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Italo Calvino

RACCONTI FANTASTICI DELL’OTTOCENTO

volume secondo

Il fantastico quotidiano

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© 1983 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano

I edizione Oscar classici ottobre 1983

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Sommario

IL FANTASTICO QUOTIDIANO

E.A. Poe - Il cuore rivelatore H.C. Andersen - L’ombra C. Dickens - Il segnalatore I. Turgenev - Il sogno N.S. Leskòv - Lo scacciadiavolo A. Villiers de l’Isle-Adam - Più vero del vero G. de Maupassant - La notte Vernon Lee - Amour Dure A. Bierce – Chickamauga J. Lorrain - I buchi della maschera R.L. Stevenson - Il diavolo nella bottiglia H. James - Gli amici degli amici R. Kipling - I costruttori di ponti H.G. Wells - Il paese dei ciechi

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IL FANTASTICO QUOTIDIANO

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Edgar Allan Poe

IL CUORE RIVELATORE (The Tale-Tell Heart, 1843)

Come rappresentare nella nostra antologia un autore come Poe (1809-1849) che della narrativa fantastica dell’Ottocento è la figura centrale, la più famosa e la più rappresentativa? La scelta più ovvia sarebbe Il crollo della casa degli Usher (1839) che racchiude tutti i motivi più tipici del nostro autore: la casa cadente da cui spira un’aura di dissoluzione, la donna esangue, l’uomo assorto in studi esoterici, il seppellimento prematuro, la morta che esce dalla tomba. Dopo di lui tutta la letteratura del decadentismo si è abbondantemente nutrita di questi motivi; e il cinema, dalle origini a oggi, li ha divulgati a sazietà. Ho voluto invece che ad apertura di questo secondo volume ci fosse un altro Poe, che inaugura un altro tipo di fantastico, quello che sarà dominante nella seconda metà del secolo: il fantastico ottenuto coi minimi mezzi, il fantastico tutto mentale, psicologico. Ritengo che The Tale -Tell Heart, monologo interiore d’un assassino, sia il capolavoro assoluto di Poe. L’assassino è nascosto nel buio nella stanza della sua vittima, un vecchio che sta in allarme con un occhio sbarrato. L’esistenza del vecchio si manifesta solo attraverso quest’occhio («un occhio di avvoltoio») e dal rumore del cuore che batte, o almeno, da quello che l’assassino crede sia il cuore del vecchio, che continuerà a ossessionarlo anche dopo il delitto. Questo è vero, sono un uomo nervoso, spaventosamente nervoso, e lo sono sempre stato; ma perché pretendete che sono pazzo? La malattia mi ha reso i sensi più acuti – mica me li ha distrutti – logorati. E già avevo l’udito finissimo, e tutto ho sentito del cielo e della terra. Anche dell’inferno ho sentito parecchio. Com’è dunque che sarei pazzo? State attenti! E osservate con quanto senno, con quale calma sono capace di raccontarvi tutta la storia. Come in principio l’idea mi venne non è possibile dirlo; ma una volta che mi entrò in testa ne fui ossessionato notte e giorno. Un motivo, non c’era. La passione non c’entrava per nulla. Gli volevo bene, al caro vecchietto. E lui non mi aveva fatto alcun male. Mai mi aveva offeso. Né io volevo il suo oro. Fu per il suo occhio, credo. Sicuro, fu per quello! Aveva un occhio che pareva un occhio di avvoltoio, azzurro chiaro, con un velo sopra. Ogni volta che quell’occhio si posava su di me, mi si gelava il sangue; e così, lentamente, a grado a grado, mi misi in testa di togliergli la vita, al vecchio, e in tal modo sbarazzarmi per sempre dello sguardo di quell’occhio. Ecco il punto! Voi mi credete pazzo. E i pazzi non sanno quel che fanno. Se mi aveste visto, invece! Se aveste visto con quanta assennatezza operai; con quanta circospezione, dissimulazione, previdenza! Mai ero stato tanto gentile

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col vecchio come durante la settimana che precedette l’assassinio. E ogni sera, verso mezzanotte, giravo la maniglia della porta che metteva nella sua camera e aprivo: oh, piano, piano! Quando avevo aperto abbastanza per cacciar dentro la testa, facevo passare una lanterna cieca, perfettamente chiusa, eh, perfettamente chiusa, che non lasciasse filtrare un solo raggio, e poi affacciavo la testa. Oh, avreste riso a vedere con quale destrezza l’affacciavo! La muovevo lentamente, con infinita lentezza, per non turbare il sonno del vecchio. Certo ci mettevo un’ora ad introdurla tutta, e a spingerla quanto occorreva per vederlo disteso nel suo letto. Un pazzo sarebbe stato così prudente? E quando avevo cacciato tutta la testa nella camera, cominciavo con cautela infinita, infinita cautela – a schiudere la lanterna, che strideva un poco sui cardini. L’aprivo appena il necessario per lasciar cadere un impercettibile filo di luce sull’occhio d’avvoltoio. Sette volte, per sette lunghe notti, feci questo – a mezzanotte precisa, ogni volta – e sempre trovai chiuso quell’occhio, così che mi fu impossibile compiere l’opera che mi ero proposto; perché non era lui, il vecchio, che mi irritava, ma il suo occhio malefico. Quando poi faceva giorno, ogni mattina, entravo baldanzosamente nella sua camera, e gli parlavo senza scrupolo alcuno, chiamandolo per nome nel modo più cordiale, e chiedendogli come avesse passato la notte. Vedete, avrebbe dovuto essere un vecchio molto fine d’acume, per sospettare che ogni sera, a mezzanotte precisa, io l’osservavo durante il suo sonno. L’ottava notte fu con maggior precauzione del solito che aprii la porta. La freccia piccola di un orologio impiega a muoversi meno di quanto ci impiegò la mia mano. Io non sapevo ancora di poter arrivare a tanto nella sagacia. E potevo appena contenere le sensazioni di trionfo che provavo. Pensate, ero lì che aprivo la porta millimetro per millimetro, e lui non aveva il minimo sospetto delle mie azioni, dei miei pensieri segreti! A quest’idea mi lasciai sfuggire una risatina; ed egli forse mi udì; poiché all’improvviso si mosse nel suo letto, come se stesse per risvegliarsi. Voi magari crederete che mi ritirai, e invece no. Nella camera c’era nero di pece, tanto il buio era fitto, perché, per timore dei ladri, le imposte venivano chiuse con molta cura, e io che sapevo com’egli non avrebbe potuto scorgere il varco della porta continuai a spingere questa, sempre più e più. Avevo poi affacciata la testa e stavo già per schiudere la lanterna, quando il pollice mi scivolò sul metallo della serratura, e il vecchio si rizzò in mezzo al letto, urlando: «Chi è?». Rimasi fermo in immobilità assoluta, e non dissi nulla. Per tutta un’ora non mossi un muscolo, e in tanto tempo non sentii il vecchio ricoricarsi. Egli era sempre seduto in mezzo al letto, teso in ascolto, come avevo fatto io per notti e notti a sentire i tarli nella parete. Ma d’un tratto mi giunse un gemito sommesso, e io riconobbi ch’era un

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gemito di terrore mortale. Non di dolore o di pena, era il suono sordo e soffocato che s’alza dal fondo di un’anima piegata dallo spavento. Conoscevo quel suono. Per notti e notti, alla mezzanotte in punto, mentre il mondo dormiva, era sgorgato dal mio petto a scuotere con la sua eco terribile i terrori che mi ossessionavano. Dico che lo conoscevo bene. Sapevo quel che provava il povero vecchio, e, per quanto la voglia di ridere mi riempisse il cuore, ebbi pietà di lui. Sapevo ch’egli era rimasto sveglio, da quando aveva avvertito il primo leggero rumore, e s’era rigirato nel letto. I suoi timori erano andati crescendo. Aveva certo cercato di persuadersi ch’erano privi di fondamento; ma non aveva saputo. Si era certo detto tra sé: non è nulla, sarà stato il vento nel caminetto, sarà stato un topo, sarà stato un grillo. Sicuro, si era sforzato di farsi coraggio con queste ipotesi, ma invano. Tutto era stato vano, perché la morte che si avvicinava gli era passata davanti con la sua grande ombra nera, nella quale lo aveva avviluppato. Ed era per il funebre influsso di quell’ombra invisibile ch’egli sentiva, benché nulla vedesse né udisse, la presenza della mia testa nella sua camera. Quando ebbi aspettato a lungo, con pazienza infinita, che si ricoricasse, mi decisi infine a socchiudere un po‘ la lanterna, ma tanto poco ch’era nulla quasi. Lo feci furtivamente come non potreste immaginare, e un solo pallido raggio, un filo di ragnatela, scaturì dalla fessura per cadere diritto sull’occhio d’avvoltoio. Era aperto, quello, spalancato, così che il furore mi prese non appena l’ebbi guardato. Lo vidi perfettamente, azzurro opaco e ricoperto dell’orribile velo che mi agghiacciava il midollo nelle ossa; e nient’altro all’infuori di esso vedevo della faccia del vecchio; dappoiché, come per istinto, avevo diretto il raggio proprio sul punto maledetto. Non vi ho già detto che la pazzia di cui mi ritenete affetto è soltanto un’estrema acutezza dei sensi? Ebbene, ecco che un sordo e intermittente rumore soffocato mi giunse in quella all’orecchio, come il ticchettio di un orologio inviluppato nel cotone. E io riconobbi quel rumore. Era il cuore del vecchio che batteva. E, come il rullo del tamburo eccita il coraggio dei soldati, quel suono esasperò il mio furore. Tuttavia seppi ancora contenermi, e non mi mossi. Quasi non osavo respirare. E tenevo ferma la lanterna, col raggio diretto sull’occhio. La marcia infernale del cuore batteva frattanto sempre più forte; si faceva precipitosa, e ad ogni istante più alta, più alta. Il terrore del vecchio doveva essere estremo! Il battito del suo cuore diventava sempre più forte, di minuto in minuto! Mi seguite con attenzione? Vi ho detto ch’ero un uomo nervoso; e lo sono in effetti. Ebbene, quello strano rumore, in mezzo al cuor della notte, nel pauroso silenzio di quella vecchia casa, mi riempì di un irresistibile terrore. Ancora per qualche minuto mi contenni, senza muovermi dal mio posto. Ma

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il battito si faceva più forte, più forte. Pareva che il cuore dovesse scoppiare. E così una nuova angoscia mi prese. Se il rumore fosse sentito da qualche vicino? L’ora del vecchio era suonata! Con un urlo spalancai la lanterna, e mi slanciai nella camera. Il vecchio non diede un grido, non un grido solo. In un attimo lo tirai giù sul pavimento, e gli rovesciai addosso il peso stritolante del letto. Allora, vedendo che avevo compiuto il più della mia opera, sorrisi contento. Tuttavia il cuore continuò per qualche minuto a battere, d’un battito velato. Ma io non me ne preoccupai; non si poteva mica sentirlo attraverso il muro. Poi cessò. Era morto, il mio vecchio. Risollevai il letto ed esaminai il cadavere. Era rigido, sicuro, era morto stecchito. Portai la mano al posto del cuore e ve la tenni per alcuni minuti. Nessuna pulsazione. Era proprio morto, il mio uomo. Il suo occhio, ormai, non mi avrebbe tormentato più. Se persistete a credermi pazzo, la finirete una buona volta quando vi avrò riferito le accorte precauzioni ch’io presi per nascondere il cadavere. La notte avanzava, e io mi davo vivamente da fare, in perfetto silenzio. E tagliai dal corpo la testa, le braccia, le gambe. Poi tolsi tre assi dall’impiantito della camera, e nascosi tutto di sotto. Poi rimisi al loro posto le tavole con tanta perizia e destrezza che nessun occhio umano, neanche il suo, avrebbe potuto accorgersi di nulla. E non c’era niente da lavare, non una macchia di sudicio, non una traccia di sangue. Ero stato ben accorto. Avevo lasciato scolare ogni cosa in un mastello: ah, ah! Erano le quattro quando mi fui sbrigato, e ancora faceva buio come a mezzanotte. Intanto che le ore suonavano sentii bussare alla porta di strada. Scesi per aprire, perfettamente tranquillo. Che avevo da temere, ormai? Entrarono tre uomini che si dissero, con aria soave, ufficiali di polizia. Un vicino aveva sentito gridare, cosicché, sorto il sospetto d’un qualche delitto, una denuncia era stata trasmessa all’ufficio di polizia, e i tre signori erano stati mandati per visitare il quartiere. Sorrisi: che avevo da temere? Così diedi il benvenuto ai tre signori. Il grido, dissi, me l’ero lasciato sfuggire io, sognando. Soggiunsi che il vecchio mio amico si trovava in viaggio. Condussi i visitatori per tutta la casa. Li invitai a cercare, che cercassero bene. Infine li portai nella sua camera. Mostrai loro i suoi tesori, perfettamente in ordine, in salvo. Nell’entusiasmo della mia sicurezza presi delle seggiole e li pregai di riposarsi. Io, con la folle audacia del trionfo assoluto, andai a mettermi proprio sul punto dove si trovava nascosto il corpo della vittima. I poliziotti erano soddisfatti. I miei modi li avevano convinti. Quanto a me, mi sentivo stranamente a mio agio. Sedettero, i tre, e parlarono di cose banali. A tutto io rispondevo con buonumore. Ma a un certo punto, mi sentii impallidire, ed ebbi voglia che se ne andassero. Mi doleva il capo, e mi pareva

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d’avvertire un battito alle orecchie. Ma quelli se ne restavano seduti e continuavano a chiacchierare. Il battito, una specie di tintinnio, si fece più distinto; e mi diedi a parlare più che potei per non sentirlo; ma esso tenne duro, e prese un carattere ben definito, tanto che infine compresi che non lo avevo dentro alle orecchie. Allora mi feci certo pallidissimo, ma mi ostinavo a chiacchierare, a voce alta, e con sempre maggiore accanimento. Il rumore aumentava sempre, che potevo fare? Era un sordo e intermittente rumore soffocato, come d’un orologio inviluppato nel cotone. Respiravo a fatica; quanto agli agenti, essi non lo sentivano ancora. Parlai più in fretta, con maggiore veemenza; ma il rumore cresceva senza tregua. Mi alzai a discutere di sciocchezze da nulla, ad altissima voce e gesticolando con violenza, ma il rumore cresceva, saliva sempre. E perché non se ne andavano, quei tre? A grandi passi pesanti misurai su e giù il pavimento come esasperato dalle osservazioni dei miei contraddittori, ma il rumore cresceva regolare, costante. Signore Iddio, che potevo fare? Mi agitavo, smaniavo, bestemmiavo! Smuovevo la seggiola sulla quale stavo seduto, la facevo stridere sull’impiantito; ma il rumore sovrastava ormai tutto, e cresceva, cresceva ancora, senza fine. Diventava più forte, più forte, e gli uomini chiacchieravano sempre, scherzosi, sorridenti. Era possibile che non sentissero? Dio onnipossente; no, no, essi sentivano, sospettavano, essi sapevano e si divertivano al mio terrore, così mi parve e lo credo tuttora. Ma tutto era da preferire a quella derisione. Io non ero più capace di sostenere quei loro sorrisi ipocriti. Sentii che mi occorreva gridare, o sarei morto. E intanto, ecco, lo sentite? Ascoltate, si fa più forte! Più forte, più forte, sempre di più! «Miserabili!» gridai. «Smettetela di fingere! Confesso tutto! Togliete lì, quelle assi! È lì sotto! È il suo terribile cuore che batte!»

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Hans Christian Andersen

L’OMBRA (1847)

H.C. Andersen (1805-1875), al di là della sua fortuna nella letteratura infantile, è uno dei grandi autori del racconto meraviglioso ottocentesco, come prova questa storia Costruita con finezza e inventiva straordinarie. L’idea gli venne a Napoli, in una giornata di sole acceso; l’ombra che si stacca dal corpo è uno dei grandi temi dell’immaginazione fantastica, e qui si collega a uno degli aspetti essenziali della psicologia di Andersen: l’amaro pessimismo riguardo se stesso. Fu Adalbert von Chamisso col Peter Schlemihl (1813) a dare la prima insuperabile storia di perdita dell’ombra. Erano gli anni del Faust goethiano e la perdita dell’ombra fu interpretata come perdita dell’anima; ma il simbolo è più indefinibile e complesso: sfuggente essenza della persona, “doppio” che ognuno di noi porta in sé. E.T.A. Hoffmann, che fu sempre ossessionato dall’idea del “doppio”, amò tanto il racconto di Chamisso, che introdusse Peter Schlemihl nelle sue Avventure d’una notte di San Silvestro (1817), facendolo incontrare con un uomo che ha perduto il suo riflesso nello specchio. Il riflesso nello specchio era stato lasciato dal personaggio di Hoffmann presso una donna, incantatrice diabolica, perché potesse continuare il suo amore con lei. Anche l’ombra di Andersen si distacca dalla persona come emanazione del desiderio per star vicino alla fanciulla amata; ma continua la sua vita indipendente facendo fortuna, frequentando il bel mondo, e quando ritrova l’uomo da cui s’è staccata lo obbliga a servirla e a farle da ombra. La situazione dunque si capovolge: l’ombra è un padrone spietato e nemico; il ritrovamento dell’ombra è una condanna. Il simbolo dell’ombra perduta continua a essere presente nella letteratura del nostro secolo (Hugo von Hofmannsthal, La donna senz’ombra). Nei paesi caldi, lì sì che il sole brucia! La gente diventa color mogano, e nei paesi caldissimi diventa addirittura nera, tanto è abbrustolita. Dai paesi freddi, un filosofo era giunto però soltanto nei paesi caldi, e credeva di poter correre in giro come se fosse in patria, ma ne perse ben presto l’abitudine. Anche lui, come tutte le persone ragionevoli, doveva starsene tappato in casa. Persiane e finestre restavano chiuse tutto il giorno; sembrava che l’intera casa dormisse o che fossero tutti usciti. La viuzza stretta stretta dove abitava, coi fabbricati alti alti, era fatta in modo che il sole era costretto a starci dalla mattina alla sera: una cosa proprio insopportabile! Il filosofo dei paesi freddi era giovane, era intelligente, ma gli sembrava di star seduto entro una stufa accesa: questo lo sciupava e lo rese magro magro; persino la sua ombra

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rimpiccioliva, il sole aveva consumato anche lei, l’aveva fatta diventare molto più esile di quel che non fosse al suo paese. Rivivevano tutti e due solo verso sera, dopo il tramonto. Era proprio una gioia vederli: appena il lume veniva portato nella stanza, l’ombra si distendeva sulla parete, raggiungeva persino il soffitto tanto diventava lunga: sentiva proprio il bisogno di stirarsi per riacquistare le forze. Il filosofo usciva sul balcone per sgranchirsi un poco, e a mano a mano che le stelle apparivano in quella meravigliosa limpidità dell’aria, gli sembrava di rinascere. Su tutti i balconi della strada, e nei paesi caldi ogni finestra ha un balcone, usciva gente, perché hanno bisogno d’aria anche quelli che sono abituati ad essere color mogano. Quanta vita, là in alto come giù nella strada! Calzolai e sarti, tutti uscivano dalle case, tiravano fuori tavolini e seggiole, i lumi brillavano, sì, erano più di mille lumi a brillare, e chi parlava, chi cantava, chi andava su e giù passeggiando; passavano carrozze e passavano asinelli: kling, kling, kling, tutti con la sonagliera. I morti venivano accompagnati alla tomba da cortei salmodianti, i monelli sparavano le castagnole e le campane delle chiese suonavano: quanta vita per la strada! Solo nella casa situata proprio dirimpetto a quella dove abitava il filosofo straniero regnava un gran silenzio; eppure era abitata, perché sul balcone c’erano dei fiori che crescevano a meraviglia con tutto quel caldo, non avrebbero potuto esser così senza esser innaffiati, e questo doveva pur farlo qualcuno; vi abitava certo gente. La sera era socchiuso anche il balcone della casa di fronte, ma dentro era buio, o almeno era buio nella stanza davanti, mentre dal di dietro si sentiva venire una musica. Al filosofo straniero quella sembrava veramente straordinaria, ma può anche darsi che fosse frutto della sua immaginazione, dato che lui trovava tutto straordinario laggiù nei paesi caldi; se non fosse stato per il sole! Il padrone di casa dello straniero diceva di non sapere chi avesse preso in affitto la casa di fronte: non si vedeva nessuno e, quanto alla musica, gli sembrava noiosa da morire. È come se uno stesse lì seduto a esercitarsi su di un pezzo senza portarlo mai a termine, sempre lo stesso pezzo. Ha un bel dire che se la caverà; non ci riuscirà mai, per quanto suoni! Una notte lo straniero si svegliò, dormiva col balcone aperto, e il vento ne aveva un po‘ sollevato la tenda, e gli parve che dalla casa di fronte venisse uno strano splendore: tutti i fiori brillavano come fiamme dai più smaglianti colori, e tra di essi c’era una sottile, bellissima fanciulla, e sembrava che risplendesse anche lei. La luce gli ferì gli occhi, ma è anche vero che li teneva così spalancati, si era appena svegliato. Con un balzo fu sul pavimento e si avvicinò pian piano alla tenda; ma la fanciulla non c’era più, non c’era più nemmeno la luce, i fiori non brillavano affatto, ma erano belli come sempre, il balcone era socchiuso e dal fondo risuonava una musica così dolce e

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meravigliosa che a sentirla ci si poteva lasciar andare alle più dolci fantasticherie. Sembrava un incantesimo, ma chi abitava lì? Dov’era il vero ingresso? Il pianterreno era tutto occupato da una fila di botteghe e non era possibile che si dovesse sempre passare per di lì. Una sera lo straniero se ne stava sul balcone e dietro di lui, nella stanza, brillava un lume: era quindi più che naturale che la sua ombra si posasse sul muro dirimpetto; se ne stava seduta proprio tra i fiori, sul balcone, e quando lo straniero si muoveva, si muoveva anche lei, perché succede così. «La mia ombra, credo, è l’unico essere vivente che si veda là» si disse il giovane. «Guarda con che grazia siede tra i fiori! Il balcone è socchiuso e l’ombra dovrebbe avere l’accortezza di andar dentro, di guardarsi un po‘ intorno e di tornare poi a raccontare quello che ha visto. Ti dovresti proprio rendere utile» aggiunse scherzando. «Fammi il piacere di entrare! Su! Va‘ pure dentro!» Fece un cenno all’ombra e quella gli fece un cenno a sua volta. «Su, va‘, ma poi torna!» Così dicendo, lo straniero si alzò, e la sua ombra sul balcone dirimpetto fece lo stesso, poi si volse, e anche quella si voltò: se qualcuno fosse stato bene attento, avrebbe potuto veder chiaramente l’ombra infilarsi attraverso il battente socchiuso del balcone dirimpetto, proprio nel momento in cui lo straniero entrava nella sua stanza, lasciando ricadere la tenda dietro di sé. La mattina dopo lo straniero uscì per prendere un caffè e per leggere i giornali. «Ma che succede?» esclamò non appena fu al sole. «Non ho la mia ombra! Ma allora, ieri se n’è andata davvero e non è più tornata: è una bella seccatura!» La cosa lo irritò, non tanto perché quella era sparita, quanto perché sapeva di una storia di un uomo senz’ombra – tutti la conoscevano nei paesi freddi – e se ora fosse tornato a casa e avesse raccontato la sua storia, lo avrebbero accusato di plagio, come se ne avesse avuto bisogno! Decise dunque di non dire nulla, e in questo fu molto saggio. La sera tornò sul balcone, dopo aver messo per benino la lampada dietro di sé, perché sapeva che l’ombra vuol sempre che il padrone le faccia da schermo, ma non riuscì ad attirarla: si fece piccolo piccolo, si fece lungo lungo, ma di ombre nessuna traccia. Gridò anche: «Ohè, ohè!» ma non servì a nulla. Era una bella seccatura, ma nei paesi caldi tutto cresce così in fretta, e dopo otto giorni poté notare, con sua grande gioia, che, mentre camminava al sole, gli spuntava tra le gambe una nuova ombra: si vede che la radice era rimasta. Dopo tre settimane aveva un’ombra discreta, e quando tornò ai suoi paesi del nord, essa continuò a crescere durante il viaggio, tanto che alla fine fu così grande e grossa che la metà sarebbe bastata. Tornato così in patria, il filosofo scrisse dei libri su quel che c’è di vero, di

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buono e di bello al mondo. Passarono i giorni e passarono gli anni, molti anni. Eccolo lì, una bella sera, nella sua stanza, quando bussarono pian piano alla porta. «Avanti!» disse, ma nessuno entrò, e allora lui aprì la porta e si vide davanti un tipo così magro che ne fu quasi sconvolto. Era vestito con molta eleganza del resto, e certamente doveva essere una persona distinta. «Con chi ho l’onore di parlare?» chiese il filosofo. «Me l’aspettavo» rispose quella persona tanto distinta «che non mi avrebbe riconosciuto! Ora ho preso corpo talmente, ho addirittura carne e vestiti, come gli altri. Lei non avrebbe mai immaginato di potermi vedere in così buone condizioni. Non riconosce la sua vecchia ombra? Pensava certo che non sarei tornata mai più. Gli affari mi sono andati ottimamente da quando l’ho lasciata; ho acquistato molto, in tutti i sensi. Se devo riscattare la mia libertà, ora posso farlo!» e così dicendo agitò tutto un mazzetto di ciondoli preziosi appesi all’orologio e posò una mano sulla pesante catena d’oro che portava al collo: che scintillio di diamanti su tutte le dita! E non c’era nulla di falso. «Non riesco a capacitarmi» disse il filosofo. «Che significa tutto ciò?» «Certo» rispose l’ombra «è una cosa fuor del comune, ma anche lei non è una persona comune, e io, lei lo sa bene, ho seguito le sue orme sin dalla fanciullezza. Non appena lei pensò che io fossi maturo per andarmene solo per il mondo, mi incamminai per la mia strada; ora godo di una posizione molto brillante, ma mi è presa una specie di nostalgia e un gran desiderio di rivederla prima che muoia, perché lei, una volta o l’altra, dovrà pur morire! Desideravo anche di tornare in questi paesi, perché si ama sempre la propria patria! So che ormai le è cresciuta un’altra ombra; debbo qualcosa di indennizzo a lei o a quella? Non ha che da dirmelo!» «Ma sei proprio tu!» esclamò il filosofo. «È una cosa straordinaria! Non avrei mai creduto che la propria ombra potesse tornare, diventata uomo!» «Mi dica dunque cosa le devo pagare» insisté l’ombra «perché non mi va di aver dei debiti!» «Ma come puoi parlare così!» ribatté il filosofo. «Che debiti e non debiti! Sei padrone di te stesso. Mi rallegro moltissimo della tua buona fortuna. Siediti, vecchio mio, e raccontami un po‘ come ti è andata e che cosa hai visto nella casa di fronte, laggiù nei paesi caldi.» «Ora glielo racconterò» disse quella sedendosi «ma lei deve promettermi che non dirà mai a nessuno qui in città, dovunque mi incontri, che sono stata la sua ombra. Ho l’intenzione di fidanzarmi; di famiglie posso mantenerne più di una con i miei mezzi!» «Sta‘ tranquilla!» la rassicurò il filosofo. «Non dirò a nessuno chi sei

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veramente; eccoti la mia mano! Te lo prometto, parola di gentiluomo!» «Parola di ombra!» replicò quella, e non poteva dire altrimenti. D’altra parte era davvero straordinario come era simile a un uomo: era vestita tutta di scuro, con i più fini abiti neri, gli stivaletti lucidi e un cappello a cilindro che si poteva appiattire con un colpo solo, così che diventava solamente fondo e falde, per non parlare di quello che già sappiamo, dei ciondoli, della collana d’oro e degli anelli di diamanti: l’ombra era veramente vestita con grande eleganza, ed era questo a far di lei un uomo in tutto e per tutto. «Ora le racconterò» disse, e intanto poggiò con quanta forza aveva i piedi, con gli stivaletti lucidi, sul braccio della nuova ombra del filosofo, stesa ai suoi piedi come un can barbone; forse lo fece per superbia o forse per riuscire a farsela attaccare ai piedi, ma l’ombra coricata a terra rimase ferma e tranquilla, per poter ascoltare; voleva davvero sentire come si doveva fare per liberarsi e mettersi allo stesso livello del proprio padrone. «Sa chi abitava nella casa di fronte?» domandò l’ombra. «La cosa più bella che esista, la “poesia”! Rimasi lì tre settimane, ed è come se fossi vissuto tremila anni e avessi letto tutte le opere di scrittori e di poeti. Glielo dico io e può star sicuro che è vero! Ho visto tutto e so tutto!» «La poesia!» gridò il filosofo. «Sì, essa è spesso un eremita, nelle grandi città! La poesia! L’ho intravveduta un attimo soltanto, ma mi si chiudevano gli occhi dal sonno. Stava sul balcone, splendente come l’aurora boreale. Racconta, racconta! Tu eri sulla terrazza, sei entrato, e poi…» «Poi mi sono trovato nell’anticamera!» proseguì l’ombra. «E lei è rimasto seduto, a guardare verso di quella. Non c’era luce, ma una specie di penombra, però tutte le porte di una lunga fila di sale e di saloni erano spalancate, e lì sì che ce n’era di luce! Ne sarei stato fulminato se mi fossi spinto sino in fondo, dalla fanciulla, ma io andai cauto, presi tempo; così bisogna fare!» «E poi, che cosa hai visto?» chiese il filosofo. «Ho visto tutto, ora glielo racconterò, ma, non è per superbia, mi creda, libero come sono e con la mia cultura, per non parlare della mia buona posizione, e delle mie splendide condizioni finanziarie, desidererei proprio che mi desse del lei!» «Le chiedo scusa» disse subito il filosofo «è una vecchia abitudine che non riesco a levarmi. Lei ha tutte le ragioni! Me ne ricorderò! Ma ora mi racconti tutto quello che ha visto!» «Tutto!» dichiarò l’ombra. «Perché io ho visto tutto e so tutto!» «E com’erano le sale più interne?» chiese il filosofo. «Sembrava di essere in un bosco fresco o in una chiesa consacrata? O erano come il cielo stellato, quando lo si contempla dall’alto delle montagne?»

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«C’era tutto» rispose l’ombra. «Io veramente non mi sono spinto sino in fondo, ma sono rimasto nell’anticamera, nella penombra, ma ci stavo a meraviglia, e ho visto tutto, so tutto! Sono stato alla corte della poesia, nell’anticamera.» «Ma che cosa ha visto? Passeggiavano forse per le sale tutti gli dèi dell’antichità? Vi combattevano gli antichi eroi? Vi giocavano amabili fanciulli, narrando i loro sogni?» «Le dico che ci sono stato, e lei capirà che devo aver visto tutto quello che c’era da vedere! Se fosse passato lei dall’altra parte della strada, non sarebbe diventato un uomo, ma io sì! Nello stesso tempo, imparai anche a conoscere la mia intima essenza, la mia natura, la parentela che mi legava alla poesia. Quando stavo con lei non ci pensavo, ma, lo sa bene, ogni volta che il sole sorgeva o tramontava, io diventavo stranamente grande, e al chiaro di luna mi si poteva quasi vedere più distintamente di lei, ma io allora non comprendevo affatto la mia natura: tutto mi apparve chiaramente nell’anticamera, e io fui uomo! Ne uscii maturo, ma lei non si trovava più nei paesi caldi e io mi vergognavo di andare in giro a quel modo, come uomo: non avevo né stivali né vestiti, mi mancava tutta quella vernice che rende riconoscibile un uomo. «Allora mi infilai, a lei lo dico, tanto non lo pubblicherà davvero in un libro, sotto il sottanone della vecchia che vendeva i pasticcini all’angolo della strada, e mi nascosi lì, senza che la donna immaginasse neppure che cosa celava; saltai fuori solo la sera e corsi per le strade, al chiaro di luna, e mi allungai su per i muri, cosa che procura un delizioso solletico alla schiena. Corsi in su e in giù, guardai entro le finestre più alte, nei saloni e sopra i tetti, gettai l’occhio dove nessuno riusciva a farlo, vidi quello che nessun altro ha veduto, che nessun altro doveva vedere! Tutto sommato, questo è un ben basso mondo! Non vorrei davvero essere un uomo, se non fosse stato stabilito una volta per sempre che questa è una gran cosa! Vidi azioni addirittura incredibili di donne, di uomini, di genitori e persino di graziosi fanciulli esemplari. Vidi» continuò l’ombra «quello che nessun uomo deve sapere, ma che tutti quanti darebbero chissà che cosa per conoscere, cioè il male del vicino. Se avessi pubblicato un giornale, quello sì che sarebbe stato letto! Ma io scrissi direttamente alle persone interessate, e in ogni città dove andai regnò il terrore. Che paura feci a tutti! E allora mi volevano tanto bene! I professori mi nominarono professore, i sarti mi fecero dei vestiti nuovi, e così fui ben provvisto, il direttore della Zecca fece coniare delle nuove monete apposta per me e le donne dichiararono che ero tanto bello! Così divenni l’uomo che sono. E ora la saluto; ecco il mio biglietto da visita: abito dalla parte del sole, e quando piove sono sempre in casa!» Così detto, l’ombra se ne andò.

