lavoro faccio. Non ci conosciamo che da pochi se-condi, ti ho appena detto il mio nome e tu evidentemente ritieni che la nostra conversazione non possa proseguire senza questa informazione. Sei fortunata, perché questa sera sono pro-prio tranquillo, non ho il ruzzo del solito, non sono in vena di gigioneggiare. Altrimenti potrei risponderti che mi guadagno da vivere scrivendo lettere d’amo-re per analfabeti, o pedinando coniugi fedifraghi che tradisco-no i rispettivi consorti; potrei raccontarti che giro il mondo in cerca di splendidi panorami per l’industria delle cartoline o che riparo catamarani (non in porto – sarebbe troppo facile! - bensì) mentre corrono rapidi la loro fuga sul mare; potrei dirti che sono un banchiere – non uno che lavora in banca, capiscimi, ma che la possiede – ovvero che sbarco il lunario scrivendo canovacci di romanzi per autori troppo indaffarati a fare marke-ting di sé stessi. Insomma, potrei raccontarti quello che voglio e saprei ben fartelo credere, infioc-chettando il pacco e lasciandolo così, fino al nostro prossimo incontro, - se ci sarà. E invece, per una volta, decido di deglutire il disappunto che puntualmente mi suscita la domanda che trovo (scusami) un po’ banale, un po’ stupida; non certo per sé, sem-mai nella misura in cui si col-loca (così quasi sempre accade) all’inizio di una conversazione, rivelando la premura indiscreta, il desiderio frettoloso di iscrivere l’interlocutore nella sua casella sociale. E’ così determinante, nei primi scambi di parole tra due sconosciuti, questa bene-detta casella? E ora che ti dico che cosa faccio nella vita, quali cose presumi che il mio lavoro/mestiere possa prontamente rivelarti di me? Forse la mia capacità (potrei ‘essermi fatto da solo’ o più comodamente averlo ‘ereditato’)? Forse il mio talento

Non chiedermi (subito) che lavoro faccio

di Paolo [email protected]

Il migliore dei Lidi possibili

Televisione senza canone e senza pub-

blicità

Disegnodi Lido ContemoriDidascalia di Aldo Frangioni

di lido [email protected]

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E’ antica usanza fiorentina affibbiare soprannomi e no-mignoli a chicchessia, scono-sciuti personaggi del popolino e influenti cittadini. Se sullo stradario di Firenze cercate via Anton Francesco Grazzini, famoso poeta e scrittore del 500’ non troverete nulla, ma se cercate  Lasca , soprannome del suddetto Grazzini, trove-rete che in zona Cure esiste via del Lasca. Indubbiamente, però, l’esempio più alto è stato quello di Lorenzo de’ Medici soprannominato Il Magnifico un po’ per la sua filantropia ed un po’ per pura piaggeria (era pur sempre il CAPO); con questo altisonante soprannome Lorenzo è addirittura passato alla storia.Mi sono detto : ed il buon Da-rio Nardella, poveretto, voglia-mo trovargli un soprannome de-gno della sua persona?? Se fosse uno che non ne azzecca una lo

potremmo chiamate Dario il Padella, se avesse la faccia con lineamenti marcati lo si direbbe Dario il Mascella, se nella vita privata amasse cucinare fiorenti-no lo si potrebbe additare come Dario il Crespella, se fosse una persona malvestita,sporca e tra-sandata lo si potrebbe appellare Dario il Frittella. Ho control-lato tutti i nomi che finiscono

in “ella” e nessuno si addice al nostro sindaco metropolitano, ma poi, pensa e ripensa,  mi si è accesa la lampadina: sempre così pulitino, sbarbatino, pettina-tino e precisino, con quell’aria renziana di bravo ragazzo con le idee moderne ma con il gusto e l’anda di sapore antico e sempre di moda non può che passare alla storia come Dario Nutella!!

suo punto debole, glieli decantò come provenienti dalla studio di un avvocato testè deceduto. Acquistò tutto in blocco pre-gustando la lettura di qualche bislacca storia o il rinvenimento di chissà che cosa. A nulla valse il “cogliombero” con cui lo apostrofò il fratello che invece prevedeva una ennesima frega-

tura. Per anni ed anni mantenne come nascosta l’emozionante scoperta dei carteggi riguar-danti Superga, reperto unico e prezioso per tifosi del Toro e non solo, fino a che fu convinto da un suo amico tifoso viola a mostrarlo ad Ormezzano per trarne una pubblicazione. Al di là del consolidarsi dello spirito

di”comunione” sportiva fra Fiorentina e Torino il libro ci propone l’inesauribile fascino degli antichi frammenti di vite bruscamente interrotte, affetti violentemente spezzati, emozio-ni dolorose e sommesse richie-ste di indennizzo, in mezzo al racconto di quotidianità rese difficili da cotanta tragedia

Distintivo “a piedino” della Fiorentina, 1940 circa, prima che, orribilmente,

si chiamasse “la viola”, uguale in tutto e per tutto a quello che compare sulla copertina di un librone di cui mi sono scirop-pata la lettura e che narra una storia parecchio inconsueta. “Il Toro e il Giglio”, scritto da Gian Paolo Ormezzano, noto gior-nalista sportivo, autore di molti libri e grande tifoso del Torino. Quel distintivo, di cui il nostro ha evocato la storia, è quello che era appuntato sul “bavero” della giacca di Romeo Menti, mezzala del Grande Torino, quando è morto, insieme a tutto il resto della squadra, nella sciagura di Superga. Menti giocava nel Toro e portava nel cuore la Fiorenti-na. Il distintivo si posa sopra un fascicolo che porta scritto “Su-perga” e Menti, vicino ad altri con il cognome dei vari giocato-ri morti, tutti parte dell’archivio cartaceo dell’Avvocato fioren-tino che curava gli interessi dei loro eredi, vi si trovavano anche lettere, biglietti di cordoglio, elenchi di oggetti sopravvis-suti al rogo dopo lo schianto dell’aereo, spese funebri. Franco Corti, medico di Figline, amico di famiglia dei genitori di Ros-sano, impara dal padre, operaio in uno stabilimento grafico, ad amare le pubblicazioni rare e di pregio e le vecchie carte in genere. Morto precocemente il padre, il fratello avvia un banco di “cartaio” al mercatino dei Ciompi, le nostrane pulci, Franco gli fa spesso visita, ama gli informi e confusi ammassi di fogli destinati prima alla pressa e poi al macero, subisce, fortissi-mo, il fascino del loro inconfon-dibile odore di umido e muffa. Lì i suoi occhi si sono come allenati a riconoscere in mezzo ai mucchi di cartacce qualcosa di speciale, una lettera autografa di qualcuno, una cartolina con un bel francobollo, una stampa, un manoscritto, insomma resi-due vestigia di eventi o emozio-ni che furono. Ricorda bene il giorno in cui vide comparire da lontano lo “svuotacase” con il “barroccino” che strabuzzava di fascicoli e inserti in equilibrio instabile, costui, conoscendo il

Amiciziepallonare

di Sergio [email protected] Lo spalmasindaco

Dalla collezione di Rossano

Bizzariadeglioggetti

a Cura di CriStina [email protected]

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scorrere un velo di tristezza negli occhi di Renato Ciardo al suo ennesimo frustrato tentati-

vo di cantare, da cima a fondo, “Come prima, più di prima, t’amerò” di Tony Dallara.

In questi giorni si discute (in-credibilmente in questo assurdo paese!) della comicità di Checco Zalone, prodotto italico della terra di Puglia: ebbene, cari signori, Checco a questi non gli lega neppure le scarpe, per quanto conterraneo!Non ve li perdete! Sono stati la mia “scoperta” dell’anno 2015 e vincono il mio premio “confer-ma” per il 2016. Uno di quei piccoli gioielli che puoi trovare solo in alcuni dei teatri cd. “mi-nori”, come quello di Rifredi, che però da decenni ormai – in mezzo ad un mare di difficoltà economiche, pratiche, organiz-zative – contribuisce a rendere migliore la qualità della vita di una città come Firenze. Un teatro abituato a giocarsi con qualche scommessa l’esistenza e questa della Rimbamband è certamente una scommessa vinta. Non so dire dal punto di vista del botteghino (ma questo dipende da noi, da voi lettori e spettatori), certamente dal punto di vista artistico.