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«È veramente un caso straordinario!» esclamò il filosofo. Passarono gli anni e passarono i giorni, e l’ombra tornò. «Come va?» chiese. «Ahimè» rispose l’antico padrone «scrivo intorno al vero, al buono e al bello, ma nessuno ci tiene a sentire cose del genere, e io sono disperato, perché me la prendo tanto a cuore!» «Io no, invece» replicò l’ombra «e mi ingrasso: così bisogna fare! Lei non sa vivere in questo mondo. Andrà a finir male. Dovrebbe muoversi un poco. Io quest’estate farò un viaggio. Vuol venire con me? Sarei molto contento di viaggiare in compagnia! Vuol accompagnarmi, in qualità di ombra? Sarei felice di averla con me, pagherò tutte le spese!» «Mi sembra un po‘ eccessivo!» obiettò l’altro. «Secondo come si prende la cosa» rispose l’ombra. «Le farebbe un gran bene viaggiare un po‘! Se mi vuole fare da ombra, non avrà da pagare un soldo in tutto il viaggio!» «Questo poi è troppo!» «Così va il mondo» sentenziò l’ombra «e così continuerà ad andare» e poi lo lasciò. Al filosofo le cose non andavano bene davvero, era perseguitato dalle noie e dai dispiaceri, e quello che scriveva intorno al vero, al buono e al bello, ai più faceva l’effetto che posson fare alle mucche le rose. Alla fine si ammalò gravemente. «Sembra proprio un’ombra!» gli diceva la gente, e il filosofo rabbrividiva a quell’idea. «Dovrebbe andare in un luogo di cura!» gli consigliò l’ombra che era venuta a fargli visita. «È l’unica cosa da fare! La prenderò con me per amore della nostra vecchia amicizia: io pagherò il viaggio, lei ne scriverà la relazione, e così mi farà un po‘ divertire lungo la strada. Voglio giusto andare in un luogo di cura, la mia barba non cresce come dovrebbe e questa in fondo è una malattia, perché la barba bisogna pure averla! Sia ragionevole, dunque, e accetti la mia offerta: viaggeremo insieme, come due buoni compagni!» E così partirono; l’ombra era il padrone, e il padrone era l’ombra; andarono insieme in carrozza, a cavallo, a piedi, uno accanto all’altro, uno dietro l’altro, a seconda della posizione del sole: l’ombra stava sempre attenta a mettersi dalla parte del padrone, ma il filosofo non badava affatto a queste cose; aveva un gran buon cuore, era mite e gentile, tanto che un giorno disse all’ombra: «Come compagni di viaggio e dato anche che siamo cresciuti insieme sin dalla fanciullezza, non vogliamo darci del tu? Viene tanto più spontaneo!». «È un’idea» disse l’ombra, che ormai era il vero e proprio padrone «espressa con gran benevolenza e grande schiettezza: vorrei poter parlare anch’io con altrettanta benevolenza e altrettanta schiettezza. Da persona colta quale lei è,

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sa certamente come sia strana la natura degli uomini. Alcuni non possono toccare della carta da pacchi senza sentirsi male, altri provano un brivido in tutto il corpo solo a far strisciare una punta contro una lastra di vetro: a me fa un tale effetto quando la sento darmi del tu: mi sembrerebbe di essere schiacciato a terra, nella mia posizione d’una volta. Lei vede bene che si tratta di una sensibilità, e che non è il caso di parlare di superbia; non potendo lasciarmi dare del tu da lei, sarò felice di darle io del tu, così il suo desiderio sarà soddisfatto, almeno per metà.» E così l’ombra diede del tu al suo antico padrone. “È un po‘ forte” pensava quello “che io debba dargli del lei e che lui mi dia del tu” ma ormai non c’era nulla da fare. Giunsero così in un luogo di cura dove si trovavano molti forestieri, e tra questi la bellissima figlia di un re, che aveva la malattia di aver la Vista troppo acuta, cosa molto preoccupante. Ella notò subito che il nuovo arrivato era diversissimo da tutti gli altri: «Dicono che è venuto qui per farsi crescere la barba, ma io vedo bene che la ragione vera è che è senza ombra». Si era così destata la sua curiosità, e durante la passeggiata attaccò subito discorso con il forestiero. Siccome era figlia di un re, non aveva bisogno di fare tanti complimenti e perciò gli disse: «La sua malattia è quella di non essere capace di proiettare un’ombra». «Sua Altezza Reale dev’essere in via di guarigione» rispose quella. «Io so che la Sua malattia consiste nel veder le cose troppo chiaramente, ma ora non è più così! Lei è guarita, perché io ho proprio un’ombra eccezionale! Non vede quel tipo che mi fa sempre compagnia? Ebbene, gli altri hanno un’ombra comune, ma io rifuggo da tutto quello che è comune. Di solito diamo ai nostri servitori delle livree più eleganti dei nostri stessi abiti: allo stesso modo io ho voluto che la mia ombra si vestisse da uomo, lei può vedere che ha persino un’ombra per conto suo. È un lusso che costa caro, ma a me Piace aver qualcosa di diverso dagli altri.» “Ma come” pensò la principessa “possibile che io sia proprio guarita? Ma allora questo luogo di cura è il migliore che esista! L’acqua poi, ai nostri giorni, compie dei veri miracoli! Ma io non voglio andarmene, perché ora comincia il bello! Il forestiero mi piace moltissimo. Basta che non gli cresca la barba, altrimenti se ne va!” La sera, la figlia del re e l’ombra ballarono insieme nel grande salone da ballo. Lei era molto leggera, ma il suo cavaliere era ancor più leggero di lei: un ballerino simile non le era mai capitato. Essa gli disse da che paese veniva, e lui lo conosceva, c’era stato, ma lei a quel tempo era lontana: aveva guardato dentro le finestre dall’alto e dal basso, aveva visto Tizio e aveva visto Caio, e così poteva rispondere alla figlia del re e fare delle allusioni che la stupirono

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non poco: doveva esser l’uomo più saggio del mondo! Fu presa da tanto rispetto per tutto quel che sapeva che al prossimo ballo che fecero insieme se ne innamorò, e l’ombra se ne accorse bene, perché lo guardava fisso fisso, quasi volesse trafiggerlo con lo sguardo. Ballarono insieme ancora una volta, e lei stava quasi per dirglielo, ma era molto giudiziosa, e pensava al suo paese, al suo reame e alla grande quantità di persone delle quali avrebbe dovuto essere a capo. “Saggio lo è di certo” diceva tra sé e sé “e questo va bene; balla splendidamente, e anche questo va bene, ma avrà una solida base culturale? Questo non è meno importante! Dovrò sottoporlo a un esame!” E così cominciò a fargli qualche domanda sugli argomenti più difficili: lei stessa non avrebbe saputo come rispondere, e l’ombra fece una strana smorfia. «Non è capace di rispondere» osservò la principessa. «Ma se son cose che ho imparato da bambino!» asserì quella. «Son sicuro che le sa persino la mia ombra, che sta lì vicino alla porta!» «La sua ombra!» esclamò la principessa. «Questo sarebbe molto strano!» «Non dico che sappia rispondere» continuò l’ombra «ma penso di sì; son tanti anni che mi viene dietro e che mi sta a sentire! Penso proprio di sì! Ma Sua Altezza Reale mi permetta di avvertirla che è diventata tanto superba, a forza di andar in giro vestita da uomo, che per farla stare di buon umore, cosa necessaria perché risponda bene, bisogna trattarla da uomo.» «Che cosa buffa! * esclamò la figlia del re. Poi andò verso il filosofo che stava vicino alla porta, gli parlò del sole, della luna e degli uomini, visti dal di dentro e visti dal di fuori, e quello rispose con garbo e intelligenza. “Che uomo deve essere, se ha un’ombra così sapiente!” pensò. “Sarebbe una vera benedizione per il mio popolo e per il mio regno se lo scegliessi come sposo… e così farò!” I due si misero subito d’accordo, la figlia del re e l’ombra, si intende, ma nessuno ne doveva sapere nulla prima che ella fosse tornata nel suo regno. “Nessuno, neppure la mia ombra!” raccomandò quella, e aveva le sue buone ragioni per dir così. Arrivarono così nel paese dove regnava la figlia del re, quando stava a casa. «Sta‘ a sentire, caro amico» disse l’ombra al filosofo «ora sono giunto al massimo della felicità e della potenza, e voglio fare qualcosa di speciale anche per te! Abiterai sempre con me su al castello, verrai con me nella carrozza reale e avrai centomila talleri all’anno, ma dovrai lasciare che tutti ti chiamino ombra, e non dovrai mai dire di essere stato un uomo, e una volta all’anno, quando siederò al sole sul terrazzo per farmi vedere, dovrai coricarti ai miei piedi, come si conviene a un’ombra. Io sposo la figlia del re, ora te lo posso dire! Stasera saranno celebrate le nozze.» «No, questo poi è troppo!» disse il filosofo. «Non voglio, non lo farò! Questo

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significa ingannare tutto il paese, compresa la figlia del re! Io dirò tutto! Dirò che sono un uomo, e che tu non sei che un’ombra vestita!» «Nessuno ci crederà» replicò l’ombra «sii ragionevole, o chiamo le guardie!» «E io andrò subito direttamente dalla figlia del re!» gridò il filosofo. «Ci vado prima io» esclamò l’ombra «e tu finirai in prigione!» E infatti finì così, perché le guardie obbedirono a chi sapevano avrebbe sposato la figlia del re. «Tu tremi!» esclamò la principessa quando l’ombra entrò da lei. «È successo qualcosa? Non devi ammalarti proprio stasera, che dobbiamo celebrare le nozze.» «Mi è capitata la cosa più spaventosa che possa accadere» rispose quella. «Pensa, è vero che un povero cervello d’ombra non è capace di resistere a lungo, ma pensa! La mia ombra è impazzita, crede di essere un uomo e che io, figurati, sia la sua ombra!» «È terribile!» confermò la principessa. «Ma lo hanno rinchiuso almeno?» «Certamente! Temo però che non riacquisterà più la ragione.» «Povera ombra» sospirò la principessa «sarà certo molto infelice! Credo che sia una buona azione toglierle quel po‘ di vita che le è rimasta; a pensarci bene, sarà necessario liberarci di lei senza tanto chiasso.» «Mi pesa» disse l’ombra. «È stato un fedele servitore!» E tirò una specie di sospiro. «Che carattere nobile!» esclamò la figlia del re. La sera, tutta la città fu illuminata a giorno, i cannoni spararono: bum, bum! e i soldati presentarono le armi. Che nozze! La principessa e l’ombra uscirono sul balcone per farsi vedere, e per farsi acclamare ancora: «Urrà, urrà!». Il filosofo non sentì nulla di tutto questo, perché l’avevano ucciso.

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Charles Dickens

IL SEGNALATORE (The Signal-Man, 1866)

I racconti fantastici di Dickens (1812-1870) sono sparsi nelle piccole riviste di romanzi a puntate e racconti, di cui egli era l’editore e l’autore quasi esclusivo. Così questo che è certamente il suo capolavoro nel genere: The Signal-Man, pubblicato nel 1866 in «All the Year Round». Racconto molto teso e compatto, tutto tra i binari, tutto rumori di treni, tramonti sul desolato paesaggio ferroviario, figure viste in lontananza dalla scarpata. Lo scenario del mondo industriale è entrato nella letteratura: siamo già molto lontani dalle visioni della prima metà del secolo. Il fantastico diventa incubo professionale. «Ehi! Laggiù!» Quando udì la voce che lo chiamava, egli si trovava davanti alla porta della sua cabina, con una bandierina i mano arrotolata intorno all’asticella. Considerato il luogo, si sarebbe potuto credere che non dovesse aver dubbi sulla direzione da cui veniva la voce; ma lui, anziché alzare gli occhi verso il punto dov’ero io, su una ripida altura quasi sopra la sua testa, si voltò dall’altra parte e guardò lungo i binari. C’era qualcosa di strano nel modo in cui lo fece, ma che cosa fosse non avrei saputo dirlo. So solo che lo era al punto da attirare la mia attenzione, anche se la sua figura, in quella fossa profonda, mi appariva minuscola e indistinta e se la mia s’ergeva molto al disopra di lui, talmente impregnata dal bagliore di un rabbioso crepuscolo che, per guardare in basso, avevo dovuto farmi schermo con le mani. «Ehi! Laggiù!» Smise di guardare verso i binari e, voltatosi di nuovo, alzò gli occhi e mi vide in alto sopra di lui. «C’è un sentiero da cui potrei scendere per parlarle?» Mi guardò senza rispondere e io lo guardai a mia volta, senza incalzarlo col ripetere questa oziosa domanda. Proprio in quel momento, si sentì nella terra e nell’aria una vaga vibrazione, che divenne ben presto una pulsazione violenta, e un’ondata sempre più vicina che mi costrinse a rinculare, come se avesse avuto la forza di trascinarmi giù. Quando poi il vapore, che da quel treno rapido si era alzato sino a me, passò oltre e si allontanò rasente al paesaggio, guardai di nuovo in basso e vidi che l’uomo stava arrotolando la bandierina dopo averla sventolata al passaggio del treno. Ripetei la mia domanda. Dopo una pausa, durante la quale parve guardarmi con molta attenzione, indicò con l’asticella della bandierina un punto al mio stesso livello, due o trecento metri più in là. Gli gridai: «Ho capito» e mi

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avviai in quella direzione. A forza di guardarmi attorno, finii col trovare un accidentato sentiero a zig-zag che scendeva quasi a gradini verso i binari; e lo imboccai. Il sentiero era estremamente ripido e insolitamente disagevole. Era stato ricavato da una pietra viscida che, man mano che scendevo, diventava sempre più umida e limacciosa. Per questo motivo, impiegai a percorrerlo un tempo sufficiente a farmi tornare in mente la strana riluttanza, quasi lo sforzo, con cui me l’aveva indicato. Quando poi, su quella discesa a serpentina, arrivai abbastanza in basso per poter vederlo di nuovo, stava tra le rotaie su cui poco prima era passato il treno, con l’aria di attendere il mio arrivo. Teneva la mano sinistra sotto il mento e il gomito sinistro appoggiato sul braccio destro posto trasversalmente al petto. Era un tale atteggiamento d’attesa e di cautela che per un attimo mi fermai perplesso. Ripresi poi a scendere e, mettendo piede al livello dei binari e avvicinandomi a lui, vidi che era un uomo scuro di capelli, con la pelle olivastra, la barba nera e le sopracciglia piuttosto folte. La sua postazione era uno dei luoghi più lugubri e solitari che avessi mai visto. Su entrambi i lati, un gocciolante muro di pietra ruvida escludeva qualsiasi visuale tranne una striscia di cielo; la prospettiva era da una parte un mero tortuoso prolungamento di quella prigione; e nell’altra direzione portava a un triste fanale rosso e all’ancor più triste imbocco di una galleria, la cui massiccia struttura aveva qualcosa di barbaro, di deprimente, di minaccioso. La luce del sole vi penetrava così di rado che tutto era permeato d’un odore di terra morta; e vi irrompeva un vento talmente freddo che mi sentii raggelare come se mi fossi allontanato dal mondo della natura. Prima ancora che lui si muovesse, mi ero avvicinato al punto che avrei potuto toccarlo. Allora, senza mai staccare gli occhi dai miei, arretrò d’un passo e alzò una mano. Era una postazione molto solitaria (dissi) ed era stato questo ad attirare la mia attenzione quando l’avevo vista dall’alto. Un visitatore, immaginavo, doveva essere una rarità; ma non sgradevole, speravo. In me doveva vedere soltanto un uomo che era rimasto chiuso per tutta la vita in uno spazio angusto e che ora, finalmente libero, sentiva un nuovo interesse per le grandi opere pubbliche. Fu più o meno questo che gli dissi; ma non sono per niente sicuro delle parole che usai perché, oltre al fatto che non sono mai a mio agio quando devo avviare una conversazione, c’era in quell’uomo qualcosa che mi turbava. Rivolse un’occhiata davvero molto strana verso il fanale rosso all’imbocco della galleria, e lo scrutò con attenzione come se vi mancasse qualcosa, prima di guardare di nuovo me.

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Quel fanale era sotto la sua responsabilità? O no? Rispose a bassa voce: «Non lo sa che lo è?». Scrutando quegli occhi fissi e quel viso cupo, mi venne la mostruosa idea che non fosse un uomo ma uno spirito. E in seguito mi sono spesso chiesto se non era per caso un malato di mente. Stavolta fu io a indietreggiare. Ma, mentre lo facevo, scorsi nei suoi occhi una latente paura di me. Bastò a mettere in fuga quell’idea mostruosa. «Mi sta guardando» dissi, con un sorriso forzato «come se io le facessi paura.» «Non ero sicuro» replicò «se l’avevo già vista.» «Dove?» Indicò con un dito il fanale rosso che stava guardando poco prima. «Là?» dissi. Fissandomi con attenzione, rispose di sì (senza però emettere suoni). «Ma, amico mio, cosa avrei dovuto farci là? E comunque, io là non ci sono mai stato, può esserne certo.» «Sì, credo di sì» replicò. «Anzi, ne sono sicuro.» I suoi modi divennero più disinvolti, come i miei del resto. Rispondeva alle mie domande con prontezza e con parole appropriate. Aveva molto da fare lì? Sì; o meglio, aveva parecchie responsabilità; ma la precisione e la vigilanza erano le sole cose che gli venivano richieste, e di lavoro vero e proprio – di lavoro manuale – non ne aveva quasi niente. Doveva solo cambiare quel segnale, regolare quei fanali e girare ogni tanto quella manovella di ferro. E a proposito di quelle lunghe ore solitarie cui io sembravo dare tanta importanza, poteva solo dire che la routine della sua vita aveva assunto questa forma e che lui ci si era abituato. Quaggiù aveva persino imparato una lingua – ammesso che si possa usare questo termine quando la si conosce solo di vista e si hanno solo idee rudimentali sulla sua pronuncia. Aveva anche lavorato sulle frazioni e sui decimali, e si era occupato un po‘ di algebra; ma era, e lo era sempre stato sin da ragazzo, ben poco a suo agio con i numeri. Doveva per forza, quando era di turno, rimanere sempre in quel canale d’aria umida senza poter mai salire al sole oltre quegli alti muri di pietra? Be‘, dipendeva dai momenti e dalle circostanze. In certi casi non c’era molto da fare sulla linea, e lo stesso poteva dirsi per certe ore del giorno e della notte. Nelle giornate luminose, approfittava di queste occasioni per sollevarsi un poco da queste ombre; ma, poiché rischiava continuamente di essere chiamato con il campanello elettrico e in questi casi doveva tendere l’orecchio con ansia ancor maggiore, il sollievo era minore di quanto io avrei potuto credere. Mi condusse nella sua baracca, dove c’era un fuoco acceso, un tavolino con un registro su cui doveva fare certe annotazioni, un telegrafo con il suo

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quadrante e i suoi aghi, e il campanello di cui mi aveva parlato. Ed essendomi io augurato che perdonasse la mia osservazione, ma che doveva aver ricevuto una buona educazione, forse al disopra (speravo di poter dirgli senza offenderlo) di questo suo lavoro, osservò che esempi di lieve incongruenza in questo senso abbondavano a suo parere in tutti i grandi gruppi di uomini; che aveva sentito dire che era così negli ospizi, nella polizia e persino in quell’estrema disperata risorsa che è l’esercito; e che sapeva che era più o meno così nel personale di tutte le maggiori compagnie ferroviarie. Da giovane, era stato (se io potevo crederlo vedendolo seduto in quella baracca; lui a crederlo faceva fatica) uno studioso di filosofia naturale e aveva anche seguito dei corsi; ma poi si era lasciato andare, aveva sciupato le sue possibilità ed era crollato per non più rialzarsi. Non si lamentava di questo. Aveva avuto quel che si meritava. Ed era troppo tardi per rimediare. Tutto quello che io ho qui condensato, lo disse in tono pacato, con occhiate tristi e solenni rivolte ora a me e ora al fuoco. Inseriva ogni tanto nel suo discorso la parola “signore”, specialmente quando raccontava della sua giovinezza: come se volesse farmi capire che non pretendeva d’essere niente di diverso da quello che io vedevo. Fu più volte interrotto dal campanello, che lo costringeva a decifrare messaggi e a mandare risposte. A un certo punto, dovette mettersi sulla porta per sventolare la bandierina al passaggio di un treno e scambiare qualche parola col macchinista. Nell’adempimento di questi suoi compiti mi parve singolarmente preciso e attento, pronto sempre a interrompere il suo discorso anche a metà di una parola e a rimanere in silenzio finché non aveva fatto quel che doveva fare. Insomma, lo avrei considerato uno degli uomini più fidati cui si potessero assegnare queste funzioni, se non fosse stato per il fatto che mentre parlava con me lo vidi per due volte interrompersi impallidendo, voltarsi verso il campanello che non stava suonando, aprire la porta della baracca (che teneva generalmente chiusa per proteggersi da quella malsana umidità) e volgere lo sguardo verso il fanale rosso all’imbocco della galleria. In entrambi i casi, tornò accanto al fuoco con quell’espressione inspiegabile che già avevo notato, senza essere in grado di definirla, quando eravamo ancora così lontani l’uno dall’altro. Alzandomi per andarmene, dissi: «Lei mi fa quasi credere di aver conosciuto un uomo soddisfatto». (Devo ammettere, temo, di averlo detto per provocarlo.) «Una volta probabilmente lo ero» replicò con quella voce sommessa con cui aveva pronunciato le sue prime parole «ma ora sono preoccupato, signore; sono preoccupato.» Potendo, avrebbe ritrattato ciò che aveva detto. Ma lo aveva detto, e io m’affrettai a chiedergli:

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«Perché? Cosa la preoccupa?» «È molto difficile spiegarlo, signore. Ed è molto molto difficile parlarne. Ma se lei tornerà a trovarmi, cercherò di dirglielo.» «Ma io intendevo già tornare a trovarla. Quando sarà possibile?» «Io smonto domattina presto e sarò di nuovo di turno domani sera alle dieci, signore.» «Verrò alle undici.» Mi ringraziò e mi accompagnò alla porta. «Terrò accesa la mia lampada, signore» disse in quel suo particolare tono sommesso «finché non avrà trovato la strada per salire. Ma quando l’avrà trovata non dica niente. E non dica niente neanche quando sarà di nuovo lassù.» I suoi modi mi facevano apparire il luogo ancora più freddo, ma mi limitai a dire: «D’accordo!». «E quando tornerà domani sera, non mi chiami. E ora, prima che ci separiamo, posso farle una domanda. Come mai stasera ha gridato: “Ehi, laggiù!”?» «Lo sa il cielo» dissi. «Ho effettivamente gridato qualcosa del genere…» «Non qualcosa del genere. Sono state queste le parole esatte. Ne sono sicuro.» «Ammettiamolo. Le avrò dette perché avevo visto lei quaggiù.» «E per nessun’altra ragione?» «Quale altra ragione avrei potuto avere?» «Non aveva la sensazione che le fossero state comunicate da qualche forza soprannaturale?» «No.» Mi augurò la buona notte e tenne alzata la sua lampada. Io mi avviai a piedi costeggiando i binari (con la sgradevolissima sensazione di aver dietro un treno) finché non trovai il sentiero. Era più facile salire che scendere, e potei tornare alla mia locanda senza altre avventure. Puntuale all’appuntamento, l’indomani posai un piede sul primo gradino del sentiero mentre lontani orologi stavano battendo le undici. Lui mi aspettava in fondo con la lampada in mano. «Non l’ho chiamata» dissi, quando fummo vicini «ma ora posso parlarle?» «Certo, signore.» «Buona sera, allora, ed eccomi qua.» Detto questo, procedemmo affiancati sino alla baracca, entrammo, chiudemmo la porta e ci sedemmo davanti al fuoco. «Ho deciso, signore» cominciò sporgendosi in avanti appena ci fummo seduti e parlando in un tono poco al di sopra di un sussurro «che lei non dovrà chiedermi una seconda volta che cosa mi preoccupa. Ieri l’avevo scambiata per un altro. È questo che mi preoccupa.» «L’essersi sbagliato?»

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«No. L’altro.» «Chi è?» «Non lo so.» «M’assomiglia?» «Non lo so. Non l’ho mai visto in faccia. Se la copre col braccio sinistro e agita il destro in un cenno di saluto. Un cenno violento. Così.» Seguii l’azione con gli occhi, ed era l’azione di un braccio che gesticolava con estrema passione e veemenza. «Si spieghi, per l’amor del cielo!» «Era una notte di luna» disse l’uomo. «Me ne stavo qui seduto quando udii una voce dire: “Ehi, laggiù!?. Sobbalzai, guardai da questa porta, e vidi questo Altro in piedi accanto al fanale rosso all’imbocco della galleria che gesticolava come le ho appena fatto vedere. La voce pareva arrochita a forza d’urlare e gridava: “Attento! Attento!”. E poi di nuovo: “Ehi, laggiù! Attento!”. Presi la mia lampada, la girai sul rosso e corsi verso la figura, gridando: “C’è qualcosa che non va? È successo qualcosa? Dove?”. Stava proprio davanti al buio della galleria. Gli arrivai talmente vicino che cominciai a chiedermi perché si coprisse gli occhi con una manica. Proseguii correndo sino a raggiungerlo e stavo allungando una mano per scoprirgli il volto, quando quella figura scomparve.» «Nella galleria» dissi. «No. Proseguii correndo nella galleria, per mezzo chilometro. Mi fermai e, sollevando la lampada sopra il capo, vidi delle figure a una certa distanza e le macchie d’umido che scendevano lungo le pareti e gocciolavano entro l’arco. Corsi fuori di nuovo, più rapido di come ero entrato (avendo una ripugnanza mortale per quel luogo) e guardai tutt’intorno al fanale rosso con la luce rossa, e salii sulla scala di ferro sopra la galleria e di nuovo scesi e tornai qui di corsa. Telegrafai in entrambe le direzioni. “Ho avuto un segnale d’allarme. C’è qualcosa che non va?” La risposta che mi arrivò da entrambe le parti fu: “Va tutto bene”.» Resistendo al lento tocco di un gelido dito che percorreva la mia spina dorsale, gli spiegai che quella figura poteva essere stata un abbaglio della sua vista e che notoriamente immagini create da disturbi di quei delicatissimi nervi che presiedono alle funzioni dell’occhio avevano spesso preoccupato i pazienti, alcuni dei quali avevano finito per rendersi conto della natura della loro afflizione e l’avevano persino spiegata facendo esperimenti su se stessi. «In quanto al grido immaginario» dissi «provi ad ascoltare il vento in questa valle artificiale mentre noi parliamo così sottovoce, e il suo furioso arpeggiare sui fili del telegrafo.» Tutto questo era giustissimo, replicò, dopo di che rimanemmo per un po‘ in ascolto, e lui che passava lì così spesso lunghe notti d’inverno ad ascoltare e a guardare, del vento e dei fili doveva sicuramente intendersene. Ma mi fece osservare che non aveva ancora finito il suo racconto.