Rimbambandconcede il bisRieccoli quelli della Rim-

bamband. Sono ritornati al teatro di Rifredi e vi

resteranno fino al 17 gennaio. Vi faranno rotolare dal ridere! Una rutilante sarabanda di musica, parole, gag, mimo, comicità: animali da palcosceni-co, che “sentono” il pubblico (e lo provocano) come poche altre volte ho visto. Non c’è niente di scontato nel loro show: arrivati al culmine di un giro di musica e battute, ti aspetti la fase di discesa, invece questi ti portano su un altro giro della morte di questo loro assurdo ottovolante. Poi svolti e dietro la curva, un altro scarto della folle iperbole comica del quintetto. Come avrete forse arguito, si ride a crepapelle. Poi, dopo i primi 20-30 minuti, dopo che ti sei aggiustato le mascelle che rischiano di sganasciarsi davve-ro, prendi fiato, trovi 10 secon-di di tregua e rifletti: ma questi sono davvero dei virtuosi dello strumento, quale che sia (uno, addirittura suona la sua testa!). Certo, il Rosso è bravissimo per antonomasia alle tastiere! Il Caparezza con quel contrabbas-so fa di tutto (compreso farne oggetto da palcoscenico per più di una gag)! Niccolò Pantaleo riesce a trarre dai fiati una varietà di suoni inimmaginabi-le! Renato Ciardo con quel suo quarto di batteria sembra Phil Collins che di batterie di aveva almeno tre! Raffaello Tullo suona tutto, mani, piedi, testa, percussioni, gambe. Ma insie-me sono strepitosi per il loro affiatamento; musicisti di sicuro talento che non sfigurerebbero certo in contesti seri, anzi è probabile che contagerebbero di questa loro follia musicale anche i compassati maestri di qualche blasonata filarmonica (peraltro, sarebbe esperimento da suggerire al funambolico quintetto).I cinque della Rimbamband hanno poi questa non frequente caratteristica fra chi calca le scene di questo genere tea-trale: sono loro i primi che si divertono, da matti; e quindi la trasmissione al pubblico di questa condizione esistenziale è im-mediata. Solo ad un certo punto mi è sembrato di veder

di Simone [email protected]

Alla Galleria ETRA, nel vecchio studio che fu di Marcello Tommasi (via della Pergola 57), ma anche di Benvenuto Cellini che vi modellò il Persèo, si può ancora vedere la bella mostra di Lorenzo Bonechi, la meteora che ha attraversato la cultura artistica del Novecento italiano (1955 – 1994).L’attenzione per Bonechi è stata crescente ed accelerata negli ulti-mi anni, suscitando l’interesse di diversi critici. E’ ancora fresca la bella mostra nel Pretorio di Figline Valdarno (ove l’artista nacque), con bellissimi disegni di grande formato davvero ineguagliabili. Questa mostra fiorentina raccoglie opere giovanili, care all’Artista: figure, paesaggi, volti, compo-sizioni varie, ed anche bronzetti (bellissimo il San Michele). Con la pacatezza della sua cifra stilistica che potremmo ricondurre – usando un ossimoro quanto mai appropriato – al dinamismo statico di Piero della Francesca, dobbiamo dire di queste opere, specchio di serena riflessione e maturo, poetico distacco dal mondo. Ho avuto

già diverse occasioni di scrivere di questo Maestro, perduto troppo presto. Ricordo ancora, alcuni anni or sono, quando ne scoprii una sala a lui dedicata nel Museum of Art di Philadelphia, accanto ai Funerali della Vergine del Beato Angelico e altre opere di Botticelli e Cima da Conegliano! Così, torna fondamentale la ricostruzione filologica della sua opera datane da

Giovanna Uzzani (Arte in Toscana, 2009) nell’ambiente scolastico e accademico in cui si formò. Certo è da riconfermare che se è vero che il giovane Lorenzo guarda e vive di qualche suggestione del più adulto e maturo Roberto Barni e di qualche coincidenza con Andrea Granchi, è altrettanto vero che assai presto, nel suo percorso di ascesi troverà la sua personalissima poetica, non solo e non tanto nella classicità del primo Rinascimento (e segnatamente in Piero della Francesca) quanto nella serena ieraticità dugentesca di Coppo di Marcovaldo. In definitiva, possia-mo davvero affermare che a Loren-zo Bonechi dobbiamo riconoscere il più rivoluzionario e affascinante processo di attualizzazione dell’arte del passato. Ed allora, dobbiamo ringraziare chi, con amore, ha saputo conservare queste opere. E Francesca Sacchi Tommasi per aver ospitato questa bella mo-stra, nello studio garbatamente recuperato del nonno Marcello: l’amico accademico delle “Arti del Disegno” che settimanalmente, con furia amicale vi organizzava delle bellissime cene.

di FranCeSCo gurrieri

Lorenzo Bonechi e il colore della luce

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tanto sul serio, anzi quasi per scherzo, anzi proprio per scher-zo perché poi, si sa, noi siamo sempre i migliori. Insomma un Film(etto) moderatamente divertente e moderatamente deprimente che in questa Italia, Declamata, Acclamata , Lan-ciata, con la Guida del nostro Premier, Verso Lemagnifichesor-tieprogressive, fa la sua figur(i-na). Un Film che racconta una storia quasi come una favola, senza mai scadere nel patetico e nel volgare. Una figuraccia la fanno invece sia il Ministro Franceschini che (copiando il Premier, anzi copiandolo in anticipo come devono fare i veri sudditi) si appropria del succes-so di Checco indicandolo come un esempio per la rinascita del cinema italiano sia il senatore Marcucci che inneggia all’inizio “alla grande del cinema italiano nel 2016”. Almeno il Premier per farsi pubblicità gratis ha “usato” la Ferrari.

di gianni [email protected]

Che ca..o di Film, pen-sò Zalone, devo fare quest’anno per rompere

i co....ni ai film panettone di Natale e farmi un sacco di quat-trini? Faccio un Film da Ultimo dell’Anno. Ecco la prima trovata geniale di Checco che fa uscire il suo Film proprio l’ultimo giorno dell’anno e proprio a mezzanotte. Insomma per prima cosa raccatta di brutto tutti quelli che non sapendo che fare per l’ultimo giorno dell’anno, per non sentirsi soli e anche un poco sfigati, vanno dove c’è gen-te, e cioè al cinema. E intanto ha trovato qualche milione di euro senza praticamente spen-dere quasi niente in pubblicità. Poi fa un Film liscio liscio liscio, ma così liscio che diventa facile facile vederlo e goderlo anche se hai accanto di poltrona al cine-ma uno che ride sganasciandosi anche al primo quadro della prima scena, dove praticamente si vede solo il Checco nazionale in taxi ma nella giungla (ho vi-sto il Film il lunedi pomeriggio perché si doveva commentarlo e gli altri della redazione, molto radical chic, non volevano an-dare a vederlo). Infine si inventa alcune genialate che praticamen-te da sole valgono il biglietto. La prima è la canzone della prima repubblica dove “con un’unghia incarnita sei invalido tutta la vita”, la seconda è il percorso in bicicletta fra l’abitazione e il lavoro, vera rappresentazio-ne simbolica del concetto del “postofisso sottocasa”, la terza è la rappresentazione caricaturale della zelante dirigente che appli-ca con puntiglio sadico norme assurde, ma reali nella vita reale, e le fa diventare incredibili quando invece sono realtà.Il tutto condito da quel pizzico di ovvietà che non sta mai male nel Film dell’Ultimo dell’Anno, come le abitudini nordiche a confronto con quelle italiche, il lieto fine con ricongiungimento della famiglia al completo (ché la famiglia è sempre la famiglia), il parziale ravvedimento della dirigente zelante ecc. ecc. E con questo raccatta altri milioni di euro perchè si sa che gli italiani amano essere presi un poco in giro, ma solo se a farlo sono gli stessi italiani; e magari mica