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Gli chiesi scusa e lui, toccandomi un braccio, aggiunse lentamente queste parole: «Meno di sei ore dopo l’Apparizione, ci fu su questa linea un memorabile incidente, e meno di dieci ore dopo i morti e i feriti furono portati fuori della galleria nel punto stesso dove io avevo visto quella figura.» Uno sgradevole brivido mi fece accapponare la pelle, ma mi sforzai di reagire. Si trattava sicuramente, replicai, di una singolare coincidenza, fatta apposta per impressionarlo. Era però indiscutibile che le singolari coincidenze si verificano in continuazione, e che bisogna tenerne conto quando si parla di queste cose. Dovevo però ammettere, aggiunsi (perché mi pareva d’aver capito che stava per farmi questa obiezione), che le persone assennate, nelle normali previsioni sulla vita, delle coincidenze non tengono molto conto. Mi fece di nuovo presente che non aveva ancora finito. E io di nuovo gli chiesi scusa per averlo interrotto. «Questo» disse, posandomi di nuovo una mano sul braccio e guardando altrove con occhi vuoti «è successo un anno fa. Poi passarono sei o sette mesi, e io mi ero ormai ripreso dalla sorpresa e dallo choc quando, una mattina, allo spuntar del giorno, stando su quella porta, guardai verso il fanale rosso e vidi di nuovo lo spettro.» S’interruppe e mi fissò. «Le gridò qualcosa?» «No. Rimase zitto.» «Agitò le braccia?» «No. Stava appoggiato a quella fonte di luce, con le due mani sulla faccia. Così.» Ancora una volta seguii con gli occhi la sua azione. Era un’azione di lutto. Ho visto atteggiamenti simili nelle statue di pietra sulle tombe. «E lei si avvicinò?» «Rientrai qui e mi sedetti, un po‘ per riordinare le idee e un po‘ perché mi sentivo molto debole. E quando tornai sulla porta, era pieno giorno e lo spettro era sparito.» «E poi non successe niente?» Mi toccò un braccio con l’indice due o tre volte, e ogni volta annuì in modo sinistro. «Quel giorno stesso, vedendo uscire un treno dalla galleria, notai a un finestrino dalla mia parte un’apparente confusione di mani e di teste, e qualcosa che ondeggiava. Lo notai appena in tempo per segnalare al macchinista di fermarsi. Lui bloccò il vapore e azionò i freni, ma il treno proseguì per altri centocinquanta metri almeno. Corsi a raggiungerlo e correndo udivo urla e grida terribili. Una bella ragazza era morta all’improvviso in uno degli scompartimenti e la portarono qui e l’adagiarono

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su questo pavimento.» Senza volerlo, tirai indietro la sedia e spostai il mio sguardo dalle assi, che lui mi aveva indicato, al suo viso. «È vero, signore. È vero. È successo proprio come gliel’ho raccontato io.» Non sapevo più cosa dire, in tutti i sensi, e sentivo la bocca completamente arida. Il vento e i fili del telegrafo completarono il suo racconto con un lungo gemito lamentoso. L’uomo riprese: «E adesso signore, stia bene attento, e capirà perché sono così preoccupato. Lo spettro è tornato una settimana fa. E da allora è stato qui ogni tanto, a intervalli irregolari». «Sempre davanti al fanale?» «Al fanale che segna pericolo.» «Cosa le sembra che faccia?» Ripeté, se possibile con ancor più passione e veemenza, il gesto precedente che diceva: “Per l’amor del cielo, sgombra la strada!”. Poi continuò: «Da allora non ho più pace né riposo. Mi urla, per lunghi minuti di fila: “Ehi, laggiù! Attento! Attento!”. Mi fa dei segni. Fa suonare il mio campanello…». A questo punto intervenni. «Lo ha fatto suonare anche ieri sera quando io ero qui e lei è andato alla porta?» «Due volte.» «Be‘ lo vede» dissi «come si lascia fuorviare dalla sua immaginazione? Io avevo gli occhi fissi sul campanello e le orecchie pronte a sentirlo, ma quanto è vero che sono vivo, quelle due volte non ha suonato. Come non ha mai suonato in altri momenti, se non per cause precise quando la stazione doveva comunicarle qualcosa.» Lui scosse il capo. «Su questo non ho mai fatto confusioni, signore. Non ho mai scambiato il tintinnio dello spettro con quello prodotto dall’uomo. Quella dello spettro è una strana vibrazione del campanello che non ha altre origini, e non ho mai detto che si muova in modo visibile. Non mi stupisce che lei non lo abbia sentito. Ma l’ho sentito io.» «E quando guardava fuori, le sembrava che ci fosse lo spettro?» «Non mi sembrava: c’era.» «Entrambe le volte?» Ripeté con fermezza: «Entrambe le volte». «Vorrebbe adesso venire alla porta con me e cercarlo?» Si morsicò il labbro inferiore, come se la cosa non gli garbasse molto, ma finì per alzarsi. Aprii la porta e mi fermai sul gradino, mentre lui stava sulla soglia. C’era il fanale rosso. C’era il lugubre imbocco della galleria. C’erano gli alti e umidi muri di pietra della trincea. E, più in alto, c’erano le stelle. «Lo vede?» gli domandai, osservando con particolare attenzione il suo viso. I suoi occhi erano tesi e sporgenti; ma forse non molto più di quanto lo fossero

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stati i miei quando avevo puntato intensamente il mio sguardo nella stessa direzione. «No» rispose. «Non c’è.» «È vero» dissi. Tornammo dentro, chiudemmo la porta e ci sedemmo di nuovo. Mi stavo chiedendo come sfruttare questo vantaggio, ammesso che si potesse definirlo tale, quando lui riprese a parlare in modo così naturale e con tanta sicurezza del fatto che tra noi non potessero esserci seri motivi di dissenso, da mettermi in una posizione di assoluta debolezza. «A questo punto» disse «lei, signore, avrà ormai capito che ciò che mi preoccupa è questo: cosa intende dirmi lo spettro?» Non ero sicuro, replicai, di averlo realmente capito. «Da che cosa mi mette in guardia?» disse tenendo gli occhi fissi sul fuoco e volgendoli verso di me solo ogni tanto. «Qual è il pericolo? Dov’è il pericolo? C’è un pericolo incombente in qualche punto della linea. Sta per succedere una terribile sciagura. Non si può più dubitarne, dopo quello che è accaduto le due volte precedenti. Ma per me è certamente un’ossessione crudele. Cosa posso fare io?» Trasse di tasca un fazzoletto e si asciugò le gocce di sudore dalla fronte. «Se telegrafassi che c’è pericolo in una delle due direzioni o in entrambe, non potrei indicare una ragione» continuò asciugandosi le mani. «Mi metterei nei guai senza alcun risultato. Mi prenderebbero per matto. Le dico io quel che succederebbe. Messaggio: “Pericolo! Attenzione!”. Risposta: “Quale pericolo? Dove?”. Messaggio: “Non so. Ma, per l’amor del cielo, attenzione!”. Mi licenzierebbero subito. Cos’altro potrebbero fare?» La sua sofferenza mentale era uno spettacolo davvero penoso. Era il tormento di un uomo coscienzioso, oppresso in modo intollerabile da una inintelligibile responsabilità che metteva in gioco delle vite. «La prima volta che si è presentato sotto il fanale rosso» continuò, scostandosi dalla fronte i capelli scuri e passandosi più e più volte le mani sulle tempie in un gesto di estrema angoscia febbrile «perché non mi ha detto dove ci sarebbe stato l’incidente – se doveva esserci? Perché non mi ha detto come evitarlo – se si poteva evitarlo? E la seconda volta perché, invece di nascondersi il viso, non mi ha detto: “Quella donna morirà. Faccia in modo che rimanga a casa”? E se in quelle due occasioni è venuto soltanto per mostrarmi che i suoi avvertimenti erano fondati, perché stavolta non ha parlato chiaro? E io, che il cielo mi aiuti! Un povero segnalatore in questo luogo solitario! Perché non va da qualcuno che abbia un prestigio sufficiente per essere creduto e un potere sufficiente per agire?» Vedendolo in quello stato, capii che per il suo bene, oltre che per la sicurezza generale, la cosa che in quel momento dovevo fare era calmargli i nervi.

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Perciò, trascurando ogni questione di realtà o d’irrealtà, gli spiegai che chiunque faceva sino in fondo il proprio dovere, agiva comunque bene, e che lui poteva almeno consolarsi pensando che si rendeva perfettamente conto dei propri doveri, anche se non capiva quelle sconcertanti Apparizioni. Facendo questo, ottenni risultati ben migliori che se avessi tentato di fargli cambiare idea con dei ragionamenti. Cominciò a calmarsi; e col procedere della notte le incombenze proprie del suo lavoro cominciarono a richiedere sempre di più la sua attenzione. Me ne andai alle due del mattino. Mi ero offerto di restare con lui tutta la notte, ma non volle saperne. Non vedo motivo di nascondere che, arrampicandomi sul sentiero, mi voltai più di una volta a guardare quel fanale rosso, che il fanale rosso non mi piaceva, e che avrei dormito molto male se il mio letto fosse stato posto sotto di esso. Non mi piacevano neanche le vicende dell’incidente e della ragazza morta. Anche questo non vedo motivo di nasconderlo. Ma ciò che occupava soprattutto i miei pensieri era che mi domandavo come dovevo agire, adesso che avevo ricevuto quelle confidenze. Avevo scoperto che l’uomo era intelligente, attento, meticoloso e preciso; ma per quanto tempo sarebbe rimasto tale in quelle condizioni? Nonostante la sua posizione subordinata, aveva compiti estremamente importanti, e a me (per esempio) sarebbe piaciuto mettere in gioco la vita sull’eventualità che continuasse a svolgerli con precisione? Non potendo sormontare la sensazione che avrei tradito la sua fiducia se avessi informato di ciò che mi aveva raccontato i suoi superiori, senza aver prima parlato chiaramente con lui e avergli proposto una soluzione, decisi infine che mi sarei offerto di accompagnarlo (mantenendo con tutti gli altri il suo segreto, almeno per il momento) dal miglior medico della zona e di ascoltare il suo parere. La sera dopo avrebbe cambiato il suo turno di lavoro, mi aveva detto, e sarebbe smontato un’ora o due dopo l’alba per riprendere subito dopo il tramonto. Avevo stabilito di tornare a quell’ora. Quella dell’indomani fu una sera incantevole e io uscii presto a piedi per godermela. Non era ancora tramontato il sole quando percorsi il viottolo che costeggiava la parte più alta di quella profonda trincea. Decisi di camminare ancora per un’ora, mezza per andare avanti e mezza per tornare indietro, in attesa del momento di scendere alla baracca del mio segnalatore. Ma prima di continuare la passeggiata, mi spostai sull’orlo e guardai meccanicamente in basso, da dove lo avevo visto la prima volta. Non sono in grado di descrivere il brivido che sentii quando, vicino all’imbocco della galleria, scorsi la parvenza di un uomo che, coprendosi gli occhi con la manica sinistra, agitava appassionatamente il braccio destro. L’orrore senza nome che mi prese si dissolse un attimo dopo, perché un attimo dopo vidi che quella parvenza d’uomo era in realtà un uomo, e che a

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poca distanza c’era un gruppetto di altri uomini, ai quali lui pareva ripetere lo stesso gesto. Il fanale rosso non era ancora stato acceso e contro il suo palo di sostegno era stata eretta una piccola e bassa tenda con supporti di legno e tela cerata, che io non avevo mai visto. Sembrava non più grande di un letto. Con la sensazione irresistibile che fosse successo qualcosa di brutto – con la lampeggiante paura di aver commesso un errore fatale abbandonando lì quell’uomo senza avvertire nessuno perché venisse a controllare o a correggere ciò che faceva – scesi quello scosceso sentiero alla massima velocità che mi fu possibile. «Cosa è successo?» domandai agli uomini. «Un segnalatore è rimasto ucciso stamattina, signore.» «Quello che stava in quella baracca?» «Sì, signore.» «L’uomo che io conosco?» «Se lo conosceva, signore, sarà in grado di riconoscerlo» disse l’uomo, che parlava anche a nome degli altri, scoprendosi solennemente il capo e sollevando un lembo della tela cerata «perché il suo viso è rimasto relativamente intatto.» «Ma come è successo? Come è successo?» domandai, rivolgendomi ora all’uno ora all’altro, mentre la tenda veniva richiusa. «È stato investito da una locomotiva, signore. Non c’era uomo in Inghilterra che conoscesse meglio il suo lavoro. Ma chissà perché non ha badato al binario esterno. Era pieno giorno. Aveva acceso il fanale e teneva in mano la sua lampada. E quando la locomotiva uscì dalla galleria, lui le voltava le spalle e ne è stato investito. Quello era l’uomo che la guidava e ci stava mostrando come è successo. Mostralo anche a questo signore, Tom!» Il macchinista, che indossava una ruvida tuta scura, tornò al posto di prima, all’imbocco della galleria. «Uscendo dalla curva nella galleria, signore» disse «l’ho visto in fondo come se lo guardassi con un cannocchiale. Non avevo più il tempo di rallentare e sapevo che era un uomo molto prudente. E siccome sembrava non aver sentito il fischio, avvicinandomi lo smorzai e lo misi in guardia gridando con tutte le mie forze.» «Cosa gli ha detto?» «Gli ho detto: “Ehi, laggiù! Attento! Attento! Per l’amor del cielo, sgombra la strada!”.» Sussultai. «Oh, è stato un momento terribile, signore. Non smisi mai di gridare. Poi per non vedere mi misi questo braccio davanti agli occhi e agitai quest’altro sino alla fine; ma non servì a niente.» Senza prolungare questo racconto per soffermarmi su qualcuna di queste

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strane circostanze a scapito di altre, posso concludere notando questa coincidenza: nell’avvertimento del macchinista erano incluse non soltanto le parole che il povero segnalatore mi aveva riferito come quelle che lo ossessionavano, ma anche le parole che io – e non lui - avevo attribuito – e solo mentalmente – ai gesti da lui imitati.

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Ivan Turgenev

IL SOGNO (Son, 1876)

Turgenev (1818-1883) non può essere detto uno scrittore fantastico; i suoi racconti che possono definirsi tali si contano sulle dita d’una mano. Il sogno è un racconto d’un’ambiguità perfetta, sospeso nell’incertezza se il personaggio misterioso sia morto o vivo, incertezza che continua nella bellissima scena finale del corpo sulla spiaggia coperta d’alghe. Oltre a costituire un esempio di modernità psicologica raro in quell’epoca (preannuncio di temi che la psicoanalisi renderà canonici), questo racconto ci presenta uno dei rari casi di sogno raccontato da uno scrittore che somigli ai sogni che si fanno davvero.

I Vivevo a quel tempo con mia madre in una piccola città marittima. Avevo compiuto diciassette anni, e mia madre non ne aveva ancora trentacinque: si era sposata molto giovane. Quando morì mio padre, io avevo soltanto sei anni, ma di lui mi ricordo benissimo. La mia mamma era una donna piccolina di statura, bionda, con un viso incantevole ma sempre melanconico, con una voce sommessa e stanca, e i gesti timidi. In gioventù era famosa per la sua bellezza e sino alla morte rimase attraente e simpatica. Non avevo mai veduto occhi più profondi, più dolci e più tristi e capelli più morbidi e fini e mani più belle. Io l’adoravo e lei mi amava… ma la nostra vita non trascorreva lieta: pareva che un misterioso, immeritato e insanabile dolore rodesse continuamente le più intime profondità della vita di lei. Questo dolore non poteva spiegarsi soltanto con la mancanza di un padre, per quanto questa fosse sensibile e mia madre avesse amato appassionatamente il marito e ne serbasse un sacro ricordo… No! Doveva esserci qualcosa d’altro che, pur sfuggendomi, intuivo, intuivo confusamente ma intensamente, non appena guardavo quegli occhi immobili e dolci, quelle labbra bellissime anch’esse immobili, non soltanto serrate con amarezza ma come se fossero state impietrite per sempre. Ho detto che mia madre mi amava; c’erano però momenti nei quali essa mi respingeva e la mia presenza le riusciva penosa, e addirittura insopportabile. Pareva che allora provasse per me un’involontaria avversione, di cui però sentiva poi orrore, e allora se ne incolpava piangendo e mi stringeva forte al cuore. Io attribuivo quei momentanei scatti ostili alla sua malferma salute, alla sua infelicità… È vero che questi sentimenti avrebbero potuto sino a un

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certo punto essere provocati da non so quali strani e anche per me incomprensibili miei scatti di malevolenza e anche delittuosi che a tratti sorgevano in me… Però questi miei scatti non concordavano coi momenti di avversione di mia madre. Mia madre vestiva sempre di nero come se fosse in lutto. Conducevamo una vita abbastanza agiata, senza però frequentare nessuno.

II Mia madre aveva concentrato su me tutti i suoi pensieri e le sue preoccupazioni. La sua vita era intimamente fusa con la mia. Un tal genere di rapporti tra genitori e figli non giova sempre a questi ultimi: sono anzi piuttosto dannosi. Io ero figlio unico e i figli unici di solito hanno uno sviluppo mentale diverso da quello degli altri ragazzi. I genitori, educandoli, si preoccupano di loro quanto di se stessi… E questo non va. Io non sono cresciuto viziato né cattivo (cose che accadono ai figli unici), ma i miei nervi in quel periodo si sono guastati; inoltre la mia salute era piuttosto cagionevole, come quella della mamma alla quale rassomigliavo molto anche nei tratti del volto. Sfuggivo la compagnia dei miei coetanei; schivavo, in genere, la gente ed ero persino taciturno con mia madre. Soprattutto mi piaceva leggere, passeggiare solo e sognare… sognare! È difficile dire quali fossero i miei sogni: mi pareva talvolta di trovarmi davanti a una porta socchiusa, dietro la quale si nascondessero misteriosi segreti. Stavo lì e aspettavo languendo senza varcare la soglia di quella tal porta, sempre pensando a ciò che sì trovava davanti a me… E sempre aspettavo sentendomi venir meno o mi addormentavo… Se avesse in me palpitato una vena poetica, probabilmente avrei cominciato a scrivere versi; se avessi sentito inclinazione per la religione forse mi sarei fatto monaco. Ma nulla in me c’era di tutto questo e io continuavo a sognare e ad aspettare.

III Poco fa ricordai che talvolta io mi addormentavo sotto l’impressione di fantasie e di pensieri vaghi. In genere dormivo molto e i sogni rappresentavano nella mia vita una parte importante. Sognavo quasi ogni notte. E questi sogni non li dimenticavo, davo loro un significato, li consideravo predizioni, cercavo di indovinare il loro misterioso significato: alcuni di essi si ripetevano di tanto in tanto, il che sempre mi appariva strano, strano e straordinario. Uno in particolare mi turbava. Mi pareva di procedere per una strada stretta e mal lastricata di un’antica città in mezzo a case di pietra a molti piani e con i tetti aguzzi. Sto cercando mio padre che non è morto, ma chi sa perché si nasconde a noi e vive proprio in una di quelle case. Ed ecco varco un portone basso e scuro, attraverso un lungo cortile,

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ingombro di travi e di assi ed entro, infine, in una piccola cameretta con due finestre rotonde. In mezzo alla stanza sta in piedi mio padre in veste da camera e fuma la pipa. Non assomiglia per nulla al mio vero padre: è alto, magro, dai capelli neri e il naso aquilino, ha occhi cupi e penetranti. Dimostra una quarantina d’anni. Non è contento che io l’abbia trovato e neppure io gioisco del nostro incontro e rimango perplesso. Egli si volta leggermente da una parte, comincia a borbottare non so cosa e cammina su e giù a piccoli passi… Poi a poco a poco si allontana, senza smettere di borbottare e guardando continuamente indietro, al di sopra delle spalle. La stanza si allarga e si dissolve in una nebbia… Improvvisamente mi atterrisce il pensiero di perdere di nuovo mio padre: mi slancio dietro di lui, ma non lo vedo più e non odo altro che il suo brontolio irritato, da orso… Il cuore mi viene meno: mi sveglio e per un pezzo non riesco più a prender sonno… Per tutto il giorno successivo ho in mente questo sogno e, naturalmente, non riesco a spiegarlo.

IV Ecco arrivato il mese di giugno. La città in cui vivevo con mia madre in quel periodo si animava in modo straordinario: moltissime navi giungevano nel porto e moltissime facce nuove comparivano per le strade. Mi piaceva allora gironzolare lungo il mare, davanti ai caffè e agli alberghi, osservando marinai e altri tipi di ogni specie, seduti sotto tettoie di tela, di fronte a piccoli tavolini bianchi con brocche di latta piene di birra. Ed ecco che un giorno, passando davanti a un caffè, scorsi un uomo che immediatamente attirò sopra di me tutta la mia attenzione. Vestito di una lunga casacca nera, con un cappello nero calcato sugli occhi, stava seduto immobile con le braccia conserte. Rade ciocche di capelli neri gli cadevano sin quasi sul naso: le labbra sottili serravano il bocchino di una corta pipa… Quell’uomo mi parve talmente conosciuto, ogni lineamento del suo scuro viso giallastro, tutta la sua figura era a tal punto impressa nel mio ricordo che non potei fare a meno di fermarmi davanti, e non potei non farmi questa domanda: chi è quell’uomo? Dove l’ho visto? Quegli, sentendo probabilmente la fissità del mio sguardo, alzò su me i suoi occhi neri, pungenti… senza volerlo feci un’esclamazione di meraviglia… Quell’uomo era quel padre che io cercavo e che avevo veduto in sogno! Non era possibile che mi sbagliassi: la somiglianza era troppo evidente. Sì, sì, persino quel casaccone a larghe falde che copriva il magro corpo di lui ricordava per il colore e per la foggia quella veste da camera in cui mi era apparso mio padre… “Sogno io forse?” pensai. “No… È giorno, tutt’attorno rumoreggia la folla, il sole splende vivissimo nel cielo azzurro e davanti a me non esiste un

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fantasma, ma un uomo reale. ” Mi accostai a un tavolino libero, chiesi un bicchiere di birra, un giornale e mi sedetti poco lontano da quell’essere misterioso.

V Sempre col giornale appiccicato al viso continuai a divorare con gli occhi lo sconosciuto. Egli stava quasi immobile e solo a tratti sollevava il capo quasi costantemente abbassato. Era ovvio che aspettava qualcuno. Io continuavo a guardare, a guardare… a momenti mi pareva che tutto fosse frutto della mia immaginazione, che non esistesse alcuna somiglianza e che io fossi preda di un involontario inganno della mia fantasia… ma quando quello improvvisamente si voltava un po‘ sulla sedia o sollevava leggermente le mani, dovevo di nuovo trattenermi a stento dal fare un’esclamazione di meraviglia e di nuovo vedevo davanti a me il mio padre “notturno”. Egli, infine, si accorse della mia insistente osservazione e prima con stupore, poi con stizza, guardando verso di me, mentre era già in procinto di alzarsi fece cadere un piccolo bastoncino che aveva appoggiato al tavolo. Balzai immediatamente in piedi, raccolsi il bastone e glielo porsi. Il cuore mi batteva forte. Egli sorrise forzatamente, mi ringraziò e avvicinando il suo viso al mio, sollevò le sopracciglia e socchiuse un po‘ le labbra, come se qualcosa l’avesse colpito. «Siete molto cortese, giovane signore» prese a dire con voce nasale, brusca e asciutta. «Oggigiorno è una cosa assai rara. Permettete che mi rallegri con voi: avete avuto una buona educazione.» Non ricordo con esattezza che cosa gli risposi, ma tra di noi s’intrecciò una conversazione. Venni a sapere che era un mio connazionale, tornato da poco dall’America dov’era vissuto per molti anni e dove si preparava a far ritorno. Disse di essere il barone…, ma non riuscii a capire bene il nome. Egli come il mio padre “notturno” terminava ogni sua frase con un incomprensibile borbottio interno. Volle sapere il mio cognome… Uditolo che l’ebbe, parve di nuovo stupirsi; poi mi chiese se abitassi in quella città da molto tempo e con chi. Gli risposi che vivevo con mia madre. «E vostro padre?» «Mio padre è morto molto tempo fa.» Egli volle sapere il nome di battesimo di mia madre e subito scoppiò in una goffa risata di cui si scusò dicendo che questa era un’abitudine americana e che del resto egli era un grande originale. Quindi volle sapere dove si trovasse il nostro appartamento. Glielo dissi.

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VI L’agitazione che si era impadronita di me all’inizio della nostra conversazione a poco a poco si calmò; considerai la nostra conoscenza un po‘ strana… e nient’altro. Non mi piaceva il sorrisetto col quale mi interrogava il signor barone e non mi piaceva neppure l’espressione dei suoi occhi quando pareva conficcarli in me… In essi c’era qualcosa di feroce e di protettivo insieme… qualcosa che metteva paura. Quegli occhi in sogno non li avevo veduti. Che viso strano aveva il barone! Appassito, stanco, e nello stesso tempo giovanile, ma giovanile in modo antipatico! Il mio padre notturno non aveva neppure quella profonda cicatrice che attraversava di sbieco tutta la fronte del mio nuovo conoscente e che non avevo notato sino a quando non mi ero maggiormente avvicinato a lui. Avevo appena comunicato il nome della strada e il numero della casa in cui abitavamo, che un negro di alta statura, avvolto sino alle sopracciglia in un mantello, si avvicinò a lui da dietro e gli batté leggermente su una spalla. Il barone si voltò e disse: «Ah, finalmente!» e, dopo avermi fatto un lieve cenno del capo, si diresse col negro verso l’interno del caffè. Rimasi sotto la tettoia per osservare l’uscita del barone, non tanto per riprendere la mia conversazione con lui (non sapevo veramente di che cosa avrei potuto parlare) quanto per verificare di nuovo la mia primitiva impressione. Ma passò mezz’ora… passò un’ora… Il barone non compariva. Entrai nel caffè, percorsi tutti i locali ma non trovai tracce né del barone né del negro… Entrambi si erano forse allontanati per la porta posteriore… Cominciai a sentirmi un po‘ male di capo e, per prendere una boccata d’aria, mi diressi sul lungomare sino a un vasto parco suburbano, piantato circa duecento anni addietro. Dopo aver passeggiato per circa due ore all’ombra di platani e querce gigantesche, tornai a casa.

VII Appena entrai in anticamera, la nostra cameriera mi si precipitò incontro, tutta allarmata. Dall’espressione del suo viso indovinai subito che durante la mia assenza doveva essere accaduto in casa qualcosa di brutto. E seppi infatti che un’ora prima, nella camera da letto di mia madre, era risonato un terribile grido; la cameriera accorsa aveva trovato mia madre in terra, colta da uno svenimento che era durato qualche minuto. La mamma aveva poi ripreso i sensi, ma era stata costretta a coricarsi e aveva un aspetto strano e spaurito; non parlava, non rispondeva alle domande e continuava a guardarsi attorno e a rabbrividire. La cameriera aveva mandato il giardiniere a chiamare il dottore. Questi era giunto, aveva prescritto un calmante, ma neanche a lui essa aveva voluto dir nulla. Il giardiniere assicurava che, qualche minuto dopo il grido che era risonato in camera della mamma, egli aveva veduto uno

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sconosciuto attraversare di corsa le aiuole del giardino e dirigersi verso il cancello che dava sulla strada. (Abitavamo in una casa a un solo piano, con le finestre che guardavano in un giardino piuttosto grande.) Il giardiniere non era riuscito a vedere bene il volto di quell’uomo che era magro, con un cappello di paglia molto calcato sul capo e una giacca dalle falde lunghe. “È il vestito del barone!” mi passò in mente come un lampo. Il giardiniere non poté raggiungerlo e, d’altra parte, era stato subito chiamato in casa a cercare del dottore. Entrai in camera della mamma: era a letto, più pallida del guanciale sul quale posava il capo. Riconosciutomi, mi sorrise debolmente e mi tese la mano. Mi sedetti accanto a lei e cominciai a farle delle domande: da principio non voleva parlare, ma alla fine confessò di aver veduto qualcosa che l’aveva atterrita. «È entrato qualcuno?» le domandai. «No» mi rispose in fretta. «Non è entrato nessuno, ma ho avuto questa impressione, mi è sembrato…» Poi tacque e si coprì gli occhi con una mano. Stavo per dirle ciò che avevo saputo dal giardiniere e raccontarle anche il mio incontro col barone, ma, chi sa perché, le parole morirono sulle mie labbra… Decisi però di far notare alla mamma che di solito i fantasmi non appaiono di giorno. «Smettila, ti prego» sussurrò lei. «Non tormentarmi, ora. Un giorno saprai…» E di nuovo tacque. Le sue mani erano gelide e il polso batteva rapido e irregolare. Le feci bere la medicina e mi scostai un po‘ per non disturbarla. Per tutto il giorno rimase a letto. Giaceva immobile e silenziosa; solo a tratti sospirava profondamente e apriva spaventata gli occhi. Tutti in casa eravamo pieni di perplessità.

VIII Durante la notte la mamma fu colta da una leggera febbre e mi fece uscire. Io però non andai in camera mia, ma mi sdraiai sul divano nella camera vicina. Ogni quarto d’ora mi alzavo, mi avvicinavo in punta di piedi alla porta e ascoltavo. Tutto era silenzio, ma credo che mia madre non abbia dormito per l’intera notte. Quando la mattina presto entrai da lei il suo viso era accaldato, gli occhi splendevano di una luce innaturale. Durante il giorno si sentì un po‘ meglio, però verso sera di nuovo la febbre crebbe. Sino ad allora ella si era chiusa in un ostinato silenzio ma poi d’un tratto prese a parlare con una voce spezzata e rapida. Non delirava, le sue parole erano spezzate e fra esse non c’era alcun legame. Poco prima della mezzanotte ella si sollevò con un moto convulso (ero seduto accanto a lei) e sempre con voce rapida, bevendo senza posa sorsi d’acqua dal bicchiere, agitando debolmente le mani e senza mai

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guardare, cominciò a raccontare… Si fermava, faceva uno sforzo su se stessa e riprendeva… Era una cosa così strana che pareva avvenisse in sogno, come se lei fosse assente, come se qualcun altro parlasse per sua bocca o la costringesse a parlare.

IX «Ascolta ciò che sto per dirti» cominciò. «Non sei più un bambino, ormai, devi sapere tutto. Io avevo una buona amica… Ella sposò un uomo che amava con tutto il cuore e fu molto felice con suo marito. Durante il primo anno di matrimonio andarono tutti e due nella capitale per trascorrervi qualche settimana e divertirsi. Presero alloggio in un bell’albergo e frequentarono molti teatri e riunioni. La mia amica era molto graziosa; tutti la notavano e i giovanotti le facevano la corte. Tra di essi c’era un… ufficiale. Questi la seguiva dappertutto e dovunque ella andasse vedeva gli occhi neri e malvagi di lui. L’ufficiale non fece conoscenza con lei e non le parlò mai: si limitava a guardarla sempre in modo insolente e strano. Tutti i piaceri della vita della capitale erano amareggiati dalla sua presenza; ella cominciò a pregare il marito di affrettare la partenza e già erano in procinto di mettersi in viaggio. «Una sera suo marito si recò al club: era stato invitato per una partita a carte da alcuni ufficiali dello stesso reggimento cui apparteneva anche quell’ufficiale… Ella rimase sola per la prima volta. Il marito tardava a rientrare, ella allora licenziò la cameriera e andò a dormire… D’un tratto provò un senso di raccapriccio e si sentì presa dal freddo e da un violento tremito. Le era parso di udire un leggero rumore dietro la parete come un cane che raschiasse e volse gli occhi verso quella parte. In un angolo ardeva un lumino; la stanza era tutta rivestita di stoffa… D’improvviso qualcosa si mosse in quel punto, si sollevò, si aprì… E dalla parete, tutto nero e lungo, uscì quell’uomo spaventoso dagli occhi malvagi! Volle gridare ma non poté. Si sentì venir meno della paura. Egli le si accostò rapidamente, come una bestia selvaggia e le buttò sul capo qualcosa di soffocante, di pesante, di bianco… che cosa sia accaduto, poi, non ricordo… non ricordo! Qualcosa che pareva una morte, un’uccisione… Quando finalmente si disperse quella nebbia spaventosa, quando io… cioè quando la mia amica tornò in sé, nella stanza non c’era più nessuno. Per un bel pezzo non ebbe forza di gridare… finalmente ci riuscì… ma poi di nuovo tutto si confuse davanti a lei… «Poi vide accanto a sé il marito che era stato trattenuto al club sino alle due di notte… Aveva il viso stravolto. Cominciò a interrogarla, ma non gli disse nulla… Poi si ammalò… Ricordo però che, rimasta sola nella stanza, ella guardò quel punto della parete… Sotto la rivestitura apparve una porta segreta. E dalla sua mano era scomparso l’anello di fidanzamento, un anello

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di fattura tutta particolare: sette stelline d’oro si alternavano a sette stelline d’argento. Era un vecchio gioiello di famiglia. Il marito le chiese che cosa fosse accaduto dell’anello, ma ella non poté rispondere nulla. Egli pensò che l’avesse perso, lo cercò ovunque ma non riuscì a trovarlo da nessuna parte. Fu assalito da un senso di angoscia e decise di tornare al più presto a casa e, non appena il dottore lo consentì, essi abbandonarono la capitale… Ma figurati! Il giorno stesso della loro partenza s’imbatterono per strada in una barella in cui giaceva un uomo ucciso con la fronte spaccata e… figurati! quell’uomo era precisamente il terribile visitatore notturno dagli occhi malvagi: era stato ucciso durante una partita a carte! «La mia amica si recò poi in campagna… divenne madre per la prima volta… e visse alcuni anni col marito. Egli non seppe mai nulla, ma che cosa ella avrebbe potuto dirgli? Lei stessa non lo sapeva. «Però la felicità di prima scomparve. Nella loro vita si fece il buio ed essi non riuscirono più a dissiparlo. Loro due non avevano avuto figli; e non ne ebbero dopo… E quel figlio!…» La mamma, tutta scossa da un tremito, si coprì il viso con le mani. «Dimmi ora» proseguì, con forza raddoppiata «la mia amica è forse colpevole? Poteva rimproverarsi qualche cosa? Ella era stata punita, ma non era forse in diritto di dichiarare davanti a Dio che il castigo che l’aveva colpita era ingiusto? E allora perché a lei, come a una delinquente straziata da rimorsi di coscienza, perché il passato doveva affacciarsi dopo tanti anni in modo così terribile? Macbeth aveva ucciso Banco e non ci si stupisce che potesse avere delle visioni… ma io…» A questo punto il racconto della mamma si fece talmente confuso e aggrovigliato che non compresi più nulla… ma ormai ero certo che essa non delirava.

X Quale sconvolgente impressione abbia prodotto su me il racconto di mia madre ciascuno potrà facilmente comprendere! Dalle prime sue parole ho indovinato che essa parlava di sé e non di una conoscente; l’errore sfuggitole di bocca non aveva fatto che confermare quello di cui ero quasi sicuro. Forse era proprio mio padre quello che io ritrovavo in sogno, che io avevo veduto nella realtà! Non era morto, come credeva la mamma, ma era stato soltanto ferito… Ed egli era tornato da lei, ma era fuggito, spaventato dal terrore che aveva destato… Tutto mi fu improvvisamente chiaro: e compresi allora quel senso di involontaria avversione verso di me che sorgeva talvolta in mia madre e la sua perenne tristezza e la nostra vita solitaria… Ricordo che cominciai a sentire che la testa mi girava… e l’afferrai con tutte e due le mani come per trattenerla ferma. Ma un pensiero vi si era fitto come un chiodo:

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avevo deciso che, a qualsiasi costo, avrei ritrovato quell’uomo! Perché? A quale scopo? Non me ne rendevo conto, ma ritrovarlo, ritrovarlo era divenuto per me questione di vita o di morte! Il mattino seguente la mamma si era finalmente calmata, la febbre era scomparsa ed essa aveva preso sonno. Dopo averla raccomandata alle cure dei miei padroni di casa e dei servi, iniziai le ricerche.