Vai col lisciobobo

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Con questo titolo, sul finire del XIX secolo, all’alba di un’emancipazione dei costu-

mi ormai alle porte, Octave Uzan-ne licenziava il suo libro dedicato alla donna attraverso le epoche, consegnandone così al lettore le mille sfaccettature. Di questo stes-so titolo potrebbe fregiarsi, oggi, anche il lavoro di Elene Usdin, artista francese dalle grandi risorse che si muove, con disinvolta bravura, dalla fotografia al video, dalla pubblicità all’illustrazione. Qualunque sia il terreno sondato, Elene conduce una ricerca che esplora con forza immaginativa e humour gli accadimenti, i ricordi, i sogni e la fantasia che animano e agitano la sfera umana, in modo particolare quella femminile. A occupare la scena metamorfica di tanti suoi lavori è, in primis, lei stessa, regina di un harem che si fa preda di un gioco versatile di maschere, travestimento, scam-bio delle parti. Sotto le mentite spoglie della modella e dell’attrice, Elene rielabora, oltre a favole e ricordi d’infanzia, le immagini di eroine antiche e moderne che lei stessa ricolloca, volta per volta, nella penombra di un’alcova, nella luminosità di un interno, nella natura di un paesaggio. Ecco allora che si avvicendano, tra nudità esplicita e corpo velato, figure come Batwoman, errante e a tratti quasi sonnambula nella foresta rigogliosa, oppure sdraiata sull’er-ba a rievocare la parte segreta di quel voyeuristico Etant donnés di Marcel Duchamp. Altrove appare la Donna Ragno, sola e avvolta nei fili tenui dai quali prende corpo una ragnatela, quasi un remoto ricordo delle tele e dei fili di grandi e mitiche amatrici come Circe, Arianna, Penelope. In altri casi ancora la presenza femminile – o talvolta maschile – può integrarsi con oggetti di arredamento o circondarsi di elementi favolistici come vegetali di stoffa e pile di materassi spogli che fungono da letto, parete, e perfino da sandwi-ch. In molte di queste immagini l’artista lascia trapelare, con sottile ironia, una sensibilità sì lontana dal femminismo più aggressivo, ma comunque incline a fustigare la moralità e l’autorità erette nei secoli da una società conformista e repressiva. Così è, per esempio, il riferimento ricorrente all’intimità

della donna, riproposta attraverso pose e rituali enigmatici o velata-mente onanistici per poi sconfi-nare nel sonno calmo, inquieto o liberatorio di tante potenziali Lo-lite, Vergini, Salomè. Un mondo che non sembra del tutto insensi-bile a quello di artiste più celebri come Annette Messager, Louise Bourgeois, Claude Cahun, Sophie Calle, per citarne solo alcune, dove converge quella selva di stati d’animo legati alla trasgressione, alla conflittualità, alla sofferenza, al lutto, al desiderio, all’ambiguità, all’affermazione di sé.Le incursioni di Elene nel regno femminile possono spingersi anche oltre, in un percorso a ritroso, lun-go una galleria di ritratti muliebri illustri. Su questa scia è nata la serie Femmes d’intérieur, ritratti rivisitati e decontestualizzati di dame - note o ignote – consacrate da maestri come Bronzino, Velázq-uez, Ingres, Raffaello, Ghirlan-daio, Picasso. Frutto di accurate elaborazioni pittoriche su imma-gini fotografiche, queste Femmes d’intérieur - Eleonora di Toledo, Giovanna Tornabuoni, la Forna-rina e altre ancora - conservano le loro sembianze ma appaiono estrapolate dal contesto pittorico che ne connotava un tempo la dinastia, la classe sociale, l’universo familiare. Elene si riappropria di queste effigi per inserirle in am-bienti casalinghi coevi, in interni diroccati o in paesaggi marini che alludono tanto alla donna ingab-biata nella quotidianità domestica quanto alla trasformazione cre-scente di valori tradizionali come

la casa, la famiglia, la genitorialità, la divisione dei ruoli. In queste immagini sembra però celarsi anche un vago sapore di libertà che affranca il ritratto da quell’ide-ale rinascimentale che lo rendeva imago sostitutiva dell’oggetto del desiderio e che colmava l’assenza di chi era lontano. Se Elene si dedica con passione e competenza alla fotografia, il suo interesse per il video non è meno fecondo. Nel ricco florilegio dei suoi cortometraggi risplende, tra gli altri, un piccolo gioiello da lei realizzato per alcuni alberghi di lusso, la serie di video Les impatiences, ognuno dei quali incentrato su una donna di statura storica: Juliette Récamier, Simo-ne de Beauvoir, George Sand, Joséphine de Bauharnais, Isadora Duncan. Personalità, queste ultime, da lei stessa reinventate e incarnate attraverso abiti, accon-ciature e atteggiamenti studiati ad hoc, e chiamate a trascorrere la notte in una lussuosa camera d’albergo nell’atmosfera inquieta del sogno e dell’insonnia. Brio-samente ispirate al cinema muto e affiancate da sonorità, musiche e canzoni giocosamente distorte, talora intercalate da voci infantili, queste visioni intrigano e diver-tono. “Si je pouvais me réveiller à ses côtés”, “Je rêve d’amour dans mes nuits”, “Laissez-moi man-ger ma banane”, “Héo, mais tu dors ou pas ?”, sono alcune delle parole che accompagnano queste signore irrequiete, dai movimenti languidi e meccanici, innocenti e invitanti, secondo ritmi alterni

simili a un Ballet mécanique, per citare il cortometraggio di Fernand Léger, o alle movenze libertine, in vaporoso subbuglio, delle femmine o pulzelle di Watteau e Fragonard. Tra vesti che si ribaltano, arti che si scoprono, stoffe che si avvolgono, queste scene si rendono accessibili all’occhio curioso di ogni voyeur. Tale privilegio è concesso anche al maschio, figura rara nel lavoro di Elene, che compare qua e là, lasciandosi camuffare sotto lampa-de, tatuaggi, abiti improbabili, o evidenziandosi sul confine tra fem-minilità e mascolinità. E’ quanto si può vedere anche nell’immagine fotografica di una donna longili-nea indossante un fallo posticcio di colore rosa, protuberante sex toy e simbolo dell’attacco alle convenzioni sociali che negano il sempre più frequente sconfina-mento tra i sessi. Questa condizio-ne di ambiguità connota anche la donna-centauro di Elene, sostituto femminile di un antico simbolo mascolino ora trasformato in una bella addormentata sul divano che mette a riposo la contrapposizio-ne perenne, propria al centauro, tra istinto e ragione, tra civiltà e bestialità. Canzonatoria, umoristica, ma anche critica, Elene non si spinge in denuncie aggressive ma, anzi, porta delicatezza, malizia e divertissement nelle sue opere, coinvolgendo le sue eroine in continue metamorfosi e mutazio-ni, tra rivendicazione della libertà, rovesciamento degli stereotipi e rivisitazione dell’ideale femmineo nella società contemporanea

Son Altesse la femmeElene Usdin a Sensus

di angela [email protected] 