XI Mi diressi anzitutto, com’è logico, al caffè dove avevo incontrato il barone; ma nel caffè nessuno lo conosceva e gli aveva mai fatto caso; era un avventore casuale. Il negro invece era stato notato dal proprietario (la sua figura saltava troppo agli occhi) ma non sapevano chi fosse, dove abitasse e nessuno fu in grado di darmi alcuna indicazione. Dopo aver lasciato, per qualsiasi evenienza, il mio indirizzo al caffè, cominciai a percorrere le strade e il lungomare nelle vicinanze del porto, i viali, guardai in tutti i locali pubblici, ma in nessuna parte trovai alcuno che assomigliasse al barone o al suo compagno… Poiché non avevo inteso bene il nome del barone, mi mancò la possibilità di rivolgermi alla polizia; tuttavia informai due o tre tutori dell’ordine pubblico (a dire il vero mi guardarono con un certo stupore e non credettero affatto alle mie parole) e promisi che avrei ricompensato generosamente il loro zelo se fossero riusciti a trovare le tracce dei due individui, la cui descrizione cercai di fare nel modo più preciso possibile. Dopo aver continuato le mie ricerche sino all’ora di pranzo, tornai a casa, sfinito dalla stanchezza. La mamma si era alzata da letto: ma in quel senso di consueta tristezza si era inserito un non so che di nuovo, quasi un’incertezza pensosa che mi feriva il cuore come una lama di coltello. La sera mi posi a sedere accanto a lei. Non ci scambiammo alcuna parola: essa disponeva le carte per un solitario ed io in silenzio seguivo il suo giuoco. Non fece il minimo accenno né al suo racconto né a ciò che era accaduto la vigilia; come se ci fossimo segretamente messi d’accordo per non sfiorare neppure quei paurosi e strani avvenimenti… Pareva che lei provasse un senso di irritazione contro se stessa e di vergogna, per quanto si era involontariamente lasciata sfuggire; e, probabilmente, non ricordava bene quanto aveva detto in quel semidelirio e sperava che io la risparmiassi… E in realtà io lo facevo e lei lo sentiva: come la sera prima, cercava di evitare il mio sguardo. Non potei chiuder occhio per tutta la notte. Fuori si era improvvisamente scatenata una tempesta. Il vento urlava e soffiava furioso, facendo tintinnare i vetri delle finestre; per l’aria correvano fischi striduli e disperati, come se qualcosa su in alto si lacerasse e con un pianto sfrenato passasse sopra le case sussultanti. Poco prima dell’alba mi assopii… e subito provai l’impressione che qualcuno entrasse nella mia stanza e mi chiamasse, pronunziando a voce

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bassa ma ferma il mio nome. Sollevai il capo e non vidi nessuno; ma strano! Non solo non mi spaventai ma mi sentii invaso da un senso di gioia; in me era nata la certezza che avrei senza fallo raggiunto il mio scopo. Mi vestii in fretta e uscii di casa.

XII La tempesta si era placata… ma si sentivano ancora gli ultimi suoi fremiti. Era ancora presto: non c’era ancora gente per le strade e in molti posti giacevano mucchi di rottami di camini, di mattoni, assi di steccati sparpagliate qua e là, rami divelti… “Che mai sarà accaduto questa notte in mare!” mi venne da pensare alla vista delle tracce lasciate dalla tempesta. Avrei voluto andare al porto, ma le mie gambe, come se ubbidissero a un’irresistibile forza, mi portarono da un’altra parte. Non erano trascorsi dieci minuti che già mi trovavo in una zona della città che non avevo mai visitato. Non camminavo in fretta; procedevo senza fermarmi, un passo dopo l’altro, con una strana sensazione in cuore: attendevo qualcosa di straordinario, di impossibile e nello stesso tempo ero certo che questa impossibile cosa sarebbe avvenuta.

XIII Ed ecco che l’impossibile, l’inatteso si verificò! D’un tratto, a una ventina di passi da me, scorsi il negro che nel caffè aveva parlato col barone in mia presenza! Avvolto nello stesso mantello che già gli avevo veduto addosso, come se sbucato di sottoterra e volgendomi le spalle, camminava a passo svelto sullo stretto marciapiede di una stradina tortuosa. Mi lanciai immediatamente dietro al negro, ma lui raddoppiò il passo e senza voltarsi svoltò all’improvviso dietro l’angolo di una casa che sporgeva. Io raggiunsi di corsa l’angolo e lo doppiai con la stessa velocità di quell’uomo… Che miracolo! Dinanzi a me si stendeva una stretta e lunga strada deserta; la nebbia mattutina l’avvolgeva di un’appannata luce plumbea ma il mio sguardo la penetrò sino in fondo; riuscii a contare tutti i suoi edifici, però non vidi muovere alcun essere vivente! L’alta sagoma del negro avvolto nel mantello era svanita con la stessa maniera repentina con cui era apparsa! Rimasi sbalordito… ma solo per un momento. Un’altra sensazione s’impadronì di colpo di me: quella strada deserta lunga muta e come morta, che si stendeva dinanzi ai miei occhi, io la conoscevo! Era la strada del mio sogno! Preso da un sussulto, mi stringo nelle spalle (il mattino è così fresco) e subito, senza la minima esitazione, con lo sgomento della certezza, vado avanti! Comincio a cercare con lo sguardo… Ed ecco… ecco a destra, all’angolo del marciapiede, ecco la casa del mio sogno, ecco il vecchio portone con gli

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svolazzi di pietra ai due lati… ma le finestre della casa non sono tonde, bensì quadrangolari… Questo però non ha importanza… Busso al portone, busso due, tre volte più forte, sempre più forte… Il portone si apre lentamente con un pesante scricchiolio, come se sbadigliasse. Davanti a me sta una giovane domestica scarmigliata e con gli occhi pieni di sonno. Si capiva che doveva essersi svegliata proprio allora. «Abita qui il barone?» le domando, mentre con una rapida occhiata percorro il profondo e angusto cortile… Così, tutto così… anche le travi e le assi che vedevo nei miei sogni. «No» mi risponde la domestica; «il barone non abita qui.» «Come, no? È impossibile!» «Ora non c’è. È partito ieri.» «Dov’è andato?» «In America.» «In America!» ripetei involontariamente. «E tornerà?» La cameriera mi diede un’occhiata sospettosa. «Questo non lo sappiamo. Può darsi che non torni.» «Ed è molto tempo che abitava qui?» «Non molto. Da una settimana. Ora non c’è più.» «E qual è il cognome del barone?» La domestica mi fissò. «Non conoscete il suo cognome? Noi lo Chiamavamo semplicemente barone. Ehi, Pёtr!» gridò la giovane vedendo che io cercavo di andare avanti. «Vieni un po‘ qui: c’è qui un tale che mi fa una quantità di domande.» Dall’interno della casa comparve la goffa figura di un robusto operaio. «Chi c’è? Che volete?» domandò con voce rauca, e, dopo avermi ascoltato con aria truce, ripeté ciò che aveva detto la domestica. «E chi abita qui, allora?» dissi io. «Il nostro padrone.» «Chi è il vostro padrone?» «Un falegname. In questa strada sono tutti falegnami.» «Si può vederlo?» «Impossibile, ora sta dormendo.» «E si può entrare in casa?» «Non si può. Andatevene.» «Be‘, e più tardi si potrà vedere il vostro padrone?» «Perché no? Si potrà. Si può sempre… è un commerciante. Ma ora andatevene. Non vedete com’è presto?» «Be‘, e quel negro?» domandai all’improvviso. L’operaio guardò con imbarazzo prima me e poi la domestica. «Quale negro?» disse infine. «Andate, signore. Potete tornare più tardi.

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Parlerete col padrone.» Tornai in strada. Il portone sbatté alle mie spalle con un colpo brusco e pesante, questa Volta senza scricchiolio. Osservai attentamente la strada e la casa e me ne andai; ma non mi diressi a casa. Provavo qualcosa di simile alla delusione. Tutto ciò che mi accadeva era tanto strano e straordinario, eppure sembrava che stesse per finire in maniera così stupida! Ero certo, convintissimo che avrei veduto in quella casa la stanza che ben conoscevo, e nel mezzo di essa mio padre, il barone, in veste da camera con la pipa in bocca… E invece di questo… un falegname, il padrone di casa che si poteva andare a trovare a piacere, e magari ordinargli dei mobili… E mio padre era andato in America! Che cosa mi restava ora da fare? Raccontare tutto a mia madre, oppure seppellire per sempre il ricordo di quell’incontro? Non ero decisamente in grado di rassegnarmi al pensiero che a un inizio che aveva tanto del soprannaturale e del misterioso potesse seguire un finale così insensato e comune! Non ebbi voglia di ritornare a casa e mi diressi fuori città, dove mi portarono le gambe.

XIV Camminavo a testa bassa, senza pensieri, quasi senza sensazioni, ma tutto sprofondato in me stesso. Un rumore ritmico, sordo e stizzoso mi trasse dal mio torpore. Sollevai il capo: era il mare che a cinquanta passi da me rumoreggiava. Mi accorsi di camminare sulla sabbia delle dune. Agitato per la tempesta della notte, il mare biancheggiava di spuma sino all’orizzonte e violente ondate rotolavano a turno infrangendosi rabbiosamente contro la riva piatta. Mi avvicinai e camminai lungo il tracciato lasciato dal flusso e riflusso delle onde sulla sabbia striata di giallo, cosparsa di brandelli di vischiose erbe marine, di frantumi di gusci di gamberi e dei nastri sinuosi delle alghe. I gabbiani dalle ali aguzze, giungendo a volo sul vento con stridule grida dalle lontananze aeree, si sollevavano bianchi come la neve nel grigio cielo nuvoloso, ricadevano a piombo e, come saltando da un’onda all’altra, risalivano e ricadevano simili a spruzzi d’argento tra le fasce spumeggianti. Osservai che alcuni di essi, tenacemente sospesi su un grande scoglio, si ergevano solitari in mezzo all’uniforme distesa delle rive sabbiose. Una ruvida erba marina cresceva a ciuffi irregolari su un lato dello scoglio, e là dove gli steli aggrovigliati spuntavano dal giallastro terreno salifero nereggiava un non so che di lungo, non molto grande. Osservai attento… Laggiù giaceva un oggetto scuro, giaceva immobile accanto allo scoglio… Quell’oggetto si faceva più distinto, sempre più distinto, a mano a mano che andavo avvicinandomi…

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Non ero distante dallo scoglio più di trenta passi. Ma quello era un corpo umano! Era un cadavere, affogato e sbattuto là dal mare! Mi avvicinai di più. Era il cadavere del barone, di mio padre! Mi fermai impietrito. Soltanto allora compresi che sin dal mattino urgevano entro di me oscure forze, che io ero in loro potere, e per alcuni minuti nulla rimase nel mio animo all’infuori dell’incessante sciabordio del mare e di un muto sgomento dinanzi al destino che mi dominava.

XV Egli giaceva sul dorso, leggermente riverso da un lato, con la mano sinistra dietro il capo… la destra era nascosta dal capo ripiegato. Una melma vischiosa lambiva la punta dei piedi calzati da alti stivali da marinaio; la corta giacca azzurra, tutta intrisa di sale marino, non si era sbottonata; una sciarpa rossa strettamente annodata gli avvolgeva il collo. Il viso bruno, rivolto al cielo pareva sogghignare; di sotto il labbro superiore contratto s’intravedevano i denti fitti e piccoli; le pupille senza luce degli occhi semiaperti avevano appena risalto sul bianco abbuiato; coperti dagli spruzzi di schiuma, i capelli aggrovigliati lambivano la terra e lasciavano nuda la fronte liscia dalla cicatrice violacea: il naso appuntito si rizzava come una linea tagliente tra le guance incavate. La tempesta della notte aveva compiuto l’opera sua… Egli non avrebbe veduto l’America! L’uomo che aveva offeso mia madre, che ne aveva distrutta la vita, l’uomo che era mio padre, sì, mio padre (e di questo non potevo avere dubbi) giaceva disteso nella melma ai miei piedi, senza vita. Provai un senso di vendetta soddisfatta, e insieme di pena, di disgusto e di terrore, di doppio terrore: per ciò che vedevo e per ciò che era stato compiuto. Quella malvagità, quegli istinti di delinquenza… di cui ho già parlato, quegli stessi incomprensibili impeti si sollevavano in me e… mi soffocavano. “Ah!” pensavo: “ecco perché io sono così… ecco… è il sangue che parla!” Stavo ritto accanto al cadavere, guardavo e aspettavo; ma non si muovevano forse quelle pupille spente, non fremevano quelle labbra irrigidite? No! tutto era immobile, persino l’erba tra cui l’aveva sbattuto la risacca era morta; persino i gabbiani volavano via… non c’era lì attorno né un rottame né un pezzo di legno né un brandello di corda. Il vuoto, ovunque… soltanto lui e io e il mare che rumoreggiava lontano! Mi volsi indietro a guardare: deserto anche là: una catena di colline senza vita all’orizzonte… null’altro! Mi faceva orrore abbandonare quel disgraziato in quella solitudine, in mezzo alla fanghiglia del litorale, preda di pesci e di uccelli; una voce interna mi diceva che dovevo cercare qualcuno, chiamar gente, non per dargli aiuto (a che serviva, ormai?) ma almeno per portarlo al riparo… Ed ecco che un indicibile sgomento mi

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assalì di colpo. Ebbi l’impressione che quel morto sapesse che io ero venuto lì e che fosse stato proprio lui a predisporre quell’ultimo incontro… e mi pareva anche di sentire quel noto, rauco borbottio… Correndo mi allontanai… e mi volsi ancora a guardare una volta. Qualcosa di scintillante mi colpì gli occhi e mi fermò: era un cerchietto d’oro nella mano rattrappita del cadavere… Riconobbi l’anello di fidanzamento di mia madre. Rammento che mi imposi di tornare indietro, di avvicinarmi, di chinarmi… ricordo il contatto vischioso delle dita gelide, ricordo come ansimai, come chiusi gli occhi, come strinsi i denti… mentre strappavo l’anello che non voleva uscire dal dito… Finalmente ci riuscii e presi a correre, a correre a perdifiato, mentre mi pareva che qualcosa mi inseguisse, e mi raggiungesse e mi afferrasse…

XVI Tutto ciò che avevo provato e sentito doveva essere scritto sul mio volto allorché tornai a casa. La mamma, appena entrai in camera sua, si raddrizzò di colpo e mi guardò con occhi così insistentemente interrogativi che io, dopo aver tentato inutilmente di spiegarmi, finii col tenderle in silenzio l’anello. Essa si fece paurosamente pallida, gli occhi le si spalancarono in modo straordinario e persero ogni luce di vita come quelli di lui; diede un grido, afferrò l’anello, barcollò e mi cadde sul petto e parve venir meno rovesciando indietro il capo e divorandomi con quegli occhi sbarrati, da pazza. Io la strinsi alla vita con tutte e due le braccia e senza muovermi, senza cambiar posto e senza fretta le raccontai a voce sommessa tutto, senza nascondere il minimo particolare: il mio sogno, l’incontro e tutto il resto… Ella mi ascoltò sino in fondo, e non disse mai una parola; soltanto il suo respiro si faceva sempre più ansimante… D’un tratto i suoi occhi si ravvivarono e si abbassarono, infilò l’anello nell’anulare e, scostatasi un po‘, prese la mantiglia e il cappello. Le chiesi dove volesse andare. Ella mi rivolse uno sguardo attonito e tentò di rispondermi, ma la voce le fallì. Fu percorsa da alcuni brividi, si fregò le mani come se volesse riscaldarsi e infine disse: «Andiamo subito là.» «Dove, mamma?» «Dove giace lui… voglio vedere. Voglio sapere… io so… io so…» Tentai di persuaderla a non andarci, ma poco mancò le prendesse un attacco nervoso. Compresi che era impossibile opporsi al suo desiderio… e ci incamminammo.

XVII Ed ecco che di nuovo mi trovo a camminare lungo il litorale, ma questa volta non più solo. Tengo la mamma sottobraccio. Il mare si. è ritirato, è andato

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ancora più lontano: si è calmato ma la sua debole voce è sempre minacciosa e malvagia. Ecco finalmente apparire davanti a noi lo scoglio solitario e l’erba marina. Mi guardo attorno, cerco di distinguere l’oggetto tondeggiante che giaceva per terra, ma non scorgo nulla. Ci facciamo più vicini; involontariamente rallento il passo. Ma dov’è quella cosa immobile e nera? Soltanto gli steli delle erbe nereggiano sulla sabbia ormai asciutta. Siamo presso lo scoglio… Il cadavere non c’è più, ma al punto in cui esso giaceva è rimasto un affossamento ed è facile intuire dove avesse posato le gambe e le braccia… L’erba all’ingiro pare calpestata e si notano le tracce di un piede umano; le tracce si susseguono sulla sabbia e si perdono dopo aver raggiunto il terreno sassoso. La mamma e io ci guardiamo spaventati da quanto leggiamo sui nostri visi… Possibile che si fosse alzato da solo e allontanato? «Sei sicuro di averlo veduto morto?» mi domandò la mamma. Non potei fare altro che annuire col capo. Non erano ancora trascorse tre ore da quando mi ero chinato sul cadavere del barone… qualcuno l’aveva trovato e portato via. Bisognava andare alla ricerca di chi avesse fatto ciò e sapere che cosa fosse accaduto. Ma era prima necessario che mi occupassi della mamma.

XVIII Mentre stavamo procedendo verso il posto fatale, la febbre l’aveva assalita, ma ella era ancora padrona di sé. La scomparsa del cadavere la colpì come la definitiva sventura: era come impietrita. Temetti per la sua ragione. A gran fatica la ricondussi a casa. La feci di nuovo mettere a letto, chiamai ancora il dottore; ma appena la mamma si fu ripresa un po‘, pretese che io andassi immediatamente a cercare “quell’uomo”. Ubbidii. Ma nonostante io tentassi addirittura l’impossibile, non scoprii nulla. Mi recai parecchie volte alla polizia, visitai tutti i villaggi vicini, feci pubblicare avvisi su giornali, cercai informazioni da ogni parte, ma tutto fu inutile. In verità mi giunse la notizia che in uno dei villaggetti litoranei era stato portato un annegato… mi ci precipitai; ma era già stato seppellito e i suoi connotati non corrispondevano affatto a quelli del barone. Venni a sapere su quale nave si era imbarcato per l’America: sulle prime tutti furono convinti che il piroscafo fosse andato perduto durante la tempesta, ma qualche mese dopo cominciò a correre voce che la nave era stata veduta all’ancora nel porto di New York. Non sapendo che decisione prendere, risolsi di mettermi alla ricerca del mio negro, gli offersi, attraverso i giornali, una notevole somma di denaro se si fosse presentato a casa nostra. E un negro alto, avvolto in un mantello, venne realmente da noi, in mia assenza… Ma, dopo aver rivolto una quantità di domande alla domestica, si allontanò di colpo e non si fece più vedere.

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Così perdetti ogni traccia di mio… padre; e così egli scomparve per sempre nel silenzio delle tenebre… La mamma e io non parlavamo mai di lui: una volta soltanto, rammento, ella si meravigliò che io non le avessi mai accennato prima del mio strano sogno, e aggiunse: «Vuol dire, allora, che lui…» e non completò il suo pensiero. La mamma fu per lungo tempo malata, ma anche dopo la guarigione i nostri rapporti non ritornarono quelli di una volta. E davanti a me rimase a disagio sempre, sino alla morte… Sì, veramente a disagio. E a questo dolore non fu possibile trovare rimedio. Via via che si attenuano, i ricordi dei più tragici avvenimenti familiari perdono a poco a poco la loro forza scottante; ma, se un senso di imbarazzo si stabilisce tra due intimi parenti, non è più possibile che si riesca a cancellarlo! Non mi apparve mai più il sogno che mi aveva così angosciato; non cercai più mio padre, ma talvolta mi è parso e mi pare ancora di sentire, in sogno, delle grida lontane, dei lamenti incessanti e dolorosi; li odo ancora qua e là dietro una parete attraverso la quale non è possibile passare, mi schiantano il cuore e io piango a occhi chiusi e non sono in grado di capire che cosa sia: è una creatura viva che geme, o ciò che sento è l’urlo prolungato e selvaggio del mare in tempesta? Ma ecco che tutto si trasforma di nuovo in quell’animalesco borbottio e io mi riaddormento con l’anima colma di angoscia e di terrore.

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Nikolàj Semёnovič Leskòv

LO SCACCIADIAVOLO (čertogon, 1879)

Tra i racconti di questo grande narratore russo (1831-1895) ce ne sono certamente altri che meritano più di questo la definizione di “fantastico”. Ma il ritmo di sarabanda infernale che anima questa novella, la trasfigurazione che agli occhi d’un giovane assumono gli avvenimenti d’una notte per lo straordinario potere della vitalità d’un ricco peccatore, la rapidità trascinante con cui una storia che sembrava di dannazione si trasforma in storia di pentimento e di salvezza, pur sempre come spinta dallo stesso slancio, m’hanno convinto ad appuntare qui la mia scelta. Come sempre in Leskòv, è la “voce” del narratore che fa il racconto; e questo è uno dei casi in cui questa “voce” riesce a raggiungerci anche attraverso una traduzione.

I È questa una cerimonia che si può vedere soltanto a Mosca e per di più solo avendo speciale fortuna e protezioni. Io ho veduto la cerimonia dal principio alla fine grazie ad un felice concatenamento di circostanze, e voglio descriverla per i veri conoscitori ed amatori del serio e del maestoso secondo il gusto nazionale. Sebbene per uno dei lombi io sia nobile, per l’altro son vicino al “popolo”; mia madre veniva dalla classe dei mercanti. Apparteneva ad una famiglia ricca, ma se n’era scappata per amor di mio padre. Il defunto era stato veramente in gamba per quanto riguarda il genere femminile e aveva ottenuto sempre tutto ciò che gli piaceva. Così gli andò bene anche con mia madre, ma per questa abilità i vecchi suoceri non gli diedero nulla, oltre, si capisce, il guardaroba, il letto e la benedizione divina, tutte cose che furono ricevute insieme al perdono e alla benedizione paterna incrollabile per l’eternità. I miei vecchietti vivevano ad Orёl, in bisogno ma superbamente, senza chiedere nulla ai ricchi parenti materni, anzi non avendo con essi nessuna relazione. Però, quando venne per me il momento di entrare all’università, mia madre mi disse: «Va‘ a trovare lo zio Il’jà Fedòséevič, e salutalo da parte mia. Questa non è umiliazione, i vecchi parenti bisogna rispettarli; egli è mio fratello, per di più un uomo timorato di Dio ed ha un certo peso a Mosca… A tutti i ricevimenti solenni dà sempre il pane e il sale… sta avanti a tutti col piatto o con una immagine sacra… è ricevuto anche dal governatore generale e dal metropolita… Non potrà insegnarti che bene.» Sebbene io a quell’epoca, avendo studiato il catechismo di Filarete, non

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credessi in Dio, amavo tuttavia mia madre, e pensai così tra di me: “Ecco è già quasi un anno che sono a Mosca e ancora non ho rispettato la volontà della mamma; vado subito da zio Il’jà Fedòséevič e guardo un po‘ che cosa mi può insegnare”. Per abitudine presa dall’infanzia io avevo molto rispetto per i vecchi specialmente per quelli che sono noti perfino al metropolita e al governatore. Mi alzai, mi spazzolai ben bene ed andai dallo zio Il’jà Fedòséevič.

II Potevano essere le sei della sera, l’aria era calda, morbida e un po‘ umida, in una parola, piacevolissima. La casa dello zio è nota – una delle prime case di Mosca – la conoscono tutti. Solo io non c’ero mai stato e non avevo mai visto lo zio, nemmeno da lontano. Ci vado però franco franco, ragionando tra me: mi riceve, bene; non mi riceve, meglio. Entro nel cortile; all’ingresso c’è una vettura con due cavalli-leoni, neri come corvi, con le criniere lunghe e arruffate e il pelo luccicante come raso di valore. Io salii la scala e dissi: «Così e così: io sono il nipote, lo studente, vi prego di annunziarmi a Il’jà Fedòséevič». Mi si risponde: «Ecco, adesso viene lui stesso. Va a passeggio.» Appare una figura molto semplice, russa, ma abbastanza maestosa; gli occhi hanno qualcosa di simile a quelli della mamma, ma l’espressione è diversa: è quel che si dice un uomo ben piantato. Mi presentai a lui; egli ascoltò in silenzio, mi diede pian piano la mano e disse: «Siedi, andiamo.» Io volevo rifiutare, ma chissà perché il rifiuto non venne fuori e mi sedetti. «Al parco!» ordinò egli. I leoni attaccarono la corsa così che solo la parte di dietro della vettura scricchiolò, e come se dovessero andar fuori città, si misero a correre velocemente. Sediamo e non diciamo una parola; solo io vedo come lo zio calca sempre più sulla fronte il cilindro e sulla sua faccia c’è un certo cipiglio come succede quando ci si annoia. Guarda di qua, di là e solo una volta mi getta uno sguardo e così senza niente altro dice: «Non è una vita, questa.» Io non seppi che rispondere e tacqui. E di nuovo andiamo, andiamo: dove diavolo mi porta costui? E comincio a

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fantasticare di essere cascato in qualche pasticcio. Ma lo zio sembrò improvvisamente aver presa una decisione e cominciò a dare ordini al cocchiere, uno dopo l’altro: «A destra, a sinistra. Da “Jar”. Ferma!» Vedo che dal restaurant una folla di camerieri ci si precipita incontro, e dàgli tutti quanti a inchinarsi avanti allo zio, ma egli non si muove dalla vettura e ordina che si chiami il padrone. Corrono. Appare un francese – anch’egli con grande riguardo – e lo zio non si muove; appoggia contro i denti il pomo d’osso del bastone e dice: «Quanta gente c’è?» «Una trentina di persone» risponde il francese «e tre sale particolari occupate.» «Via tutti.» «Benissimo.» «Adesso sono le sette» dice, guardando l’orologio, lo zio; «alle otto ritorno. Sarà pronto?» «No» risponde «alle otto è difficile… molti hanno già ordinato… ma alle nove, in tutto il restaurant non ci sarà più un estraneo.» «Bene.» «Che cosa bisogna preparare?» «Si capisce, i mori.» «E poi?» «L’orchestra.» «Una sola?» «No, due è meglio.» «Debbo mandare a chiamare Rjàbyka?» «Si capisce.» «Delle signore francesi?» «Non ce n’è bisogno!» «E la cantina?» «Tutta quanta.» «E di cucina?» «Qua la carta.» Gli porgono la carta della giornata. Lo zio a quanto pare non ci capì nulla, o forse non volle darsi la pena di decifrare, picchiò sulla carta col bastone e disse: «Tutto questo per cento persone.» E arrotola la carta e se la mette in tasca. Il francese è allegro e imbarazzato. «Io» dice «non posso preparare per cento persone, ci sono delle pietanze molto care, di cui in tutti i restaurant non ci sono che cinque o sei porzioni.»

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«Ma io come posso assortire i miei ospiti? Ognuno deve avere quello che desidera. Hai capito?» «Ho capito.» «Se no, caro mio, neppure Rjàbyka agisce. Andiamo!» Lasciammo il padrone del restaurant coi suoi camerieri sulla porta e corremmo via. Ormai avevo capito chiaramente che avevo sbagliato binario e volevo prender congedo, ma lo zio non mi ascoltava. Egli era molto preoccupato. Andiamo ed egli ferma ora questo, ora quello. «Alle nove da Jar» dice breve ad ognuno lo zio. E le persone alle quali egli si rivolge sono tutti vecchi rispettabili e tutti si levano il cappello e tutti egualmente rispondono breve allo zio: «Tuoi ospiti, tuoi ospiti, Il’jà Fedòséevič.» Non mi ricordo quanti ne fermammo in questo modo, ma credo almeno una ventina; non appena furono le nove eccoci di nuovo da Jar. Una vera folla di servi ci si precipitò incontro ed eccoli che prendono lo zio sotto il braccio e il francese in persona sulla scala con la salvietta gli toglie la polvere dai pantaloni. «Tutto sgombro?» domanda lo zio. «C’è soltanto un generale» dice; «ha fatto tardi, ha pregato insistentemente di poter finire nella stanza separata.» «Via, via subito!» «Ma finisce presto.» «Non voglio, gli ho dato abbastanza tempo: che vada a finir di mangiare sull’erba.» Non so come sarebbe finita questa storia, ma in quel momento il generale con due signore uscì dal restaurant, si sedettero in carrozza e andarono via; intanto, uno dopo l’altro, cominciarono ad affluire gli ospiti che lo zio aveva invitato nel parco.

III Il restaurant era sgombro, pulito, libero del tutto. Solo in una delle sale c’era un colosso, che venne incontro allo zio in silenzio, e senza dire nemmeno una parola, gli tolse dalle mani il bastone e lo nascose chissà dove. Lo zio lasciò il bastone senza la più piccola opposizione e nello stesso tempo diede al gigante il portafoglio e il portamonete. Questo semigrigio massiccio gigante era quel tale Rjàbyka che era stato nominato nel ristorante durante l’incomprensibile ordinazione dello zio. Di professione egli era “maestro di scuola”, ma qui evidentemente si trovava per qualche speciale incarico. Egli doveva essere qui indispensabile come gli zingari, l’orchestra e tutto il personale che era apparso in un momento al completo. Soltanto non capivo in che cosa consistesse la parte del maestro,

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ma era ancora presto per la mia inesperienza. Il ristorante chiassosamente illuminato lavorava; la musica rimbombava, gli zingari saltavano di qua e di là e si fermavano a mangiar qualche cosa al buffet, lo zio passava in rivista le stanze, il giardino, le grotte e le gallerie. Egli guardava dappertutto se non ci fossero “estranei”, e accanto a lui continuamente andava il maestro; però quando tornarono nel salone principale, dove era riunita tutta la compagnia, una grande differenza si notava tra loro; il giro aveva agito diversamente su di loro; il maestro era in gambe come era andato, ma lo zio era ubriaco fradicio. Non so come questo fosse potuto accadere così rapidamente, ma egli era di un umore eccellente; si sedette al posto d’onore e cominciò la baraonda. Le porte furono sbarrate con la prescrizione che nessuno potesse entrare e che nessuno di noi potesse uscire nel mondo. Ci separava dal mondo un abisso, l’abisso di tutto il vino bevuto, di tutte le vivande mangiate, ma soprattutto l’abisso della gozzoviglia, non voglio dire laida, ma selvaggia, furiosa, quale io non sono in grado di descrivere. E d’altra parte questo non mi si può neppure chiedere perché, vedendomi qui incatenato, separato da tutto il resto del mondo, io stesso mi smarrii del tutto e mi affrettai ad ubriacarmi. È per questo che io non descriverò come passò quella notte, perché descrivere tutto ciò non è dato alla mia persona; io mi ricordo due soli episodi notevoli della battaglia e il finale, ma è proprio in essi che è racchiuso lo spaventevole.

IV Fu annunciato un certo Ivàn Stepànovič, che, come si seppe poi, era un fabbricante e commerciante molto importante di Mosca. Subentrò una pausa. «È stato già detto che non si deve far entrare nessuno» rispose lo zio. «Prega insistentemente.» «Se ne vada dove è stato finora.» Il cameriere uscì, ma tornò di nuovo timidamente. «Ivàn Stepànovič» dice «mi ha detto di dire che egli vi prega molto molto.» «Non abbiamo bisogno di lui, non voglio.» Gli altri dicono: «Facciamogli pagare una multa». «No, cacciatelo, non voglio la sua multa.» Ma il cameriere ricompare e riferisce ancora più timidamente: «È pronto» dice «a qualsiasi multa. Dice che per la sua età è molto, molto triste essere escluso dalla compagnia.» Lo zio si alzò con gli occhi fiammeggianti, ma nello stesso momento si intromise tra lui e il cameriere Rjàbyka; con la mano sinistra, acchiappandolo come un pulcino con le dita, egli buttò via il cameriere, e con la destra fece di

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nuovo sedere lo zio. Tra gli ospiti si sentirono delle voci in favore di Ivàn Stepànovic; pregavano che lo si lasciasse entrare, facendogli pagare cento rubli di multa a favore dei musicanti. «È uno dei nostri, è vecchio, è un timorato di Dio; dove può andare a finire adesso? È capace di fare uno scandalo davanti al pubblico minuto. Bisogna aver compassione di lui.» Lo zio cedette e disse: «Se non si deve fare a modo mio, non si deve fare neppure a modo vostro, ma come vuol Dio. Si faccia pure entrare Ivàn Stepànovic, ma egli deve suonare i timpani.» Il servo chiacchierone uscì e ritornò subito. «Dice che preferirebbe gli si facesse pagare una multa.» «Al diavolo! Se non vuol suonare il tamburo, non lo vogliamo: se ne vada dove gli pare.» Dopo un po‘ di tempo Ivàn Stepànovic non resistette più e mandò a dire che accettava di battere i timpani. «Fatelo entrare.» Entra un uomo considerevolmente alto e di aspetto rispettabile: l’espressione severa, gli occhi smorti, la schiena curva, e la barba arruffata e verdastra. Vuol scherzare e salutare, ma lo respingono. «Dopo, dopo, tutto questo dopo» gli grida lo zio; «adesso suona il tamburo.» «Suona il tamburo!» si intromettono gli altri. «Musica! I timpani.» L’orchestra comincia una marcia rimbombante, il vecchio ben piantato prende i mazzapicchi di legno e comincia a battere sui timpani portando ed anche non portando il tempo. Chiasso e grida infernali, tutti sono contenti e gridano: «Più forte!» Ivàn Stepànovič si sforza di battere più forte. «Più forte, più forte, ancora più forte.» Il vecchio tambureggia con tutta la sua forza come il Principe nero in Freiligrath, e finalmente è raggiunto lo scopo; il tamburo ha un crak spaventoso, la pelle scoppia, tutti ridono, il chiasso diventa addirittura inconcepibile e Ivàn Stepànovič deve pagare il tamburo sfondato, una multa di cinquecento rubli a favore dei musicanti. Egli paga, si asciuga il sudore, si mette a sedere e mentre tutti bevono alla sua salute, nota, e con non poco spavento, suo nipote fra gli ospiti. Di nuovo riso, di nuovo chiasso, fino a che io perdo coscienza. Nei rari momenti chiari io vedo come gli zingari continuano a ballare e come lo zio, seduto, dondola le gambe; poi come egli si alza davanti a qualcuno, ma qui

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fra essi appare Rjàbyka e quello vola via e lo zio si siede di nuovo, e davanti a lui sul tavolo si trovano due forchette. io adesso capisco la parte di Rjàbyka. Ma ecco dalla finestra penetra il frescore del mattino moscovita, io riprendo coscienza, ma come soltanto per dubitare del mio raziocinio. C’era una battaglia e il taglio d’un bosco; si sentiva il rimbombo, lo schiantare degli enormi alberi esotici che crollavano, e dietro di essi si pigiava un mucchio di certe cupe figure, e qui, presso le radici, scintillavano delle terribili scuri e mio zio abbatteva gli alberi e con lui il vecchio Ivàn Stepànovič… Semplicemente un quadro medioevale. Le zingare, che si nascondevano nella grotta dietro gli alberi, dovevano essere “prese prigioniere”; gli zingari non le difendevano e le lasciavano alla loro propria energia. Non si capiva quel che era scherzo e quel che era serio; per l’aria volavano piatti, sedie e pietre dalla grotta e quelli si facevano sempre più strada nella foresta; più di tutti coraggiosi si mostravano Ivàn Stepànovič e mio zio. Finalmente la fortezza fu presa; le zingare furono afferrate, abbracciate e baciate; ognuna si nascose nel busto un foglio da cento rubli e tutto fu finito… Sì, ad un tratto tutto fu tranquillo… tutto finì. Nessuno era venuto a disturbare, ma tutti ne avevano abbastanza. Si sentiva come senza tutto questo la vita non è vita; era tuttavia tempo di finirla. Tutti ne avevano abbastanza e tutti erano contenti. Forse aveva importanza anche quel che aveva detto il maestro, che per lui era tempo di “andare a scuola”, ma del resto poco importa; la notte di Valpurga era finita e la vita ricominciava. Il pubblico non salutò, non si congedò, ma semplicemente sparì; l’orchestra e gli zingari non c’erano già più. Il ristorante offriva il quadro della più piena devastazione; non una tenda, non uno specchio erano interi, perfino il grande lampadario centrale era a terra in pezzi e i prismi di cristallo si sbriciolavano sotto i piedi dei servi che andavano di qua e di là stanchi morti. Mio zio sedeva in mezzo al divano e beveva del kvas; di tratto in tratto sembrava ricordarsi qualche cosa e dimenava le gambe. Accanto a lui c’era Rjàbyka che aveva sempre fretta di andare a scuola. Porsero loro il conto, un conto che in poche parole “abbracciava tutto”. Rjàbyka lo lesse attentamente e chiese cinquecento rubli di sconto. Con lui discussero poco e fecero la somma: si trattava di diciassettemila rubli; dopo averlo guardato ancora Rjàbyka dichiarò che così andava bene. Lo zio pronunciò due sole sillabe: «Paga», si mise il cappello e mi fece segno di seguirlo. Io con terrore mi accorsi che egli non aveva dimenticato niente e che mi era impossibile nascondermi. Egli mi infondeva un terrore straordinario, ed io

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non riuscivo ad immaginarmi come sarei rimasto solo con lui a quattr’occhi. Mi aveva preso con sé per combinazione, non mi aveva ancora detto due parole ragionevoli ed ecco che mi trascinava dietro di sé, senza che mi riuscisse di sfuggirgli. Che cosa mi sarebbe accaduto? Mi passò subito tutta l’ubriacatura. Adesso avevo semplicemente paura di questa strana belva selvaggia, con la sua inverosimile fantasia e i suoi terribili accessi. Intanto s’andava via; nell’anticamera fummo circondati dalla folla dei servi. Lo zio ordinò: «Cinque ad ognuno», e Rjàbyka pagò; un po‘ meno furono pagati i portieri, i guardiani, le guardie, i gendarmi, ché tutti quanti ci avevano prestato i loro servizi. Tutti furono soddisfatti. Ma nel complesso fu una bella somma; e per di più fuori nel parco si affollavano ancora, per quanto l’occhio poteva vedere, i cocchieri. Era una fila interminabile; tutti aspettavano noi; aspettavano «bàtjuška Il’jà Fedòséevič» se «per caso sua eccellenza avesse bisogno di loro». Furono contati ed ognuno ricevette tre rubli. Lo zio ed io salimmo nella nostra carrozza, e Rjàbyka porse allo zio il portafoglio. Il’jà Fedòséevic cavò dal portafoglio un biglietto da cento rubli e lo porse a Rjàbyka. Questi si rigirò il biglietto fra le mani e disse bruscamente: «È poco.» Lo zio aggiunse due biglietti da venticinque rubli. «È troppo poco ancora; non c’è stato nessuno scandalo.» Lo zio gli porse ancora un biglietto da venticinque ed allora il maestro gli porse il bastone e si congedò.

V Restammo noi due soli, a quattr’occhi, e ritornammo di corsa a Mosca, mentre dietro di noi con strilli e strepito veniva a rotta di collo tutta la schiera delle carrozze. Io non capivo che cosa volessero da noi, ma lo zio capì. Era veramente una cosa rivoltante; volevano scroccargli ancora del denaro, e con l’aria di tributare uno speciale onore a Il’jà Fedòséevic esponevano la sua dignità allo scherno di tutti. Mosca era davanti a noi, aperta ai nostri sguardi, tutta, nella magnifica luce del mattino, nel leggero fumo dei camini, avvolta nel calmo scampanìo delle campane invitanti alla preghiera. A destra e a sinistra della barriera si stendevano dei magazzini di merci. Lo zio fece fermare davanti al primo di essi, indicò un barile che stava sulla soglia e domandò: «È miele?» «Miele.» «Quanto costa il barile?»

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«Noi vendiamo solo al minuto a libbre.» «Vendi all’ingrosso: calcola quanto vien tutto.» Non riesco a ricordarmi quanto ci fu chiesto. Mi pare settanta o ottanta rubli. Lo zio buttò il denaro al negoziante. Intanto il corteo delle carrozze ci aveva raggiunto. «Mi volete bene, miei cari vetturini?» «E come no… siamo sempre ai vostri servizi.» «Mi siete devoti?» «Anima e corpo.» «Levate le ruote alle carrozze.» I cocchieri rimasero indecisi. «Presto, presto!» comanda lo zio. Una ventina di essi, più svelti degli altri, saltano su a cassetta, prendono i cacciavite e cominciano a smontare le ruote. «Benissimo» dice lo zio «e adesso ungete le ruote col miele.» «Bàtjuška!» «Ungete!» «Della roba così buona… È meglio mettersela in bocca!» «Ungete!» Senza insistere nel suo desiderio, lo zio risalì nella carrozza e via di galoppo. I cocchieri rimasero così tutti con le ruote levate dalle carrozze, accanto al miele, col quale però si guardarono certo bene dall’ungere le ruote; probabilmente se lo divisero fra di loro o lo rivendettero al negoziante. In ogni modo ci eravamo liberati di loro e ci dirigemmo verso i bagni. Qui io m’aspettavo il Giudizio Universale; me ne stavo seduto né morto né vivo nella vasca di marmo, mentre lo zio era sdraiato in terra, ma non semplicemente, in posa comune, quanto piuttosto in una posa apocalittica Tutta la massa del suo corpo posava sulla punta delle dita delle mani e dei piedi. Il corpo rosso tremava su questi punti d’appoggio sotto la fredda doccia ed egli rugliava e ringhiava come un orso che cerca di togliersi qualcosa che gli fa male. Questo durò una mezz’ora; egli continuò a tremare come una gelatina su un tavolo che si muove, tino a che ad un tratto saltò su, si fece portare del kvas; allora ci rivestimmo e ci recammo al “Kuzneckij most‘” dal “francese”. Qui ci facemmo tutti e due spuntare un po‘ i capelli, arricciare e pettinare, e a piedi ritornammo in città nel negozio. Con me nessuna chiacchiera, ma non mi mollava. Solo una volta disse: «Aspetta, non tutto assieme, se c’è qualcosa che non capisci, lo capirai con gli anni.» Nel negozio disse prima di tutto la preghiera del mattino, poi guardò che tutto fosse in ordine e si sedette allo scrittoio.

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Il vaso all’esterno era pulito, ma all’interno c’era del sudiciume ancora che chiedeva purificazione. Io me ne accorsi e cessai d’aver paura. La cosa m’interessava, volevo vedere come si sarebbe giustificato: con continenza o aspettando la grazia del Signore? Verso le dieci cominciò a non poter più resistere nella bottega; aspettava che venisse il vicino per andare in tre a bere il tè, quando si beve in tre costa ben cinque copeche di meno. Il vicino non venne; era morto d’un colpo apoplettico. Lo zio si fece il segno della croce e disse: «Tutti moriremo.» Questo non lo agitò, nonostante che insieme al vicino per quarant’anni di seguito fosse andato a bere il tè. Chiamammo il vicino dell’altra parte, ci riunimmo, facemmo uno spuntino ma sempre senza bere bevande alcooliche. Tutto il giorno io rimasi con lui, in bottega o in giro, ma verso sera egli mandò a prendere la vettura e ci recammo al monastero della Madonna “Tutta-esaltata”. Lì anche lo conoscevano tutti e lo accolsero con lo stesso riguardo come da Jar. «Voglio inginocchiarmi davanti alla Madonna “Tutta-esaltata” e piangere i miei peccati. E questo qui ve lo raccomando, è un mio nipote, il figlio di mia sorella.» «Prego, prego» dicono le monache «prego, da chi la Madonna dovrebbe gradire una preghiera di pentimento se non da voi che siete stato sempre il più grande benefattore del suo monastero? E proprio adesso è il momento della grazia: si sta dicendo la messa della sera.» «Aspettiamo che finisca: io preferisco quando non c’è nessuno; vi prego di far fare il crepuscolo in chiesa.» Fu fatto il crepuscolo; furono spente tutte le candele ad eccezione di una o due lampade e della grande lampada centrale a vetri verdi davanti all’immagine della Madonna. Lo zio non cadde, ma si precipitò in ginocchio, poi picchiò con la fronte il pavimento, singhiozzò e si irrigidì. Io insieme a due monache stavo in un angolo scuro, dietro la porta. Passò una lunga pausa. Lo zio era sempre lì senza alzar gli occhi e senza emettere alcun suono. A me sembrò si fosse addormentato e lo dissi anche ad una delle monache. La suora che ne sapeva più di me pensò un poco, poi scosse la testa, protesse la fiamma con la mano curva e scivolò leggermente fino al peccatore in penitenza. Gli girò intorno pian piano sulla punta dei piedi, ritornò indietro agitata e sussurrò: «Agisce… e con contraccolpo!» «Da che cosa lo notate?»

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Essa si piegò in avanti, e facendomi un segno disse: «Guardate direttamente attraverso la fiamma, dove sono le sue gambe.» «Vedo.» «Guardate che lotta!» Io guardo più fisso e, veramente, noto qualche movimento: lo zio giace pieno di devozione nella sua posizione di preghiera, e ai suoi piedi sembra che si muovano due gatti che si battono l’uno contro l’altro e adesso ha il sopravvento l’uno, adesso l’altro. «Sorella» dico «di dove son venuti quei gatti?» «Ma vi sembra soltanto che siano gatti; non sono gatti, è la tentazione; vedete: egli con lo spirito si solleva in una fiamma al cielo e con le gambe si agita ancora nell’inferno.» Vedo che veramente lo zio con le gambe balla la danza che ha ballato la sera prima; ma veramente con lo spirito egli arde in una fiamma verso il cielo? Ed egli, come se mi rispondesse, all’improvviso sospirò ed esclamò: «Io non mi alzo fino a che non mi avrai perdonato. Tu sola sei santa ma noi siamo tutti dannati» e singhiozzò forte. Singhiozzò così pietosamente che tutti e tre anche noi scoppiammo in pianto: «Signore, esaudisci la sua preghiera». E non ci eravamo accorti che egli ci era già accanto quando con una voce beata mi disse: «Andiamo, sbrighiamoci.» Le monache lo interrogano: «Avete avuto la grazia di vedere il riflesso?» «No» risponde «il riflesso non l’ho veduto, ma ecco… ecco quel che ho avuto.» Strinse i pugni e li sollevò lentamente come quando si solleva un bambino. «Sollevato?» «Sì.» Le monache si fecero il segno della croce ed io con loro; lo zio spiegò: «Adesso» dice «sono stato perdonato. Proprio dall’alto, dalla cupola si è stesa una mano, mi ha afferrato per i capelli e mi ha rimesso in piedi…» Ed ecco che egli non è più dannato, è felice. Egli trattò regalmente il convento dove era riuscito ad avere per sé questo miracolo e di nuovo si sentì vivo e rimandò a mia madre tutta la sua dote; quanto a me mi condusse alla buona fede popolare. Da allora io compresi il gusto del popolo di cadere e risollevarsi… Questo si chiama “scacciadiavolo” perché “caccia via il diavolo dei cattivi pensieri”. Solo che, ripeto, questo si può vedere soltanto a Mosca, e avendo una speciale fortuna e per grande protezione dei più rispettabili vegliardi.

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Auguste Villiers de l’Isle-Adam

PIÚ VERO DEL VERO (A s’y meprendre!, 1883)

Questo breve testo, che fa parte dei Racconti crudeli di Villiers de l’Isle-Adam, non è altro che una doppia descrizione di ambienti parigini, da cui si stabilisce un’equazione semplicissima tra mondo degli affari (un caffè vicino alla Borsa) e mondo dei morti (un obitorio). Nei due casi la visione si ripete descritta con le stesse parole: procedimento che forse per la prima volta viene qui giocato intenzionalmente, e che tornerà a essere impiegato da scrittori d’oggi, come Alain Robbe-Grillet. Villiers de l’Isle-Adam (1838-1889) mette al servizio dell’invenzione fantastica il suo gusto ironico per la crudeltà intellettuale e per le soluzioni d’effetto raggiunte con mezzi rapidi e taglienti. In una grigia mattina di novembre percorrevo frettolosamente i lungosenna. Nella fredda acquerugiola che bagnava l’atmosfera, si incrociavano le ombre nere dei passanti, nascosti da ombrelli di forme svariate. La Senna limacciosa trascinava battelli simili a enormi maggiolini. Sui ponti il vento sferzava all’improvviso i cappelli dei passanti, e questi li contendevano allo spazio con gli atteggiamenti e le contorsioni il cui spettacolo è sempre penoso allo sguardo dell’artista. Le mie idee erano incerte e nebbiose; il pensiero di un appuntamento d’affari, accettato il giorno precedente, mi assillava. L’ora incalzava: decisi di ripararmi sotto l’atrio di un portone da dove mi sarebbe stato più agevole chiamare un fiacre. In quell’istante scorsi, proprio di fianco a me, l’ingresso di un edificio quadrato, d’aspetto borghese. Era sorto nella nebbia come un’apparizione di pietra, e a dispetto dell'architettura rigida, del vapore tetro e fantastico che lo avviluppava, gli riconobbi immediatamente una certa aria di ospitalità cordiale che mi rasserenò lo spirito. “Senza dubbio” mi dissi “chi abita questa dimora è di costumi sedentari! La soglia invita a fermarsi; e la porta non è forse aperta?” E con la maggior cortesia, con l’aria soddisfatta e il cappello in mano, meditando un madrigale per la padrona di casa, entrai sorridendo, e mi trovai di fronte una sorta di sala con il tetto a vetri, dal quale la luce del giorno filtrava livida. Ad alcune colonne erano appesi abiti, sciarpe, cappelli. Tavole di marmo erano disposte ovunque. Le gambe allungate, il capo eretto, gli occhi fissi e l’aria assorta, alcuni

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individui sembravano meditare. I loro sguardi erano vuoti di pensiero, i volti avevano il colore del tempo. Vi erano portafogli aperti, giornali spiegati accanto a ognuno di loro. E compresi che la padrona di casa, sulla cui gentile accoglienza avevo fatto conto, non era altri che la morte. Certo, per sfuggire alle preoccupazioni dell’esistenza e ai suoi fastidi, la maggior parte di coloro che occupavano la sala aveva ucciso il proprio corpo, sperando in un maggiore benessere. Mentre ascoltavo il fruscio dei rubinetti di rame murati alle pareti, per innaffiare ogni giorno quei resti mortali, sentii le ruote di un fiacre. Si fermò davanti all’edificio. Riflettei che chi aveva appuntamento con me mi aspettava e mi voltai per cogliere l’occasione che mi si offriva. Il fiacre aveva in realtà scaricato davanti alla porta collegiali in festa che dovevano vedere la morte per credervi. Fermai il fiacre deserto e dissi al cocchiere: «Passaggio dell’Opéra!» In seguito, sui boulevards, il tempo mi sembrò farsi più coperto, l’orizzonte svanire, e gli arbusti, scheletri vegetali, parevano indicare vagamente con la punta dei rami neri i pedoni alle guardie municipali ancora insonnolite. Il fiacre affrettava il cammino. Attraverso il vetro i passanti mi apparivano come acqua che scorre. Arrivato a destinazione, balzai sul marciapiede e mi avviai nel Passaggio ingombro di passanti preoccupati. All’altro capo scorsi, proprio di fronte a me, l’ingresso di un caffè – oggi distrutto da un famoso incendio (poiché la vita è un sogno) – relegato in fondo a una sorta di hangar, sotto una volta quadrata, di aspetto tetro. Le gocce di pioggia che cadevano sulla parte alta del vetro oscuravano ancora di più la luce del sole. Era là che mi attendevano, pensai, il bicchiere in mano, l’occhio brillante e sfidando il destino, i miei uomini d’affari! Girai dunque la maniglia della porta e mi trovai subito in una sala dove la luce cadeva dall’alto attraverso il vetro, livida. Ad alcune colonne erano appesi abiti, sciarpe, cappelli. Tavole di marmo erano disposte ovunque. Le gambe allungate, il capo eretto, gli occhi fissi e l’aria assorta, alcuni individui sembravano meditare. E i volti avevano il colore del tempo, gli sguardi erano vuoti di pensiero. Vi erano portafogli aperti, giornali spiegati accanto a ognuno di loro. Scrutai quegli uomini. Certo, per sfuggire all’ossessione insopportabile della coscienza, la maggior parte di coloro che occupavano la sala aveva da molto tempo assassinato la

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propria “anima”, sperando in un maggiore benessere. Mentre ascoltavo il fruscio dei rubinetti di rame murati alle pareti, per innaffiare ogni giorno quei resti mortali, mi tornò alla memoria il rumore delle ruote del. fiacre. “Senza dubbio” mi dissi “il cocchiere deve essere stato colpito da una sorta di ebetismo, per avermi riportato, dopo tanto girare, semplicemente al punto di partenza!” Tuttavia, lo confesso (se vi è stato errore), IL SECONDO COLPO D’OCCHIO È PIÙ SINISTRO DEL PRIMO!… Richiusi dunque in silenzio la porta vetrata, e tornai a casa, risoluto – qualsiasi cosa possa accadermi – a non occuparmi mai più di affari.

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Guy de Maupassant

LA NOTTE (La nuit, 1887)

Un esempio di fantastico ottenuto coi minimi mezzi: questa novella non è che una passeggiata per Parigi, fedele resoconto delle sensazioni che il nottambulo Maupassant viveva in ognuna delle sue sere. Ma qui una sensazione oppressiva, da incubo, occupa il quadro fin da principio e si fa sempre più intensa. La città è sempre la stessa, strada per strada e palazzo per palazzo, ma prima scompaiono le persone, poi le luci; lo scenario ben noto sembra contenere soltanto la paura dell’assurdo e della morte. Maupassant (1850-1893) ha un posto anche nella letteratura fantastica, per una serie di testi scritti negli anni che precedono la sua crisi di follia che non ebbe ritorno: è dalle immagini quotidiane che si sprigiona un senso di terrore. Amo appassionatamente la notte. L’amo come si ama la patria o l’amante, di un amore istintivo, profondo, invincibile. L’amo con tutti i miei sensi, con gli occhi che la vedono, con l’odorato che la respira, con le orecchie che ne ascoltano il silenzio, con tutta la mia carne che le tenebre accarezzano. Le allodole cantano nel sole, nel cielo sereno, nell’aria calda, nell’aria fresca dei chiari mattini. Il gufo fugge nell’oscurità, nera macchia che passa attraverso lo spazio nero, e, rallegrato, inebriato dalla nera immensità, lancia il suo strido vibrante e sinistro. Il giorno mi stanca e m’annoia. È brutale e rumoroso. Mi alzo a fatica, mi vesto svogliatamente, esco di cattivo umore, e ogni passo, ogni movimento, ogni gesto, ogni parola, ogni pensiero mi stancano come se sollevassi un pesante fardello. Ma quando il sole tramonta m’invade una gioia confusa, una gioia di tutto il corpo. Mi sveglio, mi animo. A mano a mano che l’ombra s’infittisce mi sento un altro, più giovane, più forte, più sveglio, più felice. La guardo infoscarsi, questa grande ombra dolce caduta dal cielo: sommerge la città come un’onda inafferrabile e impenetrabile, nasconde, cancella, distrugge i colori, le forme, abbraccia le case, gli esseri, gli edifici col suo impercettibile tocco. Allora sono tentato a gridare di piacere come le civette, a correre sui tetti come i gatti; e un impetuoso, un invincibile desiderio d’amare s’accende nelle mie vene. Vado, cammino, ora nei sobborghi oscuri, ora nei boschi vicini a Parigi, dove odo aggirarsi le bestie mie sorelle e i bracconieri miei fratelli. Quello che amiamo con violenza finisce sempre coll’ucciderci. Ma come spiegare ciò che mi accade? Anzi, come far comprendere ch’io possa raccontarlo? Non so, non so più, so soltanto che così è. – Ecco.

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Ieri dunque – fu ieri? – sì, senza dubbio, a meno che non fosse un altro giorno, un altro mese, un altr’anno, – non so. Eppure dovette essere ieri, poiché il giorno non è più sorto, poiché il sole non è più riapparso. Ma da quanto dura la notte? Da quanto?… Chi lo dirà? Chi lo saprà mai? Ieri dunque uscii come faccio sempre dopo aver pranzato. La sera era splendida, calmissima, calda. Incamminandomi verso i boulevards guardai sopra il mio capo il fiume del cielo, nero e gremito di stelle, contro il quale i tetti si stagliavano. E il mio percorso, pieno di giravolte, faceva ondulare come un fiume nero il ruscello roteante degli astri. Tutto era chiaro nell’aria leggera, dai pianeti sino ai fanali a gas. Le luci che splendevano lassù e nella città erano tante, che le tenebre parevano illuminarsene. Le notti scintillanti sono più allegre che i grandi giorni di sole. Sul boulevard i caffè fiammeggiavano, si rideva, si circolava, si beveva. Entrai in teatro per qualche minuto… in quale teatro? non so più. C’era così chiaro che mi sentii rattristato e ne uscii col cuore un po‘ oppresso da quell’urto di luce brutale sugli ori della balconata, da quello scintillio fittizio dell’enorme lampadario di cristallo, dalla barriera di fuoco della scalinata, dalla malinconia di quella chiarità falsa e cruda. Giunsi ai Champs-Elysées dove nel fogliame i caffè-concerto sembravano focolari d’incendio. Gl’ippocastani intrisi di luce gialla sembravano dipinti, sembravano alberi fosforescenti. E le lampade ad arco, simili a lune sfolgoranti e pallide, facevano impallidire sotto la loro luce madreperlacea, misteriosa e regale, le reticelle del gas, del gas brutto e scialbo, e le ghirlande di vetro colorato. Mi fermai sotto l’Arco di Trionfo per guardare l’avenue, la lunga e mirabile avenue stellata, fuggente verso Parigi tra due file di luci, e gli astri! gli astri lassù, gli astri sconosciuti disseminati a caso nell’immensità dove disegnano le strane figure che tanto fanno sognare, che tanto fanno pensare! Entrai nel Bois de Boulogne e vi rimasi a lungo, a lungo. Mi aveva colto un brivido singolare, un’emozione imprevista e possente, un’esaltazione del pensiero che rasentava la follia. Camminai a lungo, a lungo. Poi ritornai. Che ora era quando ripassai sotto l’arco trionfale? Non so. La città s’addormentava, e qualche nuvola – grosse nuvole nere – si allargava lentamente nel cielo. Per la prima volta sentii che stava per accadere qualche cosa di strano, di nuovo. Mi sembrò che facesse freddo, che l’aria s’ispessisse, che la notte, la notte a me diletta, gravasse sul mio cuore. L’avenue era deserta, ora. Solo due guardie di città passeggiavano accanto al posteggio delle vetture di piazza, e sulla massicciata appena rischiarata dai lumi a gas che parevano morenti, una fila di carrette cariche di legumi andava al Mercato. Avanzavano lentamente, cariche di carote, di navoni e di cavoli. I conducenti dormivano invisibili, i

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cavalli camminavano con un passo uguale, seguendo il veicolo precedente, senza rumore sull’impiantito di legno. Davanti a ciascuna luce del marciapiede le carote s’illuminavano in rosso, i navoni s’illuminavano in bianco, i cavoli s’illuminavano in verde; e passavano una dietro l’altra, quelle carrette rosse d’un rosso di fuoco, bianche d’un bianco d’argento, verdi d’un verde smeraldo. Le seguii, poi svoltai per la rue Royale, e tornai sul boulevard. Nessuna persona, nessun caffè illuminato; soltanto qualche passante in ritardo che s’affrettava. Non avevo mai visto Parigi così morta, così deserta. Guardai l’orologio. Erano le due. Mi spingeva una forza, un bisogno di camminare: proseguii quindi sino alla Bastiglia. Là m’accorsi che non avevo mai visto una notte così oscura, poiché non distinguevo nemmeno la colonna di luglio, il cui Genio d’oro era annullato dall’impenetrabile oscurità. Una cupola di nuvole, folte come l’immensità, aveva sommerso le stelle e sembrava abbassarsi sulla terra per annientarla. Ritornai. Non c’era più nessuno intorno a me. Soltanto in piazza del Chàteau-d’Eau un ubriaco venne a darmi di cozzo, poi scomparve. Udii per un poco il suo passo sonoro e ineguale. Camminavo. All’altezza del Faubourg Montmartre passò una vettura di piazza che andava verso la Senna. Chiamai. Il cocchiere non rispose. Una donna vagava accanto alla rue Drouot. «Signore, signore, sentite…» Affrettai il passo per evitare la sua mano tesa. Poi più nulla. Davanti al Vaudeville un cenciaiuolo frugava nel rigagnolo. Il suo lanternino ondulava rasente terra. Gli domandai: «Che ora è, brav’uomo?» Borbottò: «E che ne so? io non ho orologio.» Allora m’accorsi improvvisamente che i lumi a gas erano spenti. So che in questa stagione vengono eliminati di buon’ora, prima dell’alba, per economia: ma il giorno era lontano, tanto lontano dallo spuntare! “Andiamo al Mercato” pensai “lì almeno troverò la vita.” Mi incamminai, ma non ci vedevo nemmeno tanto da trovare la strada. Avanzavo lentamente, come si fa in un bosco, e riconoscevo le strade contandole. Davanti al Crédit Lyonnais un cane brontolò. Ritornai dalla rue de Grammont, e mi sperdetti; errai, poi riconobbi la Borsa dalle cancellate di ferro che la circondano. Tutta Parigi dormiva d’un sonno profondo, spaventoso. Frattanto, correva lontano una carrozza, una sola vettura di piazza; forse quella che m’era passata davanti poc’anzi. Cercavo di raggiungerla andando verso il rumore delle ruote, attraverso le strade solitarie e buie, buie, buie come la morte. Mi smarrii ancora. Dov’ero? Che follia, quella di spegnere il gas così presto!

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Non un passante, non un ritardatario, non un girellone, nemmeno il miagolio d’un gatto in amore. Nulla. Dov’erano dunque le guardie di città? Dissi tra me: “Adesso mi metto a gridare, accorreranno”. Gridai. Nessuno mi rispose. Chiamai più forte. La mia voce si disperse, senza eco, fievole, soffocata, schiacciata dall’oscurità, da quella oscurità impenetrabile. Urlai: «Aiuto! aiuto! aiuto!» Il mio richiamo disperato rimase senza risposta. Che ora era dunque? Estrassi l’orologio, ma non avevo fiammiferi. Ascoltai il tic-tac leggero del fragile meccanismo con una gioia sconosciuta e bizzarra: sembrava vivesse. Ero meno solo. Quale mistero! Mi rimisi in cammino come un cieco, tentando i muri col bastone, e alzavo di continuo gli occhi al cielo sperando che finalmente spuntasse il giorno: ma lo spazio era nero, assolutamente nero, più profondamente nero che la città. Che ora poteva essere? Camminavo, mi pareva, da un tempo infinito, poiché le gambe mi si piegavano, il petto ansava e avevo una fame terribile. Mi decisi a suonare al primo portone. Tirai il pomo d’ottone, e il campanello squillò nella casa sonora: squillò stranamente, come se quel rumore vibrante fosse stato solo nell’edificio. Aspettai: nessuno rispondeva, la porta rimase chiusa. Suonai nuovamente: attesi ancora… nulla! Ebbi paura! Corsi alla casa vicina, e venti volte di seguito feci squillare la suoneria nel corridoio oscuro dove presumibilmente dormiva il portinaio. Ma nessuno si svegliava – e io andai più lontano, tirando con tutta la mia forza l’anello o il pomo d’ottone, bussando coi piedi, con le mani, col bastone a tutte le porte ostinatamente chiuse. E d’improvviso mi accorsi ch’ero giunto al Mercato. Il Mercato era deserto, senza un rumore, senza un movimento, senza una carretta, senza un uomo, senza un cesto di verdura o di fiori. Vuoto, immobile, abbandonato, morto! Fui colto da uno spavento orribile. Che succedeva? Mi rimisi in cammino. Ma l’ora? l’ora? chi mi avrebbe detto l’ora? Nessun orologio suonava ai campanili o negli edifici pubblici. Pensavo: “Adesso apro il vetro del mio cronometro e tasto le sfere con le dita”. Estrassi l’orologio: non batteva più, s’era fermato. Più nulla, più nulla, non un palpito nella città, non una luce, non la vibrazione di un suono nell’aria. Nulla! più nulla! nemmeno la corsa lontana della vettura di piazza – più nulla! Ero giunto sul Lungosenna, e una freschezza glaciale saliva dal fiume. La Senna scorreva ancora? Volli sapere: trovai la scala, discesi… Non udivo la corrente ribollire sotto gli archi del ponte… Qualche gradino ancora… poi sabbia… mota… poi acqua… vi tuffai il braccio… scorreva… scorreva… fredda… fredda… fredda… quasi

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gelata… quasi inaridita… quasi morta… E sentivo bene che non avrei mai più avuto la forza di risalire, e che sarei morto lì… anch’io, di fame… di stanchezza… e di freddo.