Elene Usdin, Petit pois, 2015

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giro

A sud delle nuvole a PontassieveDa un volume curato da Adria-no Bimbi e Antonio Natali, edito da Polistampa, è allestita la mostra “Sequenza di tre. Swagatam-My apple, a sud delle nuvole aperta fino al 6 di marzo nella Sala delle Colonne di Pontassieve.il volume riproduce un reportage fotografico in cui Alfieri cattura il fascino della Cina, dell’India e della città di New York.“Ogni luogo”, scrive Umberto Semplici, “suggerisce al fotografo

l’approccio più appropriato, quella sorta di ‘colore locale’ che diviene filo conduttore del-la sua indagine visiva, carattere complessivo di ogni raccolta. La sua personalità poliedrica, ma ferma (e la magistrale professio-nalità), riunisce i vari reportage in un book unitario, coerente, malgrado l’irriducibile diversità dei soggetti”.Testi di Carlo Boni, Antonio Natali, Umberto Semplici, An-drea Alfieri, Adriano Bimbi.

RICORDO DI GIORGIO SPINI NEL DECENNALE DELLA SUA SCOMPARSA

IL COMUNE DI FIESOLE, LA SEDE RAI DELLA TOSCANA, LA FONDAZIONE CIRCOLO FRATELLI ROSSELLI

VI INVITANO

GIOVEDÌ 14 GENNAIO 2016 ALLE ORE 21,00

FIESOLE - SALA DEL BASOLATO – PIAZZA Mino, 26

Programma

Saluti

Anna Ravoni, Sindaco di Fiesole

Andrea Jengo, Direttore RAI Toscana

Valdo Spini, Presidente della Fondazione Circolo Rosselli

PROIEZIONE DEL VIDEO MICHELANGELO POLITICO A FIRENZE, REALIZZATO DAL PROF. GIORGIO

SPINI PER RAI 3 DELLA TOSCANA NEL 1982

Commentano il video e ricordano la figura di Giorgio Spini

Prof. Paolo Naso (Sapienza - Università di Roma)

Prof. Sandro Rogari (Università degli Studi di Firenze)

Prof. Marcello Verga (Università degli Studi di Firenze)

La S.V. è invitata a partecipare

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Aldo Frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della Bella

ScottexNei film, fino a non molti anni fa, al termine c’era sempre la parola FINE. Poi questa parola, che spesso era il fatidico THE END, è scomparsa, forse perché spesso ci sono stati dei sequel o forse per-ché, siccome la vita continua, si è ritenuto che anche i film, magari nella immaginazione degli spettatori, continuino anche quando le luci si riaccendono in sala. Non è il nostro caso. Con il N° 50 mettiamo la parola BASTA (a scanso di equivoci) alle mini-criti-che iniziate il 20 novembre 2014. Terminiamo questo maratona d’arte contenti e sollevati. L’ultima opera di carta del della Bella, ha, unica fra tutte, un titolo “Cobò”, in omaggio al grande Aldo Palazzeschi. Nella poesia futurista tanti animali piangono, a loro modo, il vecchio Cobò nel suo letto di morte. Lo Scottex 50 vuol forse rappresentare un altro animale piangente, un specie forse scomparsa o che deve ancora apparire. Chiedendo scusa al Grande letterato fiorentino, ci siamo permessi di dar voce a questa strana bestia che, memori di vecchie trasmissione radiofoniche e televisi-ve, potremmo chiamare Sarchiapone o Scarpantibus, il quale così si esprime: Ho, Ho, Oibò, Cobò, Cocoricò, Cocoricò, Cocoricò, Chiò, Chiò, Oibò, Cobò e anche lui, con la civetta, “Fissando il capezzale/[]/veglia e aspetta”.

Sculturaleggera

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L

Questi sono i giorni dell’Epifania e riguardando tra le immagini selezionate per i prossimi numeri mi sono convinto che quella più adatta al momento dell’anno fosse questo scatto di una piccola ragazzina cinese che stava giocando con il suo orsacchiotto di fronte al negozio dei genitori. All’epoca, e forse ancora oggi, la maggior parte di queste piccole lavanderie erano gestite da famiglie di cinesi e Il

mio sospetto fu che tutte queste piccole attività familiari fossero organizzate e “ben protette” dalla malavita cinese organizzata.

NY City, agosto 1969

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

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