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Vernon Lee

AMOUR DURE (1890)

Di Vernon Lee, al secolo Violetta Paget (1856-1935), scrittrice inglese stabilitasi a Firenze, studiosa di storia e d’arte italiane, ha lasciato un bel ritratto Mario Praz (Il patto col serpente, Mondadori, 1972, e Voce dietro la scena, Adelphi, 1980). Questo racconto in cui uno studioso polacco s’innamora d’una terribile dama del Cinquecento marchigiano, fa germogliare la rievocazione d’un’epoca spietata (nel gusto dello Stendhal delle Cronache italiane) dallo scenario quotidiano della piccola vita provinciale ottocentesca delle nostre “città del silenzio”. Dalla magia antiquaria degli oggetti si scatena l’allucinazione visionaria. Un secolo fa ancora gli stranieri potevano vedere l’Italia come il paese dove il passato eternamente ritorna, custodito immobilmente, come l’idolo d’argento dentro la statua equestre del duca Roberto. Brani del diario di Spiridione Trepka Urbania, 20 agosto 1885. Per anni e anni avevo desiderato con tutto me stesso di venire in Italia e di trovarmi al cospetto del passato; ma era proprio questa l’Italia, questo il passato? Avrei potuto gridarlo, come poi feci in effetti, nella cocente delusione della mia prima passeggiata a Roma allorché, fornito d’un invito a colazione all’ambasciata tedesca, mi ritrovai scortato da tre o quattro vandali calati da Monaco o da Berlino che mi informavano su dove si potevano trovare crauti e birra e sul contenuto dell’ultimo articolo di Grimm o di Mommsen. Era follia, questa? O pura menzogna? Non son forse io stesso un prodotto della moderna civiltà del settentrione; non è forse dovuta la mia discesa in Italia a questo moderno vandalismo scientifico che mi ha gratificato d’una borsa di studio perché ho scritto un libro simile a tutti gli altri orrendi volumi di erudizione e di critica d’arte? E poi, non mi trovo qui ad Urbania con l’esplicito impegno di scrivere un altro di quei libri entro qualche mese? Riesci a immaginare, tu, miserabile Spiridione, tu, polacco che ti sei volto in pedante tedesco, dottore in filosofia e professore per giunta, autore d’un premiato volume sui tiranni del quindicesimo secolo, riesci a immaginare che tu, malgrado le credenziali del ministero e le bozze di stampa nelle tasche della giacca nera da professore, non potrai mai cogliere in spirito la presenza del passato? Amara verità, ahimè! Ma lasciate almeno che lo dimentichi ogni tanto, come me ne sono dimenticato questo pomeriggio mentre un paio di candidi bovi trascinava il baroccio pian piano, serpeggiando per convalli interminabili,

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arrancando per interminabili pendii, nell’ascoso brusio del torrente giù nella forra, circondato soltanto dalle nude vette, grigie e rossastre, che salgono fino a questa cittadella di Urbania, dimentica degli uomini, turrita e merlata sul crinale alto dell’Appennino. Sigillo, Penna, Fossombrone, Mercatello, Montemurlo… nomi di villaggi che mi richiamavano alla memoria, mentre il conducente me li additava, il ricordo d’una qualche battaglia o d’un tradimento efferato dei giorni che furono. E mentre i gioghi dei monti celavano il sole calante, e si colmavano le valli di un’ombra azzurrina e di foschia esonerando soltanto la minacciosa retroguardia di vette fumiganti di rosso, là oltre le torri e le cupole della cittadina a cavallo del monte; mentre il suono del vespro aleggiava perdendosi oltre Urbania precipite, ad ogni svolta della strada m’aspettavo che comparisse un gruppo di cavalieri, gli elmi a becco e le scarpe artigliate, con le loro scintillanti armature e i pennoni che garrivano nel tramonto. Poi non più di due ore dopo, mentre facevo il mio ingresso nella città all’imbrunire, percorrendo le strade abbandonate, schiarite qua e là da un lume fumoso sotto una maestà o dinnanzi ad una bancarella di frutta, o dal riverbero del fuoco che avvampa l’antro del fabbro, passando sotto i merli e i torricini del palazzo… Ah, questa era l’Italia, questo il passato! 21 agosto. E questo il presente! Quattro lettere di presentazione da scrivere e un’ora di formale conversazione con il viceprefetto, il sindaco, il direttore dell’archivio e quel buon uomo a cui mi ha indirizzato il mio amico Max per trovare un alloggio. 22-27 agosto. Passata gran parte della giornata a bazzicare l’archivio e qui la maggior parte del tempo a morire di noia ascoltando il direttore che mi ha recitato a macchinetta i commentari di Enea Silvio, per tre quarti d’ora, senza riprender fiato. Cerco di sfuggire a questa sorta di martirio con lunghe passeggiate senza meta per la città. Una città, questa, che è una manciata di casipole alte, nere, ammucchiate sulla vetta dell’alpe, con vicoli angusti che scivolano lungo gli opposti pendii, simili agli sdruccioli che nella fanciullezza ricaviamo dai poggi, e nel bel mezzo la mole di cuprei mattoni, superba, merlata e turrita, del palazzo del duca Ottobuono dalle cui finestre lo sguardo corre su un mare, o meglio su un gorgo, di grigie, malinconiche montagne. Poi c’è la gente: uomini dalla barba nera e cespugliosa che cavalcano come briganti, avvolti in ampi mantelli orlati di verde, in groppa a pelosi somari; e i giovinastri che bighellonano attorno, grandi, bruni, torvi, simili ai bravi multicolori degli affreschi del Signorelli; e i bei ragazzi di Raffaello dagli occhi bovini; e le femmine poderose, Madonne o Sante Elisabette a seconda dei casi, le cui salde dita mantengono i tacchi in non precario equilibrio e con

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essi le brocche di rame che torreggiano sulle loro teste mentre salgono e scendono le strade scure e scoscese. Non faccio granché parola a questa gente per paura che l’incantesimo svanisca. All’angolo di una via, proprio di rimpetto al bel portico di Francesco di Giorgio, c’è un cartellone rossazzurro con un angelo che piomba a incoronare Elias Howe per via delle sue macchine da cucire; e gli scrivani della viceprefettura che pranzano nella trattoria dove vado anch’io, e urlano parlando di politica: Minghetti, Cairoli, Tunisi, torpediniere ecc., o cantano certe romanze della Fille de Mme Angot che mi immagino abbiano da poco rappresentato da queste parti. No, è un esperimento pericoloso parlare con quelli del posto, ad esclusione forse del mio buon padrone di casa, il signor notaro Porri, persona istruita e assai meno adusa ad impippiarsi il naso di tabacco, e comunque sempre pronto a strusciarselo via di dosso, di quanto non lo sia il direttore dell’archivio. Mi sono scordato che abito nella casa di un antiquario. La mia finestra prende d’infilata la via maestra che porta fin dove una colonnina sormontata da una statua di Mercurio s’erge fra i tendoni e i portici del mercato. Sporgendomi oltre le cocciole scheggiate e i testi di odoroso basilico, di chiodi di garofano e di maggiorana, riesco a scorgere la sagoma dei torricini e più oltre il tenue azzurro oltremare delle colline circostanti. La casa, che sul retro sprofonda nella scarpata, è un saliscendi buio e ininterrotto di stanze sbiancate a calce alle cui pareti sono appesi dipinti di Raffaello, del Francia e del Perugino, quadri che il mio ospite trasloca nella bottega quando è atteso un forestiero. Dattorno ci sono antichi seggioloni intagliati, sofà stile impero, cassoni matrimoniali in pastiglia dorata, credenze stipate di pezze di antichi damascati e di tovaglie da altare dalle quali si sprigiona un forte sentore d’incenso e di stantio. Su tutto presiedono le tre sorelle nubili del signor Porri: la sora Anna, la sora Ludovica e la sora Adalgisa, le tre parche in persona, fuso e conocchia compresi. Il sor Asdrubale, è questo il nome del mio padrone di casa, fa anche il notaio. Lui rimpiange il governo papalino poiché un suo cugino era camerlengo d’un cardinale, ed è convinto che se si apparecchia una tavola per due, si accendono quattro ceri ricavati dal grasso d’un morto, e si compiono dei riti sui quali è stato piuttosto evasivo, è possibile evocare San Pasquale Baylon, nella notte di Natale o in occasioni consimili, per farsi dare i numeri del lotto: Però bisogna colpire il santo su entrambe le guance e recitare tre avemarie: lui allora ti scrive i numeri sul retro di un piatto affumicato. Il difficile è avere il grasso dei defunti per fare le candele e non meno colpire il santo con il piatto prima che il suo ectoplasma si dissolva. «Se non fosse per questo» sostiene il sor Asdrubale «il governo avrebbe abolito il lotto da un pezzo, eh, proprio così!»

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9 settembre. Alla storia di Urbania non manca un suo romanzo, anche se viene trattato con sufficienza dai nostri storici pedanti. Ancor prima di arrivare qui sono stato attratto dalla strana figura d’una donna scaturita dalle aride cronache locali di Gualterio e di Padre De Sanctis. Si tratta di Medea, figlia di Galeazzo IV Malatesta signore di Carpi e moglie dapprima di Pierluigi Orsini, duca di Stimigliano, e quindi di Guidalfonso II, duca di Urbania, predecessore del granduca Roberto II. La storia e il temperamento di questa donna la fanno assomigliare a Bianca Cappello e ad un tempo a Lucrezia Borgia. Nata nel 1556, all’età di dodici anni venne promessa sposa ad un cugino, un Malatesta di Rimini. Allorché decadde il prestigio di questa famiglia, la promessa fu ritirata e un anno dopo venne fatta fidanzare con un membro della famiglia Pico e a lui data in sposa per procura a quattordici anni. Ma poiché questo matrimonio non soddisfaceva né la sua ambizione, né quella del padre, la procura venne dichiarata nulla con qualche espediente, mentre venivano incoraggiate le aspirazioni del duca di Stimigliano, un grande feudatario umbro della famiglia Orsini. Tuttavia lo sposo, Gianfrancesco Pico, si ribellò, ricorse in appello al Papa e rapì con la forza la sposa della quale era follemente innamorato e che appariva una fanciulla amabile, gaia e dolce, come recita un cronista anonimo. Pico l’attese al varco mentre si recava in portantina ad una delle ville paterne e la condusse al suo castello vicino a Mirandola. Qui cercò, seppur con rispetto, di far valere i diritti di legittimo sposo. Ma la donna fuggì calandosi con una corda di lenzuoli annodati giù nel fossato. Più tardi scoprivano il cadavere di Gianfrancesco Pico pugnalato al cuore dalla mano di Madonna Medea da Carpi. Era un bel giovane di diciotto anni, non più. Chiuso il capitolo con il Pico, tanto più che il matrimonio nel frattempo era stato dichiarato nullo dal Papa, Medea da Carpi andò sposa in pompa magna al duca di Stimigliano e risiedette nelle sue terre non lontano da Roma. Due anni dopo uno scudiero del castello di Stimigliano, nei pressi di Orvieto, pugnalò a morte Pierluigi Orsini. Corsero dicerie sulla vedova tanto più che, subito dopo l’evento, lei stessa aveva fatto assassinare lo scudiero omicida da due suoi scherani, per di più in camera sua. Prima di morire lo sciagurato avrebbe confessato di avere ucciso il padrone su istigazione della donna e per amor suo. Sentendosi bruciare la terra sotto i piedi, Medea corse a Urbania e si gettò al cospetto del duca Guidalfonso II al quale dichiarò di aver fatto uccidere lo scudiero per preservare il buon nome che lui aveva oltraggiato, e di essere innocente circa la morte del marito. La folgorante beltà della vedova di Stimigliano, che era allora diciannovenne appena, fece girare la testa al duca. Questi mostrò subito di dar credito alla sua pretesa innocenza, rifiutò di rinviarla agli Orsini, parenti del defunto marito, e le assegnò i magnifici

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appartamenti che si trovano nell’ala sinistra del palazzo, compresa la sala con il famoso camino con putti marmorei su fondo azzurro. Guidalfonso s’innamorò alla follia della bella ospite. Sino ad allora uomo schivo e ritirato, non si peritò di ostentare incuria per la moglie, Maddalena Varano da Camerino, con la quale era vissuto felicemente, sebbene i due fossero senza prole. E non solo trattò con disprezzo i consigli dei suoi fiduciari e del legato del Papa, ma arrivò al punto da predisporre il ripudio della moglie prendendo a pretesto la sua cattiva condotta, del tutto immaginaria. La duchessa Maddalena, incapace di sopportare questo voltafaccia, si rifugiò nel convento delle carmelitane di Pesaro dove si strusse a poco a poco, mentre Medea da Carpi regnò in Urbania usurpando il suo posto e invischiando il duca Guidalfonso in liti sia con i potenti Orsini, che continuavano a ritenerla un’assassina, che con i parenti dell’offesa Maddalena, i Varano. Alla fine, nel 1576, divenuto vedovo all’improvviso e in circostanze misteriose, il duca di Urbania convolò a nozze con Medea da Carpi due giorni dopo il decesso della prima moglie. Da questo matrimonio non nacquero figli, ma era tale l’infatuazione del duca Guidalfonso che la nuova duchessa lo convinse, dopo aver ottenuto con difficoltà l’assenso papale, a intestare il ducato al piccolo Bartolomeo. Il bambino era nato dal matrimonio di Medea con lo Stimigliano, ma gli Orsini l’avevano sempre rifiutato come loro parente, ritenendolo figlio di quel Gianfrancesco Pico al quale Medea era andata sposa per procura e che aveva pugnalato per difendere, come sosteneva, l’onore. L’investitura di uno straniero, e per di più bastardo, a duca di Urbania ledeva i diritti del Cardinal Roberto, fratello minore di Guidalfonso. Nel maggio del 1579 il duca Guidalfonso spirò all’improvviso, in oscure circostanze, tanto più che Medea aveva sbarrato l’accesso alla sua camera nel timore che in punto di morte potesse reinvestire il fratello nei legittimi diritti. La duchessa fece subito proclamare suo figlio, Bartolomeo Orsini, duca di Urbania e se stessa reggente. Avvalendosi dell’aiuto di due o tre giovani senza scrupoli, tra i quali un certo Oliverotto da Narni, che si diceva fosse suo amante, prese le redini del ducato che resse con strenuo vigore, muovendo guerra agli Orsini e ai Varano, che furono difatti sconfitti a Sigillo, e togliendo di mezzo quanti avessero osato sollevare dubbi sulla legittimità della successione. Nel frattempo il Cardinal Roberto, messi da parte i voti e la porpora, si recò a Roma, a Venezia, in Toscana… sì, perfino alla corte dell’imperatore, in Spagna, a chiedere aiuti contro gli usurpatori. In breve volger di tempo riuscì a sottrarre ogni appoggio alla duchessa reggente: il Papa dichiarò con solennità che l’investitura di Bartolomeo Orsini non aveva alcun valore legale e reinvestì del ducato il cardinale a cui fu imposto il nome di Roberto II, duca di Urbania; il granduca di Toscana e i veneziani lasciarono

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intendere il loro favore a patto che Roberto fosse in grado di imporre i propri diritti con la forza. A poco a poco le città del ducato passarono dalla parte di Roberto e Medea si trovò assediata fra le montagne della sua cittadella come uno scorpione accerchiato dal fuoco. Si badi che questa similitudine non è mia, ma di Raffaello Gualterio, storiografo di Roberto II. Ma Medea non seguì il destino dello scorpione e non si suicidò. Sbalordisce ancora che essa avesse potuto tenere a bada i nemici per tanto tempo, priva di mezzi e di alleati com’era. Gualterio l’attribuisce a quel fascino fatale che aveva portato a morte Pico e lo Stimigliano e che aveva trasformato il buon Guidalfonso in un volgare fellone. Un fascino tale che tutti i suoi amanti s’erano immolati per lei, anche dopo essere stati trattati con ingratitudine e soppiantati da altri rivali. Raffaello Gualterio arriva ad attribuire questo, potere ad una connivenza diabolica. Alla fine l’ex cardinale Roberto riuscì ad imporsi ed entrò trionfante in Urbania nel novembre 1579. Il nuovo duca si comportò con moderazione e clemenza. Non ci furono esecuzioni capitali, se si esclude quella di Oliverotto da Narni che fu ucciso mentre tentava di pugnalare il duca al grido di «Lunga vita a Bartolomeo!». Il piccolo Bartolomeo fu spedito a Roma presso gli Orsini; la duchessa venne trattata con rispetto e confinata nell’ala sinistra del palazzo. Si dice che lei avesse avuto la sfrontatezza di chiedere di incontrare il duca, ma che questi, con un modo di fare tutto pretesco, si fosse limitato a citare i versi che narrano di Ulisse e delle Sirene. È comunque incredibile che si fosse sempre rifiutato di vederla, giungendo al punto di abbandonare la sala un giorno in cui la donna vi era entrata di sotterfugio. Qualche mese più tardi fu scoperto un complotto per assassinare il duca, ordito come s’immagina da Medea. Eppure il giovane congiurato, certo Marcantonio Frangipani da Roma, negò anche sotto le più atroci torture la complicità della donna. Al duca Roberto, alieno dal ricorrere a soluzioni estreme, non rimase che trasferire la duchessa dalla villa di Sant’Elmo al convento delle clarisse in città, dove fu posta sotto attenta sorveglianza. Sembrava impossibile che Medea potesse tesser trame di alcun genere, nel suo isolamento. Pure riuscì a fare avere una lettera e una sua miniatura a un certo Prinzivalle degli Ordelaffi, un giovane di diciannove anni, discendente da una nobile famiglia della Romagna e fidanzato con una delle più belle fanciulle di Urbania. In breve volger di tempo questi ruppe il fidanzamento e poco dopo attentò alla vita del duca Roberto con un pistoletto da tasca mentre questi stava inginocchiandosi per la messa grande del giorno di Pasqua. Questa volta il duca Roberto volle ottenere a tutti i costi le prove della colpevolezza di Medea. Prinzivalle venne affamato per diversi giorni, sottoposto a terribili supplizi e quindi condannato. Pochi attimi prima di essere spellato vivo e di

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venir squartato dai cavalli gli venne assicurata la grazia a patto che avesse ammesso la complicità della duchessa. Lo stesso confessore e le monache, che assistevano all’esecuzione fuori Porta Romana, si fecero dattorno a Medea perché, ammettendo la propria colpa, salvasse lo sciagurato di cui si potevano sentire le grida strazianti fin dentro il convento. Medea chiese licenza di assistere alla scena da un balcone, da dove poteva vedere Prinzivalle ed essere vista. Gettò un gelido sguardo sulla creatura martoriata lasciando cadere il fazzoletto ricamato. Allora lui chiese che il boia gli asciugasse la bocca con quel panno, poi lo baciò e gridò che Medea era innocente. Spirò dopo alcune ore di agonia. Era troppo anche per un individuo paziente come il duca Roberto. Convinto ormai che fin quando fosse vissuta Medea egli sarebbe stato in pericolo, pur volendo evitare uno scandalo (rimaneva sempre in lui qualcosa del prete), fece strangolare Medea in convento. C’è da notare che l’incombenza fu affidata esclusivamente a delle donne, due accusate di infanticidio alle quali fu rimessa la pena. «Questo principe pieno di clemenza» scrive Don Arcangelo Zappi nella vita di lui pubblicata nel 1725 «è biasimevole per una sola colpa, tanto più grave se si considera che egli stesso era stato uomo di chiesa fin tanto che il Papa non lo aveva esonerato dagli ordini sacri. Nel momento di sancire la morte dell’infame Medea, al fine di evitare che il suo incanto potesse aver presa su qualsiasi maschio, non solo ne affidò l’esecuzione alle donne, ma si sussurra che avesse interdetto preti e monaci dall’assisterla, così da farla morire senza assoluzione e in ogni caso senza che un soffio di penitenza avesse potuto alitare su quel cuore duro come il diamante.» 20 settembre. Grande luminaria per il quindicesimo anniversario della breccia di Porta Pia. La gente, qui, si sente italianissima ad eccezione del sor Asdrubale che scuote la testa parlando, come dice lui, di piemontesi. Da quando Urbania cadde in possesso del Sacro Soglio, nel 1657, ha avvertito il peso del giogo. 28 settembre. Sto cercando a dritta e a manca i ritratti della duchessa Medea. M’immagino che gran parte siano andati distrutti per opera di Roberto II, timoroso che la di lei letale bellezza potesse giuocargli qualche tiro birbone anche dopo la morte. Ne ho scoperti comunque tre o quattro: una miniatura che si trova nell’archivio e che si dice sia quella inviata al povero Prinzivalle per fargli dar di volta al cervello; un busto saltato fuori dai depositi del palazzo; poi un gran dipinto, attribuito al Barocci, che rappresenta Cleopatra ai piedi di Augusto. Augusto non è altro che la versione allegorica di Roberto II, e pur sotto i panni del romano si notano la tipica testa rotonda e rapata, il naso un po‘ storto, la barba rasa e la ben nota cicatrice. Per quanto in fogge

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orientali e con parrucca nera, Cleopatra sta a rappresentare, almeno credo, Medea da Carpi. La donna, in ginocchio, ostenta il bel seno e l’offre all’ira del vincitore, ma più per ammaliarlo che per essere colpita, mentre l’uomo si volge con uno strano gesto di disgusto. Sono ritratti di fattura mediocre, esclusa la miniatura che è squisita. Con l’aiuto di quest’ultima e di certi indizi del busto non è difficile farsi un’idea della bellezza di questa femmina terribile. Si tratta del tipo di donna in voga nell’ultimo rinascimento e in certo senso immortalato da Jean Goujon e dalla scuola francese. Il volto è di un ovale perfetto, con la fronte piuttosto arrotondata, incorniciata di minuscoli riccioli, quasi fiocchi di lana, color biondo rame, lucenti; il naso tende appena all’aquilino e gli zigomi sono un po‘ bassi; gli occhi grigi, grandi, prominenti, sotto le sopracciglia dal disegno perfetto, si schiudono fra le palpebre un po‘ troppo tirate agli angoli; anche la bocca, d’un rosso vivo e dal contorno irreprensibile, sembra leggermente tesa e con essa le labbra con quel loro arricciarsi vago sui denti candidi. La tensione appena percettibile delle palpebre e delle labbra le conferisce un che di raffinato e di misterioso, una sinistra seduzione. Occhi e labbra sembrano fatti per prendere e non per dare. Con quella sorta di broncio infantile, la bocca pare adatta a mordere o a suggere come una sanguisuga. L’incarnato è abbagliante: il bianco rosato, trasparente, di una bella donna dalle chiome rosse. Il capo, col suo diadema di riccioli elaborati e la capigliatura trapunta di perle, tirata per mettere in risalto l’ovale del volto, poggia come quello dell’antica Aretusa, sul collo lungo, pieno, di cigno. Una beltà a suo modo inconsueta, ma a prima vista convenzionale, artificiosa, piena di voluttà eppur gelida. E tuttavia più la si guarda e più comunica un senso di inquietudine. Porta al collo una catena d’oro dalle maglie intervallate da losanghe che recano inciso un motto, o un gioco di parole (secondo la moda francese del tempo), «Amour Dure -Dure Amour». Il medesimo motto si trova nell’incavo del busto e suo tramite mi è stato possibile identificarlo per quello di Medea da Carpi. Ho esaminato con cura questi tragici ritratti e mi son chiesto sovente cosa esprimesse questo volto, capace di condurre tanti uomini a morte, quando ancora parlava e sorrideva, quando affascinava le sue vittime di un amore funereo: «Amour Dure – Dure Amour», duro l’amor, l’amor che dura; già, proprio così, quando si pensa alla cieca fedeltà e al destino dei suoi amanti. 13 ottobre. Questi giorni non ho avuto nemmeno il tempo di scrivere un rigo del diario. Le mattinate le ho passate tappato nell’archivio, i pomeriggi ho fatto lunghe passeggiate in questo incantevole autunno (le colline più alte recan già tracce di neve). Le sere poi scrivo una confusa relazione sul palazzo ducale, richiestami dal governo, giusto per tenermi occupato in qualcosa di inutile. Della mia storia non sono stato capace di scrivere nemmeno una

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parola… A proposito, devo annotare un particolare curioso che ho trovato quest’oggi in un manoscritto sulla vita del duca Roberto. Quando il duca fece sistemare nel cortile del palazzo la propria statua equestre, opera di Antonio Tassi, discepolo del Gianbologna, ordinò di fondere in tutta segretezza una statuirla d’argento del suo genio familiare o angelo protettore, come recita il MS «familiaris ejus angelus seu genius, quod a vulgo dicitur idolino»; quindi la statuetta, dopo essere stata consacrata dagli astrologi, «ab astrologis qui - busdam ritibus sacrato», fu riposta nella cavità del torso della statua eseguita dal Tassi, affinché la sua anima potesse riposare fino al giorno della resurrezione universale. È una notizia curiosa, sconcertante; come poteva l’anima del duca Roberto attendere la resurrezione quando, da buon cattolico, avrebbe dovuto credere che ogni anima, una volta liberatasi dalla carne, non ha altra via che la mondazione del purgatorio? Forse una qualche superstizione pagana, propria del rinascimento anche se improbabile in uno che aveva vestito la porpora cardinalizia, stabiliva un nesso fra l’anima e il genio tutelare, tanto da credere che la confissione di quest’ultimo nella creta per forza di magici riti («ab astrologis sacrato», recita il MS), potesse permettere all’anima di riposare nel corpo sino al giorno del giudizio? Ammetto che questa faccenda mi frastorna. Mi chiedo addirittura se sia mai esistito, o se esista ancora, questo idolino dentro la statua bronzea del Tassi. 20 ottobre. In questi ultimi tempi mi incontro spesso con il figlio del viceprefetto: un giovane piacente, dal volto malato d’amore e un tiepido interesse per la storia e l’archeologia dì Urbania della quale non sa nulla. Questo giovane, che è vissuto a Lucca e a Siena prima che il padre fosse trasferito qui, veste pantaloni troppo lunghi e attillati che gli impediscono di piegare i ginocchi, porta sempre colletti inamidati e occhialini, oltre a un paio di guanti di pelle finissima infilati nel panciotto. Di Urbania parla come Ovidio parlava del Ponto e si lagna sempre dei rozzi giovanotti, gli scrivani che pranzano alla taverna dove mangio anch’io e che gridano e cantano come forsennati, e dei signorotti locali che vanno in giro con i calessini, tutti scollacciati come signore al ballo. Lui mi parla a lungo dei suoi amori, passati, presenti e futuri. Deve trovarmi un individuo strano dal momento che non ho esperienze amatorie da narrargli a mia volta. Per strada ha l’abitudine di indicarmi a dito le servette carine (o brutte) sulle quali ci imbattiamo, o le sartine; oppure si mette a fare il cascamorto e a canticchiare dietro ogni donna appena passabile. Alla fine mi ha condotto a casa della donna del suo cuore, una contessa imponente, baffuta e dalla voce da pescivendola. Qui, dice lui, potrò incontrare il gran mondo e qualcuna delle belle di Urbania… troppo belle, ahimè! La casa consiste in tre stanzoni semi ammobiliati, dai pavimenti in mattoni senza uno straccio di tappeto, con lampade a petrolio e

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orribili quadri appesi alle pareti lerce come quelle d’una latrina. E tutte le sere la solita cricca seduta in cerchio che chiacchiera a voce alta riferendo novità vecchie d’un anno. Le signore più giovani, in abiti verdi o gialli, sgargianti, si sventolano, mentre io batto i denti dal freddo, allorché i loro damerini sussurrano qualche sciocchezza dietro il ventaglio agitando i favoriti irti come scopettoni. E queste sarebbero le donne di cui dovrei innamorarmi? Dopo l’attesa vana della cena, o almeno di un tè, corro a rintanarmi a casa mia, deciso a non frequentar più il beau monde di Urbania. Che non abbia amori è vero, sebbene il mio amico non lo voglia intendere. Quando venni in Italia, da principio, ero assetato di avventure romantiche. Come Goethe a Roma sospiravo in attesa che si schiudesse una finestra e apparisse una creatura incantevole, «Welch mich versengend erquickt». Forse dipende dal fatto che Goethe era tedesco, abituato alle Fraus del suo paese, ed io dopo tutto un polacco avvezzo a qualcosa di molto diverso dalle Fraus. Ad ogni buon conto, per quanti sforzi facessi a Roma, a Firenze e a Siena, non mi capitò di incontrare donne che andassero pazze per me, né fra le signore che masticavano un francese orribile, né fra le popolane, furbe e fredde come strozzini. Così mi tengo alla larga dalle femmine italiane, dalle loro voci acute e le sgargianti toilettes. Ho contratto matrimonio con il passato, la storia, con donne come Lucrezia Borgia, Vittoria Accoramboni o, come oggi, con Medea da Carpi. Un giorno, chissà, avrò una grande passione, una donna per la quale fare il Don Chisciotte, da quel polacco che sono; una donna per la quale bere nelle sue scarpine, per il cui piacere morire. Ma qui, no di certo! Ci sono poche cose che mi colpiscono come la decadenza delle donne italiane. Che ne è stato della razza delle Faustine, delle Marozie, delle Bianche Cappello? Dove trovare oggi (ammetto che mi perseguita questa donna) una Medea da Carpi? Se fosse mai possibile incontrare una donna di sì raffinata beltà, di indole così tremenda, seppur solo in potenza, sono convinto che me ne innamorerei fino al giorno del giudizio, come accadde a Oliverotto, al Frangipane e al Prinzivalle. 27 ottobre. Sentimenti di gran distinzione questi per un professore, un erudito? A suo tempo ho giudicato gli artisti che frequentavo a Roma troppo fanciulleschi perché schiamazzavano di notte per le vie o si lasciavano andare a burle tornando dal Caffè Greco o dalla cantina di via Palombella. Quasi non fossi io stesso ancor più ragazzo… io, il melanconico, il tetro Amleto o il Cavalier Dolente, come mi chiamavano loro. 5 novembre. Non riesco a liberarmi del pensiero di Medea da Carpi. Durante le passeggiate, le mattine in archivio, le serate solitarie mi sorprendo spesso a pensare a questa donna. Mi chiedo se sto diventando un romanziere invece di

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uno storico. Eppure mi sembra di capirla, molto meglio comunque di quanto lo consentano i dati di cui dispongo. Innanzi tutto dobbiamo metter da parte la pedantesca, moderna distinzione di ciò che è giusto da ciò che non lo è. Giusto e ingiusto non hanno sudditanza in un’epoca di violenze e di tradimenti, e men che meno per creature come Medea. Sarebbe come volerlo insegnare ad una tigre! Esiste al mondo essere più nobile di questa possente creatura, di questa molla d’acciaio, di questo passo vellutato, quando allunga il corpo flessibile, o si liscia il pelo superbo, o serra con le potenti ganasce il corpo della vittima? Sì, Medea riesco a capirla. Immaginiamo una donna di eccelsa beltà, temeraria, padrona di sé, una donna di grandi risorse, geniale, allevata da un signorotto che le abbia fatto leggere Tacito e Sallustio e le abbia narrato le storie dei Malatesta, di Cesare Borgia e personaggi consimili… una donna che ha una unica passione: il potere: il comando… immaginiamola quando, alla vigilia delle nozze con un potente come il duca di Stimigliano, viene reclamata, anzi rapita da un mediocre come Pico, racchiusa nel suo castellaccio di brigante e costretta a subire l’assalto amoroso di questo pazzo, quasi fosse un atto necessario e onorevole! Il solo pensiero di far violenza ad una simile creatura è di per sé un oltraggio; e se Pico preferisce abbracciarla, col rischio di incontrare fra le braccia di lei la lama gelida d’un pugnale, è affar suo. È un atto spregevole, ma se si vuole anche eroico, pensare di comportarsi con lei come con qualsiasi ragazzotta del villaggio. Medea impalma il suo Orsini: un matrimonio, si noti bene, fra un vecchio d’armi e una giovinetta sedicenne. E cosa significa questo? Significa che questa donna dal carattere volitivo vien presto considerata come un oggetto, un possesso, una buona soltanto a scodellare l’erede al suo signore; una che deve far la riverenza ai consiglieri del duca, ai capitani, alle damigelle; che non deve porre domande, che rischia percosse e improperi al minimo segno di rivolta, o di venir gettata in una segreta o strangolata o fatta morire d’inedia al minimo sospetto d’infedeltà. Supponiamo allora che lei sappia che il marito la sospetta per aver guardato con troppa insistenza questo o quello, o che qualche cortigiano, o una damigella gli abbiano sussurrato all’orecchio che, dopo tutto, il piccolo Bartolomeo può essere benissimo un Orsini come un Pico. Supponiamo dunque che lei sappia che deve colpire o esser colpita. Sferra il colpo o ne affida ad altri l’esecuzione. E a quale prezzo? Una promessa d’amore, amore per uno scudiero, il figlio d’una sguattera! Già, costui deve essere matto transito o ubriaco per crederci; il fatto stesso che l’abbia ritenuto possibile lo rende punibile con la morte. E poi osa anche piatire! Costui è peggiore del Pico. Medea è costretta a difendere una seconda volta il proprio onore: se ha potuto pugnalare il Pico, non ci sono problemi con questo stolto, sia che lo faccia lei o l’affidi ad altri.

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Inseguita dall’orda dei parenti, si rifugia a Urbania. Come prima gli altri uomini, anche il duca si invaghisce di Medea e prende a trascurare la consorte; diciamo pure che le spezza il cuore. È forse colpa di Medea? Dipende da lei se i ciottoli che ruzzolano sotto le ruote del suo carro son destinati ad essere stritolati? Pensate forse che una donna come Medea abbia potuto nutrire un qualche malanimo verso una donnetta come la duchessa Maddalena? Diciamo che ne ignora semplicemente l’esistenza. È grottesco definirla una donna crudele, o magari immorale. Il suo destino è quello di trionfare, prima o dopo, sui nemici; di volgere le loro vittorie in cocenti sconfitte. È in suo potere rendere schiavi quanti si trovano sul suo cammino; quanti la vedono ne restano folgorati, e il destino dei suoi schiavi è segnato fin da principio. Ad eccezione del duca Guidalfonso, i suoi amanti corrono verso la morte; e anche in questo non c’è nulla di ingiusto. Possedere una donna come Medea è una felicità troppo grande per un mortale; ciò lo manda via di senno, gli fa dimenticare perfino di quanto le sia debitore. A nessuno che possa accampare diritti su di lei è concesso di sopravvivere; sarebbe un sacrilegio. Solo la morte, la volontà di immolarsi per una tale beatitudine rende l’uomo degno di essere suo amante. Costui deve amare sapendo che ciò implica sofferenza e distruzione. Ecco il significato dell’enigma che porta su di sé: «Amour Dure – Dure Amour». L’amore di Medea è imperituro, seppur letale, per l’amante: un amore duraturo e crudele. 11 novembre. Ci avevo preso in pieno. Ho scovato… Pieno di esultanza ho invitato il figlio del viceprefetto ad una cena di cinque portate alla “Trattoria Stella d’Italia”… Ho scovato nell’archivio un pacchetto di lettere di cui ignorava l’esistenza persino il direttore… lettere del duca Roberto su Medea e di Medea stessa! Sì, proprio la scrittura di Medea… una grafia rotonda, di persona colta, con diverse abbreviazioni, un’aria grecizzante quale doveva addirsi ad una principessa di rango capace di leggere Platone come Petrarca. Di per sé le lettere contan poco, minute di affari da passare al copista, scritte durante il periodo in cui signoreggiava sul gracile Guidalfonso. Ma sono pur sempre le sue lettere e quasi mi sembra che da questi frammenti cartacei che si riducono in polvere aliti il profumo di una chioma femminile. Le poche lettere del duca Roberto gettano una nuova luce su questo personaggio. Un prete fino in fondo all’anima, gelido, astuto, e codardo. Il solo pensiero di Medea lo fa tremare… «la pessima Medea»… peggiore dell’omonima eroina della Colchide, come la definisce lui. La clemenza dimostrata per lunghi anni è solo il frutto della paura che lo attanaglia ogni volta che pensa di sbarazzarsi di lei. Ne è terrorizzato quasi fosse qualcosa di sovrannaturale; gli piacerebbe farla bruciare come una strega. Le missive

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inviate al cardinale Sanseverino, a Roma, narrano delle infinite precauzioni che deve prendere giornalmente, come l’indossare un corsetto di maglia d’acciaio sotto il giustacuore, bere solo quel latte che ha visto mungere, gettar bocconi al cane per evitare d’essere avvelenato, sfuggire le candele di cera per via del loro profumo, astenersi dalle passeggiate fuori porta affinché nessuno possa fargli rompere l’osso del collo imbizzarrendo il cavallo… e oltre questo, un due anni dopo che Medea è stata sepolta, lui blatera ancora della paura che ha di incontrarne l’anima dopo la morte e scherza a proposito di quell’ingegnosa trovata (opera d’un astrologo e di un certo Fra Gaudenzio, un cappuccino) grazie alla quale sarà in grado di assicurarsi la requie eterna fino a quando l’anima della malvagia Medea sarà per sempre «confitta nei gorghi di pece bollente o nel ghiaccio di Caina». Ecco allora la spiegazione della statuetta d’argento – «quod a vulgo dicitur idolino» — che fece saldare nella cavità della sua stessa effigie plasmata dal Tassi. Finché l’immagine della sua anima fosse rimasta attaccata a quella del corpo avrebbe riposato in attesa del giorno del giudizio. E mentre quella di Medea sarebbe rimasta impaniata nella pece infernale, la sua sarebbe volata dritta in cielo. E pensare che non più di due settimane fa lo consideravo un eroe. Mio caro duca Roberto, narrerò di te nella mia storia e nemmeno cento idoli potranno salvarti dal ludibrio. 15 novembre. Strano! Sebbene mi abbia sentito parlare di Medea da Carpi tante volte, quello stolto del figlio del viceprefetto si ricorda all’improvviso che quando era bambino qui a Urbania, la nutrice soleva spaventarlo dicendogli che sarebbe venuta a prenderlo Madonna Medea, quella che vola a cavallo d’un caprone. 20 novembre. Sono stato in giro con un professore bavarese di storia medievale a fargli vedere le località circostanti. Fra le altre siamo andati a Rocca Sant’Elmo per visitare l’antica villa dei duchi di Urbania dove fu confinata Medea nel periodo che va dall’avvento del duca Roberto al complotto del Frangipani. È stata una lunga cavalcata lungo le valli desolate dell’Appennino, brullo oltre ogni dire, accompagnati dalla frangia trasparente di quercioli color ruggine, fra chiazze d’erba cui il gelo conferisce lo splendore della seta e le ultime foglie ingiallite dei pioppi che rabbrividiscono e sciamano via lungo i fossi al soffio della tramontana. Le cime dei monti sono avvolte di grigia caligine; se domani continua il vento si staglieranno come bianche masse contro il cielo gelido e azzurro. Sant’Elmo è un misero villaggio appollaiato sul crinale dell’Appennino, lassù dove la macchia mediterranea ha da tempo lasciato il posto ad una vegetazione nordica. Si prosegue per miglia fra boschi di castagni spogli, nell’aria satura

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dell’afrore di foglie marcescenti, assordati dai rovinosi ruscelli che le piogge d’autunno han reso lutulenti e gagliardi, salendo e risalendo sull’orlo del precipite botro. Poi all’improvviso i nudi castagni lasciano il posto, come a Vallombrosa, alla cintura nera e densa dell’abetaia. Superata questa barriera si giunge ad uno spiazzo: pascoli inariditi dal gelo, rocce coperte di neve fresca, incombenti; poi nel bel mezzo, su un poggio, fra due larici rattrappiti, ecco la villa ducale di Sant’Elmo, un gran cubo di pietra nera con uno stemma d’arenaria, le finestre protette da grate e due rampe di scale sul prospetto. Ai giorni nostri l’hanno data in affitto al proprietario dei boschi circostanti che se ne serve come deposito di castagne, di fascine e per raccogliervi i prodotti delle carbonaie che fumigano dattorno. Legammo i cavalli agli anelli rugginosi ed entrammo; dentro c’era solo una vecchia scarmigliata. La villa è un casino di caccia, fatto costruire dal duca Ottobuono IV, padre di Guidalfonso e di Roberto, intorno al 1530. Un tempo alcune stanze dovevano essere state affrescate o foderate di quercia intagliata, anche se oggi non resta alcuna traccia di decorazione. Solo in uno dei saloni rimane un gran camino in marmo, simile a quello del palazzo ducale, con putti scolpiti di contro alla campitura azzurra, mentre su entrambi gli stipiti un amorino nudo regge un bacile, l’uno colmo di garofani, l’altro di rose. La stanza è un ammasso di fascine. Ripartimmo molto tardi. Il mio compagno era di pessimo umore per la ricerca infruttuosa. Entrando nel bosco di castagni fummo sfiorati da una bufera di neve. La vista della neve, nonché della terra e dei cespugli imbiancati mi fece sentire per un attimo a Posen, ancora bambino. Mi misi a cantare e a gridare con grande sdegno del mio compagno. Se lo riferirà a quelli di Berlino non tornerà certo a mio vantaggio. Figuriamoci, uno studioso di storia che si mette a gridare e a cantare mentre il collega impreca contro le strade sconnesse e la neve! Sono rimasto sveglio tutta la notte a contemplare i tizzoni spenti del camino, riandando col pensiero a Medea intrappolata, nel cuore dell’inverno, nel remoto castello di Sant’Elmo, fra il gemito delle abetaie, il rombo dei torrenti, la neve che pone l’assedio, miglia e miglia lontana dagli esseri viventi. Mi sembrava di vederla, la scena, ed io che corro a liberarla… Ma era solo l’effetto della stanchezza, dell’aria pungente per la prima neve, o forse del punch che il professore mi aveva fatto trangugiare a tutti i costi dopo cena. 23 novembre. Grazie a Dio il professore bavarese se n’è andato, finalmente. La sua presenza minacciava di farmi ammattire. Parlandogli del mio lavoro, un giorno gli raccontai di Medea e delle mie teorie. Lui si degnò di rispondere che si trattava delle solite leggende frutto della tendenza mitopoetica (vecchio scemo!) del rinascimento; che la ricerca storica le avrebbe in massima parte

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sconfessate, così come era accaduto con quelle dei Borgia; e che una donna come gliela avevo descritta io non aveva alcun fondamento reale, né psicologico, né fisiologico. Volesse il cielo che si potesse dire lo stesso di certi professori come lui e i suoi colleghi! 24 novembre. Non riesco ad esprimere la gioia per essermi liberato di quello stolto. Ero spinto dall’impulso di strozzarlo ogni volta che nominava la Signora dei miei pensieri - perché tale è diventata – Metea, come la chiamava quell’animale! 30 novembre. Mi sento scombussolato da quanto è appena successo. Temo che quella calìa del vecchio abbia ragione quando sostiene che faccio male a vivere tutto solo in un paese straniero e che la mia condotta ha un che di malsano. È ridicolo sentirmi così eccitato per la casuale scoperta, e non altro, del ritratto d’una donna deceduta trecento anni fa. Con il caso di mio zio Ladislao e il sospetto di altre tare mentali in famiglia, dovrei guardarmi davvero da certe folli eccitazioni. Eppure è stato un avvenimento drammatico, misterioso. Avrei giurato di conoscere a menadito tutti i quadri del palazzo e soprattutto i ritratti di lei. Sia come sia, mentre stamattina stavo sortendo dall’archivio son passato per uno dei tanti sgabuzzini – veri e propri studioli dalla pianta irregolare – che articolano l’entrata e l’uscita di questo curioso palazzo munito di torricini come uno château francese. Dovevo esserci passato altre volte perché la vista che si scorgeva dalla finestra mi era familiare: l’inconfondibile tratto della torre cilindrica di rimpetto, i cipressi dall’altra parte della scarpata, più oltre il campanile e, contro il cielo, il profilo del monte Sant’Agata e della Leonessa coperta di neve. Credo che ci siano due stanzini uguali e forse avevo imboccato quello sbagliato, o magari avevano aperto un’imposta, tirato una tenda, non so. Passando scorsi uno specchio antico, stupendo, dimenticato sulla parete scura chiazzata di giallo. Mi avvicinai e, mentre osservavo la cornice, l’occhio mi cadde inavvertitamente sulla luce dello specchio. Ebbi un sussulto e quasi uscii in un grido. Dietro la mia immagine riflessa ce n’era un’altra, una figura che mi stava a ridosso, il volto accanto al mio. La figura, il volto, erano proprio i suoi! Medea da Carpi! Mi girai di botto, bianco, credo, come il fantasma che m’aspettavo di vedere. Sulla parete di fronte allo specchio, a un paio di passi da dove mi trovavo, era appeso un ritratto. E che ritratto! Nemmeno il Bronzino ne ha dipinto uno simile. Sullo sfondo d’un azzurro cupo, aspro, si stacca la figura della Duchessa seduta, in statica positura, su un seggiolone dall’alto schienale, irrigidita, per così dire, dalla veste d’un metallico broccato e dal corsetto reso ancor meno flessibile da placche a fiorami ricamate in argento e intessute di

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fili di perle. Trapunta d’argento e di perle, la veste ha un colore strano, un rosso spento, il colore malefico del succo di papavero, contro il quale la carne delle mani esili, lunghe e dalle dita affusolate, e quella del collo elegante e del volto dalla fronte nuda assume un biancore gelido, come di alabastro. Il volto è il medesimo degli altri ritratti: la stessa fronte ricurva incorniciata di riccioli corti e morbidi fra il rosso ed il giallo; le stesse sopracciglia dalla fine arcatura, accennate appena; le stesse palpebre appena socchiuse; le stesse labbra vagamente tirate, ma il tutto con una purezza di tratti, un abbagliante fulgore dell’incarnato e un’intensità dello sguardo che non hanno paragone con gli altri ritratti. Ella guarda dalla cornice con uno sguardo freddo, misurato; eppure le labbra accennano ad un sorriso. Una mano regge una rosa dal colore rosso spento; l’altra, esile e lunga, giocherella con un cordoncino d’oro e di seta e con i gioielli che le pendono sul petto; attorno al collo, che ha il candore del marmo ed è delimitato dal rosso smorto dell’attillato corsetto, porta un collare d’oro con un medaglione smaltato sulla cui faccia è inciso il motto: «Amour Dure – Dure Amour». A ripensarci bene non c’ero mai entrato in quello stanzino o studiolo che fosse; dovevo aver sbagliato porta. Per quanto la spiegazione sia così semplice, dopo diverse ore mi sento ancora scosso in tutta la persona. Se continua questa tensione, dovrò andare a Roma per Natale a prendermi qualche giorno di vacanza. Mi sento come se qualche pericolo stesse incombendo su di me, qui; eppure, eppure, non vedo come riuscirò a staccarmene. 10 dicembre. Anche se a malincuore ho accettato l’invito del figlio del viceprefetto ad andare a vedere la spremitura delle olive nella loro villa, non lontano dal mare. La villa, oggi una fattoria, era un tempo una fortezza turrita; s’eleva sul pendio d’un colle schiarito dagli ulivi e da ciuffi di vincastri che sembrano fiammate arancioni. Le olive le spremono in una cantina buia, paurosa, simile a una segreta. Al riverbero della luce del giorno bigia e lontana, al bagliore giallognolo e fumigante di resinosi stoppaccini messi a bruciare nei barattoli, si scorgono bovi bianchi che girano attorno a un immenso frantoio; figure indefinite armeggiano con stanghe e pulegge: mi sembra di rivivere una scena dell’inquisizione. Il Cavaliere volle farmi assaggiare il suo vino buono e dei biscotti. Camminai a lungo sulla spiaggia. Avevo lasciato Urbania avvolta in una bufera di nevischio; sulla costa splendeva un bel sole che, insieme all’aria salmastra e al traffichìo del porticciolo sull’Adriatico, mi rinfrancarono. Tornai ad Urbania che ero un altro. Il sor Asdrubale, il padrone di casa, ramestando fra le casse dorate, i sofà impero, le antiche chicchere e i piatti e i quadri che non trovano

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acquirenti, si congratulò per la mia buona cera. «Lei lavora troppo, sa. I giovani si devono divertire: il teatro, il passeggio, gli amori. Quando avrà la zucca pelata, sarà il tempo di metter giudizio» e così dicendo si tolse la papalina rossa, bisunta. Sì, mi sento proprio meglio. Lo avverto da come riesco ad applicarmi al lavoro. Gliela farò vedere io a quelle mummie di Berlino. 14 dicembre. Il lavoro mi approda come non mi è capitato mai. Mi appare tutto chiaro: il duca Roberto, volpino e codardo, la malinconica duchessa Maddalena, il fragile, pretenzioso duca Guidalfonso innamorato della cavalleria, e soprattutto la splendida figura di Medea. Mi sembra di essere lo storico più famoso di tutti i tempi, ed un ragazzetto di dodici anni. Ieri è nevicato sulla città, per due ore filate. Quando smise, scesi per strada e insegnai ai ragazzi a fare un pupazzo di neve, anzi una pupattola. Mi venne il ghiribizzo di chiamarla Medea. «La pessima Medea!» gridò uno di loro. «Quella che vola a cavallo d’un caprone?» «No» dissi «era una donna bella, la duchessa di Urbania, la più bella che sia mai esistita.» Le feci una coroncina di filo argentato e spinsi i ragazzi a gridare: «Evviva Medea!». Ma uno di loro si indispettì: «È una strega, diamole fuoco!». Al che corsero tutti a raccogliere rami secchi e a procurarsi della stoppa. In pochi minuti quei demoni urlanti l’avevano fatta liquefare. 15 dicembre. Gonzo che non sono altro, e pensare che ho ventiquattro anni e un nome in campo letterario! Durante le mie lunghe passeggiate ho composto un’aria che la gente ora canta e fischietta per via, dai versi in un italiano impossibile: «Medea, mia dea…» e altre sciocchezze del genere. Il padrone di casa credo che l’abbia presa per una donna che avrei incontrato al mare. Anche le tre parche pensano a qualcosa del genere. Oggi pomeriggio, al tramonto, mentre mi rassettava la stanza, la sora Ludovica mi ha detto: «Come ha imparato a cantar bene il signorino!». Non m’ero nemmeno accorto che stavo canticchiando «Vieni, Medea, mia dea», mentre la vecchia ballonzolava qua e là attizzando il fuoco. Smisi subito. Mi son fatta una bella reputazione! Son sicuro che presto lo sapranno a Roma, e poi a Berlino. La sora Ludovica intanto si spenzolava al davanzale per tirar su il gancio che regge il lume davanti alla loro casa. Mentre stava smoccolando la candela prima di far calare di nuovo la lanterna, ammiccò con quel suo modo strano e ritroso: «Fai male a smettere di cantare, figlio mio, perché giù c’è una giovane che si è fermata ad ascoltare». Corsi alla finestra. Sotto un arco c’era una donna avvolta in uno scialle nero che guardava verso la finestra. «Eh, eh! Il signor professore ha chi l’ammira!» disse la sora Ludovica.

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«Medea, mia dea!» gridai forte, nell’intento fanciullesco di mettere in imbarazzo la curiosa passante. Quella si volse all’improvviso per andarsene, agitando la mano verso di me. Nel medesimo istante la sora Ludovica fece ricalare al suo posto la lanterna. Una chiazza di luce illuminò la strada. Mi sentii gelare. Quella donna aveva il volto di Medea da Carpi. Sono proprio matto, matto da legare. 17 dicembre. Temo che questa infatuazione per Medea sia diventata la storiella del giorno, grazie alle mie sciocche chiacchiere e alle stupide canzoncine. Il figlio del viceprefetto, o l’impiegato dell’archivio, o magari qualcuno degli amici della contessa, chissà, sta cercando di farmi uno scherzo. Ma state attenti, cari signori, che vi risponderò pan per focaccia. Immaginate quel che ho provato questa mattina allorché ho visto sopra la scrivania un foglio piegazzato in quattro, sul quale appariva il mio nome in una calligrafia strana eppure familiare. Un attimo, e ho riconosciuto il tratto inconfondibile delle lettere di Medea da Carpi che si trovano nell’archivio. Ho avuto un tuffo al cuore. Questione di un secondo e ho pensato subito al regalino di qualcuno che la sa lunga sul mio interessamento per Medea… a una delle sue lettere autografe sulla quale qualche bellimbusto avesse scritto il mio indirizzo invece di infilarla dentro una busta. Ma non si trattava di una antica missiva, bensì di quattro righe, asciutte, indirizzate proprio a me: «Una persona che ben sa l’interessamento che Spiridione ha mostrato nei suoi confronti si farà trovare questa sera alle nove nella chiesa di S. Giovanni Decollato. Cerchi dunque una donna con uno scialle nero e una rosa in mano nella navata sinistra». A questo punto capii di essere vittima di una congiura, di una beffa. Rigirai la lettera fra le mani. L’avevano scritta su carta antica, proprio di quella comune nel sedicesimo secolo, e con una calligrafia che sembrava ricalcata su quella di Medea. Chi l’aveva vergata? Passai in rassegna gli eventuali esecutori. Doveva essere stato proprio il figlio del viceprefetto, forse con lo zampino della sua innamorata, la contessa. Senza dubbio avevano strappato un foglio bianco da qualche antica missiva, e fin qui poco male. Quello che mi sconcerta è che uno dei due abbia avuto l’ingenuità di giocarmi questo tiro e allo stesso tempo l’abilità di creare un falso irreprensibile. Questa gente la sa più lunga di quanto pensassi. Come devo comportarmi con loro? Facendo finta di niente? Contegno e indifferenza ci vuole. No, andrò. Forse ci sarà qualcuno e così potrò scoprire l’artefice. Già, ma se non ci trovo nessuno, come faccio a canzonarli per il loro scherzo mal riuscito? Forse si tratta di una trovata del cavalier Muzio per farmi incontrare quella che in cuor suo pensa che sarà la mia futura fiamma. È probabile che sia così. Sarebbe troppo sciocco e presuntuoso respingere un invito simile. Dopo tutto merita fare la conoscenza di una donna capace di simulare a questo modo la scrittura del

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cinquecento. Quel damerino di Muzio non ne sarebbe capace. Andrò, in nome del cielo! E li ripagherò come si meritano. Sono le cinque… come passa lento il tempo. 18 dicembre. Mi dà di volta il cervello o i fantasmi esistono per davvero? Quello che è successo ieri notte mi ha sconvolto. Uscii alle nove, secondo l’ingiunzione della lettera. Era un freddo terribile: bruma e nevischio nell’aria. Non una bottega aperta, serrate le imposte, deserto assoluto. La luce smorta delle rare lanterne con il loro riflesso giallastro e tremolante sui drappi intirizziti rendeva ancor più tenebrose le buie e anguste piole che si scapicollano fra le alte mura e sotto i presuntuosi archivolti. San Giovanni Decollato è una chiesa minuscola, o piuttosto un oratorio, che ho sempre visto chiusa come capita qui a molte altre chiese, ad eccezione dei giorni di gran festa. Si trova dietro il palazzo ducale su una ripida piaggia; da essa si dipartono due vicoli lastricati e scoscesi. Ci son passato tante volte davanti e non vi avrei prestato attenzione, se non fosse stato per l’altorilievo marmoreo sopra la porta che raffigura la testa bigia del Battista deposta sul vassoio, e per la gabbia di ferro che gli penzola accanto nella quale un tempo venivano esposte le teste mozze dei giustiziati. Giovanni Battista, il decapitato, o come lo chiamano qui il decollato, sembra che sia il patrono del ceppo e della mannaia. Arrivai alla chiesa in un batter d’occhio. Ero in preda all’eccitazione, l’ammetto; dopo tutto ho ventiquattro anni e sono di sangue polacco. Quando fui in quella specie di spazio da dove prendono a scendere i due vicoli, scoprii con stupore che dalle finestre dell’oratorio non filtrava alcuna luce e che la porta era sbarrata. Ecco quale era lo scherzo che mi avevano giuocato: farmi andare di notte, col freddo e col gelo, fin ad una chiesa esclusa al culto da anni. Non so cosa avrei fatto in quel momento. Volevo sfondare la porta dell’oratorio, o piuttosto correre dal figlio del viceprefetto per scaraventarlo giù dal letto. Sentivo che lo scherzo me l’aveva fatto proprio lui. Decisi per questa ultima soluzione e già mi stavo avviando verso casa sua lungo il fianco sinistro della chiesa, quando mi giunse improvviso il suon di un organo, vicinissimo; un organo, sì, dal ronfante sottofondo, e con esso le voci d’un coro e la nenia strascicata delle litanie. Allora la chiesa non era chiusa! Tornai indietro all’imbocco del vicolo. Buio e silenzio di tomba. All’improvviso di nuovo il suono di voci e dell’organo, come una folata. Prestai l’orecchio; veniva da su per l’altro vicolo, quello sul fianco destro dell’oratorio. Forse ci dava una porta laterale. Passai sotto l’arco e presi a discendere verso il luogo da dove sembrava provenisse quel suono. Nessuna porta: solo il buio, le fosche pareti, i paramenti neri, bagnati, con il debole lucore delle lanterne. Su tutto silenzio assoluto. Mi fermai un attimo e il canto riprese. Questa volta non avevo

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dubbi, veniva proprio dal vicolo che avevo appena percorso. Tornai indietro… nulla. Quel suono sembrava spuntare ora qua, ora là, sempre dalla parte opposta da quella in cui ero. Alla fine persi la pazienza. Sentivo che stavo per cadere in preda al terrore e che solo un gesto violento e repentino me l’avrebbe fatto vincere. Se quei suoni misteriosi non risalivano né dal vicolo di destra, né da quello di sinistra, venivano per forza dalla chiesa. Preso dal furore salii di corsa gli scalini e fui sul punto di dare un gran scossone alla porta, con tutte le mie forze; ma quella, con mio grande stupore, cedette dolcemente. Entrai; il canto delle litanie risuonava più distinto di prima mentre indugiavo fra la porta e la pesante tenda di cuoio. La sollevai e feci il mio ingresso. Ceri e candelieri a più braccia illuminavano l’altare. Doveva trattarsi d’una funzione serale, una novena natalizia o qualcosa del genere. Le navate erano abbastanza affollate ma immerse nell’oscurità. Mi aprii il passo lungo il braccio destro, verso l’altare. Appena i miei occhi si furono abituati a quel luccichio improvviso, cominciai a guardarmi intorno col cuore in gola. Non mi sfiorava più la mente che potesse trattarsi di una burla, e che vi avrei potuto trovare uno degli amici del cavaliere. Cercavo. La gente era intabarrata, gli uomini nei loro mantelli, le donne in grandi scialli di lana. Lontano dall’altare era quasi buio e quindi non riuscivo a distinguere bene le persone. Eppure mi sembrava che sotto scialli e mantelli questa gente indossasse vestiti di eccezionale fattura. Notai per esempio che l’uomo davanti a me faceva sfoggio sotto il mantello d’una calzamaglia gialla; la donna che gli era accanto doveva avere un corsetto rosso, allacciato sul retro da fermagli d’oro. Erano forse campagnoli scesi dai monti per le feste, o erano i più facoltosi di Urbania che indossavano antichi abiti in onore del Natale? Guardando dattorno, l’occhio mi cadde all’improvviso su una donna che stava in piedi dall’altra parte dell’altare, inondata dalla luce. Era avvolta in un manto nero ma portava in mano, quasi ostentandola, una rosa rossa, un lusso quasi inconcepibile in un posto come Urbania, nel cuore dell’inverno. Anche lei mi vide e volgendosi in piena luce aprì il manto lasciando intravedere un vestito color rosso cupo sul quale rilucevano ricami d’oro e d’argento. Girò verso di me il volto nel barbaglio dei ceri e delle candele: era il volto di Medea da Carpi! Mi slanciai verso di lei facendo la mossa di scansare in modo rude la gente, ma passando mi parve di attraversare ombre di corpi. La donna si volse e s’incamminò lesta verso la porta. La seguii ma inspiegabilmente non mi riuscì raggiungerla. Quando arrivò al paramento di cuoio si volse di nuovo. Le ero quasi a ridosso ormai. Sì, era proprio Medea, Medea in carne ed ossa; non era una visione, né un’illusione ottica, né una simulazione: lo stesso ovale del volto, lo stesso incarnato di alabastro e quelle labbra appena arricciate, quelle palpebre tese agli angoli dell’occhio. Sollevò

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il drappo e scivolò fuori. La seguii, ci separava solo il paramento di cuoio. Vidi richiudersi la porta alle sue spalle. Appena un passo di vantaggio su di me. Spalancai la porta. Doveva essere ancora sugli scalini, a portata di mano. Fuori della chiesa mi fermai. Non c’era anima viva; solo il lastricato umido e il riflesso giallognolo delle pozzanghere. Mi sentii preso in una morsa di gelo. Impossibile procedere. Cercai di rientrare in chiesa, ma la porta era chiusa. Corsi a casa come un ossesso, i capelli irti sul capo, tremebondo, e per un’ora rimasi come imbambolato. S’è trattato d’una illusione? O sto forse ammattendo? 19 dicembre. Una giornata sfolgorante di sole; anche l’ultima neve fuligginosa ha smontato l’assedio della città, abbandonando alberi e siepi. Le montagne ancora candide scintillano contro l’azzurro intenso del cielo. È domenica, e tempo da domenica. Le campane suonano a stormo annunciando il Natale. Giù nella piazza con il colonnato stanno montando una specie di fiera; rovesciano sui banchi indumenti colorati, di cotone e di lana, scialli e fazzoletti sgargianti, specchi, nastri, lampade di peltro, tutto l’emporio insomma del venditore ambulante che s’incontra nel Racconto di Natale. Le macellerie sono decorate di fiori di carta e di ghirlande, i prosciutti e le gote del maiale fan mostra di sé infiocchettati e impreziositi di verdi ramoscelli. Sono uscito fuori di porta per vedere la fiera delle bestie: una foresta di corna intricate, di teste che ammusano e di zampe scalcianti, centinaia di bovi, bianchi e poderosi, dalle lunghe corna e le nappe rosse, ammassati nella piccola piazza d’armi sotto le mura cittadine. Ma non so nemmeno io perché sto scrivendo queste futili note. A che cosa servono poi? Mentre m’impegno a scrivere delle campane, delle feste natalizie e di questa fiera paesana, ho dentro la testa come un chiodo fisso: l’ho vista davvero, Medea, o è stato un segno della mia insania?

Due ore dopo. Il padrone di casa mi informa che, a memoria d’uomo, la chiesa di San Giovanni Decollato è rimasta sempre chiusa. Allora è stata un’allucinazione, un sogno? Sono tornato a vedere la chiesa. Eccola dinnanzi allo spiazzo ove si biforcano i due vicoli in discesa, con la testa del Battista, a bassorilievo, sopra l’architrave della porta. Sembra proprio che questa sia rimasta chiusa per anni e anni. Fra le connessure prosperano le ragnatele. Come dice il sor Asdrubale, la chiesa è diventata il rifugio dei topi e dei ragni. Eppure… eppure, mi è rimasto un ricordo nitido, la coscienza fresca dell’accaduto. Sull’altare c’era un quadro che raffigurava la figlia di Erodiade in movenze di danza; mi rammento il suo turbante bianco con un ciuffo di penne scarlatte, e il caftano azzurro di Erode. E mi rammento anche la forma del candelabro che pendeva dal soffitto, sì, quello centrale, e la sua lenta

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oscillazione dovuta alla corrente d’aria e una delle candele che s’era piegata a metà per il calore. Tutte cose, queste, che posso aver scorto altrove, immagini stipate nella memoria e recuperate a caso, non so come, in un sogno. L’ho sentito dire anche a qualche fisiologo. Ci tornerò di nuovo e, se la chiesa risulterà chiusa, vuol dire che è stato frutto d’un sogno, d’una visione dovuta all’eccitazione. Devo partire subito per Roma e farmi visitare, perché temo di ammattire. Se viceversa… Basta! In casi come questi non c’è alcun viceversa. Ma se ci fosse… allora avrei visto Medea per davvero, e potrei rivederla ancora e parlarle. Il solo pensiero mi fa salire il sangue alla testa, ma non è orrore, bensì… non so come chiamarlo. È un sentimento di terrore ma anche di delizia. Matto che non sono altro! Ho qualche rotellina fuori posto… ecco tutto! 20 dicembre. Ci sono tornato, ho risentito la musica, sono entrato di nuovo in chiesa e l’ho vista! Non posso più dubitare dei miei sensi. E perché poi dovrei? Quei noiosi di storici sostengono che i morti sono morti e che il passato è passato per sempre. Per loro, senza alcun dubbio; ma perché la regola dovrebbe valere anche per me? Per uno che è innamorato e che si consuma nell’amore di una donna… una donna che, certamente… sì, debbo finire la frase. Perché non dovrebbero esistere fantasmi per coloro che riescono a vederli? Perché lei non dovrebbe ritornare in terra, sapendo che c’è un uomo che non pensa e non desidera altro che lei? Un’allucinazione? Ma io l’ho veduta, come vedo la carta sulla quale sto scrivendo, in piedi presso l’altare, illuminata dai ceri. E ho sentito il fruscio delle gonne, ho avvertito il profumo dei capelli, ho sollevato la cortina ancora tremula del suo tocco. L’ho perduta di nuovo. Ma questa volta, mentre mi precipitavo fuori sulla strada deserta e illuminata dalla luna, ho trovato una rosa sugli scalini della chiesa… quella stessa rosa che le avevo visto in mano un attimo prima.. l’ho presa tra le dita, l’ho odorata; una rosa, una rosa vera, appena colta, di un rosso intenso. L’ho messa in un bicchiere pieno di acqua dopo averla baciata non so quante volte; poi l’ho riposta lassù, in cima alla credenza, e ho deciso di non guardarla per ventiquattro ore per scoprire se è stata un’allucinazione. Ma ora la devo guardare, devo… Buon Dio, è orribile, orribile! Peggio che se avessi scorto uno scheletro. La rosa che appena ieri notte sembrava fresca, piena di colore e di profumo, è diventata scura, secca – una reliquia sigillata per secoli fra le pagine d’un libro – e mi si è sfarinata fra le dita. Ma perché poi dovrei meravigliarmene? Non ho forse la consapevolezza di essere innamorato d’una donna morta tre secoli fa? Se avessi voluto rose appena colte, avrei potuto rivolgermi alla contessa Fiammetta o ad una delle sartine di Urbania. La rosa si è sbriciolata, e con ciò? Se solo potessi avere fra le braccia Medea e baciare le sue labbra come ho

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baciato i suoi petali, sarei felice e accetterei di vederla mutare in polvere l’attimo appresso e di farmi polvere io stesso. 22 dicembre, all’una di notte. L’ho vista un’altra volta e sono stato sul punto di parlarle. Mi ha promesso il suo amore! Avevo ragione quando dicevo di non esser fatto per un amore terreno. Mi sono recato alla solita ora presso la chiesa di San Giovanni Decollato. Una tersa notte d’inverno. Gli alti palazzi e i campanili si stagliavano contro il cielo d’un azzurro intenso, nitidissimo. La luna non s’era ancora levata. Le finestre non erano illuminate, ma con un piccolo sforzo riuscii ad aprire la porta della chiesa e ad entrare. L’altare era come sempre illuminato. Compresi allora che quella folla, quei preti salmodianti che trafficavano attorno all’altare erano morti, che esistevano solo per me. Toccai senza avvedermene la mano del mio vicino: era fredda, come se fosse umida creta. Si volse ma sembrò che non mi vedesse; aveva il volto terreo, gli occhi sbarrati, fissi come quelli di un cieco o di un cadavere. Sentii l’impulso irresistibile di fuggire. In quel preciso istante lo sguardo mi cadde su di lei, ritta presso l’altare, come sempre, avvolta in un manto nero, illuminata dalle candele. Si volse di tre quarti. La luce le illuminò il volto, il volto dalle fattezze delicate, con quelle labbra e quelle palpebre appena tese, l’incarnato d’alabastro impercettibilmente soffuso d’un rosa pallido. I nostri occhi s’incontrarono. Traversai la chiesa per andarle incontro, ma lei si girò e prese a camminare lungo la navata. Le fui subito dietro. Ebbe un attimo d’incertezza e credetti di poterla raggiungere. Ma ancora una volta, quando uscii dalla chiesa un secondo dopo di lei, era svanita. Sui gradini della chiesa c’era qualcosa di bianco. Non si trattava di un fiore, questa volta, ma di una lettera. Cercai di rientrare in chiesa per leggerla, ma la porta era sbarrata, come se non l’avessero aperta da anni. Leggerla alla luce incerta di qualche tabernacolo sarebbe stato impossibile. Mi precipitai a casa, accesi la lampada ed estrassi la lettera da sotto la giacca. Eccola qui davanti a me. È la sua calligrafia, la stessa dei manoscritti che si trovano nell’archivio, della sua prima lettera: «A Spiridione. Se il tuo coraggio sarà pari all’amore, l’amore sarà ricompensato. Per la vigilia di Natale procurati una sega e un’ascia. Usa questa ultima per sfondare il torso del bronzeo cavaliere che è nella corte sul lato sinistro. Poi sega il corpo e cercavi dentro l’effigie d’un genietto alato. Prendilo, riducilo in mille pezzi e getta i frammenti in ogni direzione affinché possano disperderli i venti. Quella stessa notte colei che tu ami verrà a ricompensarti per la tua fedeltà». Sulla ceralacca scura si leggeva il motto:

AMOUR DURE – DURE AMOUR

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23 dicembre. Allora è vero! Ero destinato a vivere un’esperienza eccezionale. Finalmente ho trovato ciò a cui ha sempre teso la mia anima. L’ambizione, l’amore per l’arte, quello per l’Italia, gli interessi culturali che hanno sorretto il mio spirito e che mi han sempre lasciato insoddisfatto non erano il fine a cui tendeva il mio destino. Ho bramato la vita come si brama un fonte nel deserto, ma la vita sensuale degli altri e quella intellettuale non hanno placato questa sete. Vita significherà per me l’amore per una donna morta? Le superstizioni del passato ci fanno sorridere, ma dimentichiamo che anche la conclamata scienza d’oggi sembrerà un giorno superstizione. Perché poi il presente dovrebbe essere nel giusto e in errore il passato? Quelli che dipinsero quadri ed edificarono palazzi tre secoli or sono erano composti di fibre delicate e dotati di intelletto sottile né più né meno dei moderni che stampano stoffe e costruiscono vaporiere. Sono pervenuto a queste conclusioni dopo aver scoperto il segno sotto il quale son nato grazie ad un vecchio libro del sor Asdrubale e guarda… il mio oroscopo collima esattamente con quello che un antico cronista assegna a Medea. Questo può spiegare qualcosa? Nulla, assolutamente nulla. L’unica spiegazione consiste nel fatto ché ho amato questa donna fin dal primo momento che ne ho letto la vita e ne ho visto il ritratto. Invano ho cercato di nascondere questo amore a me stesso sotto la forma della ricerca storica. Un interesse storico profondo, non c’è che dire! Mi son procurato l’ascia e la sega. La sega l’ho comprata da un povero carpentiere in un villaggio dei dintorni. In un primo momento non riusciva a capire cosa volessi da lui, e deve avermi preso per matto. E forse lo sono. Ma se la felicità consiste nella follia, che farci? L’ascia l’ho trovata nel cortile dove sbozzano i tronchi di abete che crescono sugli Appennini, dalle parti di Sant’Elmo. Non c’era nessuno in giro e non ho resistito alla tentazione. L’ho maneggiata un po‘, ho saggiato il filo e l’ho portata via. È la prima volta in vita mia che rubo qualcosa. Perché poi non sia entrato in una bottega e non l’abbia comprata, non saprei dirlo. È come se non avessi potuto resistere al fascino della lama scintillante. Quello che sto per fare è senza dubbio un atto di vandalismo ed io non ho alcun diritto di deturpare i beni di questa città. Non intendo recare offesa né alla statua né alla città. Se potessi saldare il bronzo e restaurarlo al suo stato primitivo lo farei di buon grado. Ma debbo obbedire a lei, debbo vendicarla, debbo agguantare quella statuetta d’argento che Roberto si fece fare e consacrare affinché la sua anima vile potesse giacere in pace, sfuggendo quella dell’essere che più aborriva al mondo! Ah! duca Roberto, tu l’hai costretta a spirare senza l’estremo conforto e hai rinserrato l’immagine della tua anima nell’effigie del tuo corpo… Hai avuto paura di lei pensando a quando entrambi sareste stati morti e hai disposto le cose per ogni evenienza. Ma non sarà così, Altezza Serenissima. Proverai anche tu

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cosa vuol dire vagare dopo la morte ed incontrare chi hai mortalmente offeso. Che giornata interminabile. Ma questa sera la vedrò di nuovo. Ore undici. No, la chiesa era sbarrata. L’incanto è finito. Non la vedrò fino a domani. Ah, Medea, c’è stato nessuno dei tuoi amanti che ti abbia amato come ti amo io? Ancora ventiquattro ore al momento della beatitudine… momento per il quale mi sembra di aver atteso l’intera esistenza. E dopo, cosa accadrà? Mi appare sempre più chiaro: dopo, tutto sarà finito. Coloro che hanno amato Medea da Carpi, che l’hanno adorata e che sono stati al suo servigio sono morti. L’amore di una donna come lei è tutto ed è fatale: «Amour Dure», come recita il suo motto. Anch’io morrò, perché non dovrei? Potrei forse vivere ancora per amare un’altra donna? E come potrei continuare a trascinare un’esistenza come la presente dopo le delizie che mi attendono? Sarebbe impossibile. Se gli altri sono morti, morrò anch’io. L’ho sempre saputo che non sarei vissuto a lungo. In Polonia me lo profetizzò una zingara leggendomi nella mano il segno della morte violenta. Avrei potuto incontrare la morte in un duello con qualche compagno d’università, o in un incidente ferroviario. Ma non sarà quella la mia morte. La morte… ma non è morta anche lei? Quali strane visioni mi schiude questo pensiero! E gli altri, saran tutti presenti di là? Ma lei amerà me sopra tutti e in me colui che l’ha amata dopo essere stata trecento anni nella tomba. 24 dicembre. Ho sistemato tutto. Sguscerò via alle undici quando il sor Asdrubale e le sorelle dormiranno come ghiri. Mi sono informato in proposito: temono troppo i reumatismi per andare alla messa di mezzanotte. Per fortuna fra qui e la corte non ci sono chiese e mi troverò quindi fuori del traffico della notte di Natale. Le finestre del viceprefetto s’aprono dall’altra parte del palazzo e sulla piazza si affacciano soltanto quelle degli uffici e dell’archivio, oltre i portoni delle stalle e delle rimesse. E poi farò un lavoretto pulito e veloce. Ho già provato a segare un vaso di bronzo che ho comprato dal sor Asdrubale; figuriamoci quanto potrà resistere il bronzo della statua, che è cava, in buona parte già consunto e con non poche mende, specie dopo aver assaggiato un fendente dell’ascia affilata. Ho sistemato gli scritti per il Governo che mi ha mandato quaggiù con una borsa di studio. Mi dispiace di non aver potuto redigere, com’era nei patti, una “storia di Urbania”. Ho fatto una lunga passeggiata per trascorrere questa giornata che sembra non finisca mai e per placare l’impazienza. È il giorno più freddo che abbiamo avuto. Il sole splendente non dà alcun calore, anzi sembra aumentare la sensazione di gelo facendo scintillare i monti nevosi e balenare come una lama l’azzurro del

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cielo. I pochi che s’arrischiano ad uscire sono intabarrati e paiono coccolare sotto i mantelli gli scaldini di terracotta. Dalla fontana con il Mercurio pende una corona di pincaroli. Non è difficile immaginarsi frotte di lupi che, usciti dalla stenta boscaglia, s’apprestano a porre sotto assedio la città. Questo gelo mi rende straordinariamente calmo; ha il potere di riportarmi alla mia infanzia. Ho camminato su per le viottole ripide, sconnesse, scivolose e goduto della vista delle montagne innevate; sono passato dinnanzi ai gradini della chiesa cosparsi di ramoscelli di bosso e d’alloro, nel tenue profumo di incenso che alitava da dentro: sensazioni che mi hanno riportato alle vigilie natalizie di tanti anni fa, a Posen e a Breslavia, quando ancora bambino percorrevo le ampie vie ed era tutto un occhieggiare alle vetrine dove cominciavano ad accendere le candele dell’albero, e assaporavo il momento in cui anch’io sarei entrato nella stanza delle meraviglie, nel bagliore delle luci e delle noci dorate e di ninnoli di cristallo. Su al settentrione staranno oramai dipanando gli ultimi nastri metallici rossi e azzurri e attaccando le ultime noci d’oro e d’argento all’albero, fuori di casa; e staranno accendendo le candele, rosse e azzurre anche loro, mentre la cera comincia a gocciolare sulle rame virenti e incantevoli dell’abete e i bambini aspettano fuori dalla porta col cuore in gola per sentirsi dire che è arrivato il Gesù Bambino. Ed io che cosa mi aspetto? Non saprei rispondere: mi sembra di vivere avvolto in un sogno, tutto m’appare sfuocato, impalpabile, come se il tempo avesse cessato di esistere e nulla potesse accadere. Inaridito ogni mio desiderio ed io stesso confuso nelle nebbie del sogno. Desidero arrivare a questa notte? Forse temo quel momento? Ma poi arriverà questa notte? Mi chiedo se riesco ad avvertire qualcosa attorno a me. Mentre mi siedo mi sembra di vedere quella via di Posen, l’ampia via con le luminarie di Natale e i rami verdi degli alberi che sfiorano le vetrine. Vigilia di Natale. Mezzanotte. È fatta. Sono sgattaiolato via in silenzio. Il sor Asdrubale e le sorelle dormivano della grossa. Ho temuto per un istante di averli svegliati poiché, passando per l’anticamera dove il sor Asdrubale tiene i suoi ammennicoli di antiquariato che mette in vendita, l’accetta, sfuggitami di mano, ha urtato contro un’antica armatura. L’ho sentito gridare qualcosa ancora mezzo assonnato; allora ho smorzato il moccolo e mi sono rintanato giù per le scale. È uscito di camera in vestaglia ma vi è subito rientrato quando ha visto che era tutto in ordine: «Sarà stato uno di quei soliti gattacci!», ha detto. Ho richiuso il portone di casa pian pianino. Il cielo s’era fatto tempestoso fin dal pomeriggio, alternando al fulgore della luna piena striature di vapori grigi e color del camoscio che eclissavano a tratti il disco lunare. Non un’anima viva; solo le case alte e

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desolate che sembravano fissarti nel gelido chiarore. Non so perché, ma ho fatto una deviazione per andare alla corte passando davanti alla porta di due chiese da dove sortiva il riverbero incerto della luminaria di mezzanotte. Per un attimo ho avuto la tentazione di entrare, ma qualcosa me lo ha impedito. Ho colto le note dei canti di Natale. Cominciavo ad avvertire una certa spossatezza, per cui mi sono diretto verso la corte. Mentre passavo sotto il portico di San Francesco ho avvertito dei passi dietro di me: era come se qualcuno mi stesse pedinando. Mi sono fermato per far passare colui che mi seguiva. Mentre si avvicinava il suo passo ha rallentato. Mi è passato accanto bisbigliando: «Non andare: sono Gianfrancesco». Mi sono volto di scatto, non c’era più. Un freddo improvviso sembrava intorpidirmi le membra, ma ho proseguito. Giù per il vicolo, dietro l’abside della cattedrale, ho scorto un tale appoggiato al muro. Era illuminato dalla luna. Mi sembrava che il suo volto, incorniciato dalla barba a punta, grondasse di sangue. Ho affrettato il passo ma quando gli sono stato vicino ha sussurrato: «Non obbedire ai suoi comandi, torna a casa: sono Marcantonio». Mi battevano i denti, ma mi sono precipitato ugualmente per il vicolo screziato dal bianco delle pareti di contro alle ombre azzurre. Ecco finalmente la corte: la piazza era inondata dal chiarore lunare, le finestre del palazzo sembravano intensamente illuminate e la statua del duca Roberto, sfavillante di verde, venirmi incontro sul cavallo. Mi sono immerso nell’ombra. Dovevo passare sotto una volta a botte. Una figura, come se fosse scaturita dal muro, mi ha sbarrato il passo aprendo il braccio e con esso la lunga ala del mantello. Ho cercato di passare; lui mi ha afferrato il braccio con una presa che sembrava di gelo gridando: «Non passerai!», e mentre rifulgeva di nuovo la luna, a intermittenza, ho visto il suo volto bianco come quello d’uno spettro, le mascelle serrate da un fazzoletto ricamato; sembrava quasi un bimbo. «Non passerai!» gridò «non l’avrai, tu. Sono Prinzivalle.» Avvertivo la sua gelida morsa, ma con l’altro braccio ho menato un fendente brandendo l’accetta che tenevo sotto il mantello. L’ascia ha scheggiato la pietra del muro, con suono secco. Lui, svanito. Ho cercato di fare in fretta quello che avevo deciso. Ho intaccato il bronzo e poi aperto uno squarcio più ampio. Ho estratto la statuetta d’argento e a furia di colpi d’ascia l’ho ridotta in mille pezzi. Mentre sperdevo dattorno gli ultimi frammenti, la luna si è velata all’improvviso. Si è alzato un gran vento che si è perso ululando nella piazza. Forse ha tremato anche la terra, non so. Ho gettato via l’ascia e la sega correndo a casa. Era come se fossi inseguito da una muta di armigeri fantasma. Ora sono tranquillo. È la mezzanotte: un attimo ancora e lei sarà qui. Sopporta ancora, mio cuore. Sento che batti forte. Son convinto che il sor

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Asdrubale non ci andrà di mezzo. Ad ogni modo voglio scrivere due righe all’autorità, caso mai dovesse succedere qualcosa… Ecco il rintocco del campanile: «Io sottoscritto Spiridione Trepka dichiaro, sano di corpo e di mente, che qualsiasi cosa dovesse succedermi questa notte, la responsabilità è solo mia…». Un passo su per le scale… È lei finalmente! Ah, AMOUR DURE -DURE AMOUR! Finisce qui il diario di Spiridione Trepka. Il giornale più diffuso della provincia informò i lettori che la mattina di Natale dell’anno 1885 era stata gravemente danneggiata la statua equestre di Roberto II. Dava anche la notizia che un professore, Spiridione Trepka, originario di Posen nell’impero Germanico, era stato pugnalato al cuore. Ignoto l’assassino.

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Ambrose Bierce

CHICKAMAUGA (1891)

Gli effetti macabri sono la specialità dell’americano Ambrose Bierce (1842-1913) nel rappresentare gli orrori della Guerra di Secessione (Storie di soldati) Questo forse non è un racconto fantastico: è la documentaria descrizione d’un campo di battaglia dopo un sanguinoso combattimento, ma l’estraniazione dello sguardo che contempla conferisce alle immagini una trasfigurazione visionaria. L’atmosfera fantastica viene dal silenzio che circonda tutto ciò che il racconto ci fa vedere, sebbene anche per il silenzio ci sia una spiegazione. Un pomeriggio soleggiato d’autunno, un ragazzino, girellando attorno alla sua rustica casa situata in mezzo a un campicello, se ne allontanò ed entrò in una foresta senza che nessuno se n’accorgesse. Lo rendeva felice una sensazione nuova di libertà da ogni freno, felice di poter correre all’esplorazione e all’avventura; perché lo spirito di questo ragazzo, da quando s’era incarnato nel corpo dei suoi avi, s’era addestrato per migliaia d’anni a compiere imprese memorabili di scoperta e di conquista: vittorie in battaglie i cui momenti critici erano durati secoli, gli accampamenti dei cui vincitori erano state città in pietra squadrata. Dalla culla della sua stirpe s’era fatto strada battagliando per due continenti e, varcando un grande mare, era penetrato in un terzo per rinascere qui col retaggio della guerra e del dominio. Era un bambino di circa sei anni, figlio d’un povero piantatore. Nella sua verde virilità il padre era stato soldato, aveva combattuto contro selvaggi nudi e aveva seguito la bandiera del suo paese fino alla capitale d’una razza civile nel lontano sud. Durante la sua vita pacifica di piantatore il fuoco guerriero era sopravvissuto: una volta acceso, esso non si estingue mai. L’uomo amava i libri e le stampe di soggetto militare, e il ragazzino aveva imparato quanto bastava per farsi una spada di legno, sebbene anche l’occhio paterno avrebbe stentato a riconoscerla per tale. Questa arma, ora la impugnava arditamente, come s’addiceva al rampollo d’una stirpe eroica, e, fermandosi di tanto in tanto nelle radure soleggiate della foresta, assumeva, caricandole alquanto, le posizioni dell’attacco e della difesa che aveva appreso dall’arte dell’incisore. Reso temerario dalla facilità con cui sopraffaceva i nemici che tentavano di arrestare la sua avanzata, commise l’errore militare, abbastanza frequente, di spingere l’inseguimento sino ad estremi pericolosi, finché si trovò sul margine d’un torrente ampio ma poco profondo, le cui acque rapide gli

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sbarravano l’avanzata in linea retta dietro al nemico in fuga, per il quale era stato assurdamente facile traversare. Ma l’intrepido vincitore non poteva lasciarsi defraudare della vittoria; lo spirito della stirpe che aveva varcato il grande mare, ardeva indomabile in quel piccolo petto e non avrebbe accettato alcuna smentita. Scorto un punto dove dei massi nel letto del fiume erano separati appena da un passo o da un salto, egli trovò il modo di portarsi sull’altra sponda e tornò ad avventarsi sulla retroguardia dei suoi nemici immaginari, passando tutti a fil di spada. Ora che la battaglia era vinta, la prudenza richiedeva il rientro alla base delle operazioni. Ahimè, come tanti possenti conquistatori, e come uno e il più possente, egli non seppe alla guerresca foia porre un freno né meditar che il Fato, se tentato, abbandona la stella più superba. Avanzando oltre la sponda del torrente, d’un tratto si vide fronteggiato da un nuovo e più formidabile nemico: sul suo cammino stava, diritto come un fuso, con le orecchie erette e le zampe sollevate davanti, un coniglio! Con un grido d’allarme il ragazzino volse la schiena e scappò, non sapendo nemmeno in quale direzione, invocando la madre con grida inarticolate, piangendo, inciampando, con la pelle delicata crudelmente graffiata dai rovi, il cuore che batteva forte dal terrore, senza fiato, accecato dalle lagrime, smarrito nella foresta! Poi, per più d’un’ora vagò con passi errabondi nel sottobosco intricato, finché, vinto dalla stanchezza, si distese in uno spazio ristretto tra due rocce, a poche iarde dal torrente e, sempre impugnando la sua spada giocattolo, non più arma ma compagna, si addormentò fra i singhiozzi. Gli uccelli del bosco cantavano giulivi sopra la sua testa; gli scoiattoli saltavano squittendo da un albero all’altro, sfoggiando la bravura della coda, ignari della situazione compassionevole, e in qualche posto lontano c’era uno strano, smorzato rintronare, come se le pernici facessero rullare i tamburi per celebrare la vittoria della natura sul figlio di colui che da tempi immemorabili la rendeva sua schiava. Intanto, nella piccola piantagione, mentre bianchi e negri in allarme correvano a frugare campi e siepi, una madre sentiva il cuore spezzarsi per il suo bambino smarrito. Passarono delle ore, poi il piccolo dormiente si alzò in piedi. Aveva nelle ossa il freddo della sera, nel cuore la paura del buio. Ma si era riposato e non piangeva più. Spinto all’azione da un cieco istinto, si aprì un varco attraverso i viluppi del sottobosco che lo stringeva tutt’attorno e giunse ad un terreno più aperto: alla destra aveva il torrente, alla sinistra un dolce declivio con radi alberi qua e là; su tutto incombevano le ombre sempre più fitte del crepuscolo. Sull’acqua si levò una sottile nebbia spettrale, che lo atterrì e lo respinse; invece di riattraversare il torrente in direzione del punto dal quale era partito, gli volse le spalle e si avviò verso il bosco oscuro che lo

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circondava. All’improvviso si vide davanti uno strano oggetto in movimento, che prese per un grosso animale – un cane, un porco – non sapeva che nome dargli; forse era un orso. Figure di orsi ne aveva viste, ma non aveva mai saputo nulla a loro discredito, e aveva sempre vagamente desiderato d’incontrarne uno. Un certo che nella forma e nei movimenti, però, una certa goffaggine nel modo di farsi avanti, gli fece capire che non era un orso, e la curiosità fu fermata dalla paura. Il ragazzino s’arrestò; mentre la bestia veniva lentamente avanti, egli riprendeva coraggio col passare dei minuti perché notava ch’essa almeno non aveva le orecchie lunghe, minacciose del coniglio. Forse la sua mente impressionabile percepì vagamente che c’era qualcosa di familiare in quell’andatura dinoccolata, goffa. Prima che l’oggetto si fosse avvicinato abbastanza per dissipare i suoi dubbi, egli s’accorse ch’era seguito da un altro e da un altro ancora. Ce n’erano molti altri a destra e a sinistra. Tutta la radura attorno a lui ne pullulava… tutti si dirigevano verso il torrente. Erano uomini. Strisciavano sulle mani e sulle ginocchia. Usavano soltanto le mani, strascicando le gambe, o usando soltanto le ginocchia mentre le mani scendevano inerti ai lati del corpo. Se tentavano di mettersi in piedi, ricadevano proni sul terreno. Non facevano nessun movimento naturale, nessuno si moveva come gli altri, solo avanzava palmo a palmo nella stessa direzione. Ad uno ad uno, a coppie e in piccoli gruppi, procedevano nell’oscurità; alcuni si fermavano ogni tanto, mentre altri li superavano strisciando lentamente, poi riprendevano ad andare. Venivano a dozzine e a centinaia; ce n’erano da una parte e dall’altra fin dove l’oscurità sempre più cupa lasciava vedere; e dal bosco nero alle loro spalle la fiumana che ne usciva sembrava non dovesse aver mai fine. Addirittura pareva che fosse il terreno a muoversi verso il torrente. Ogni tanto qualcuno che s’era fermato, invece di riprendere a camminare restava immobile. Era morto. Alcuni, fermandosi, facevano strani gesti con le mani, levavano in alto le braccia e le riabbassavano, si stringevano la testa, aprivano le palme verso l’alto come accade di veder fare da uomini in preghiera nelle adunanze religiose. Non che il bambino notasse tutto ciò; era una cosa, questa, che solo un osservatore più anziano avrebbe potuto fare; egli vide soltanto che questi erano uomini, anche se andavano a quattro gambe come bambini piccoli. Essendo uomini non facevano paura, sebbene fossero vestiti in maniera strana. Ora si moveva liberamente in mezzo a loro, andando dall’uno all’altro e sbirciandoli in faccia con curiosità infantile. Erano tutte facce d’un pallore eccezionale, e molte erano rigate e grommate di rosso. In questo c’era qualcosa – forse anche nei loro movimenti e atteggiamenti grotteschi – che gli ricordava il pagliaccio imbellettato che aveva visto l’estate prima al circo, e mentre li guardava rideva. Ma continuavano ad andare ginocchioni avanti,

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sempre avanti, questi uomini mutilati e sanguinanti, quanto lui insensibili al drammatico contrasto tra la sua risata e la propria spettrale gravità. Per lui era uno spettacolo buffo. Aveva veduto i negri di suo padre strisciare su mani e ginocchia per divertirlo – era montato in groppa a loro così, facendo finta che fossero i suoi cavalli. Ora si accostò dal didietro a una di queste figure che si trascinavano carponi, e con mossa agile gli saltò a cavalcioni sulle spalle. L’uomo cadde sul petto, si risollevò, scaraventò in terra di scatto il ragazzino come avrebbe potuto fare un puledro indomito, poi, voltandosi, gli presentò una faccia priva della mandibola: dai denti superiori alla gola era tutto un grande squarcio rosso con una frangia di brandelli di carne penzoloni e schegge d’osso. La prominenza mostruosa del naso, la mancanza del mento, gli occhi fieri davano a quest’uomo l’aspetto d’un grande uccello da preda con la gola e il petto arrossati dal sangue della sua vittima. L’uomo si drizzò sulle ginocchia e il ragazzino sui piedi. L’uomo agitò il pugno in faccia al ragazzino; il ragazzino, finalmente atterrito, corse ad un albero vicino, si protese dietro al tronco e si mise a considerare la situazione con maggiore serietà. E intanto la goffa turba si trascinava lentamente e penosamente in questa pantomima… avanzava giù per il declivio come un brulicare di grossi scarafaggi neri, senza mai il minimo rumore… avanzava in profondo, assoluto silenzio. Invece di abbuiarsi, il paesaggio stregato cominciò a rischiararsi. Attraverso la fascia d’alberi ch’era sull’altra sponda del fiume, brillò una strana luce rossa, e i tronchi e i rami degli alberi fecero una trina nera su quello sfondo. Il bagliore cadeva sulle figure striscianti e ne traeva ombre mostruose, che ne ripetevano i movimenti in dimensioni caricaturali sull’erba illuminata. Cadeva sulle loro facce, soffondendone il pallore d’una luce rosata, accentuando le strisce e le chiazze di cui molti di loro erano macchiati. Brillava sui bottoni e sui pezzi di metallo dei loro vestiti. Istintivamente il ragazzino si volse verso il bagliore crescente e si avviò giù per il declivio con i suoi orribili compagni; pochi momenti dopo era passato in testa alla turba… non grande impresa considerando la sua superiorità. Si mise al comando con la sua spada di legno sempre in pugno e con fare grave diresse la marcia, adattando il proprio passo al loro e di tanto in tanto girandosi per vedere che il suo esercito non si disperdesse. Era certo la prima volta al mondo che un simile condottiero avanzava con un simile seguito. Sparsi qua e là sul terreno, che ora si andava riducendo invaso da questa orribile marcia verso l’acqua, c’erano degli oggetti che non evocavano nella mente del capitano alcuna significativa associazione d’idee: qua, gettata a caso, una coperta arrotolata strettamente per il lungo, ripiegata e con i due estremi legati insieme da una corda; là uno zaino pesante, un fucile spezzato: quelle cose, in breve, che si trovano sulla scia di truppe in rotta, la traccia di

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uomini che si sottraggono con la fuga alla caccia che dànno loro altri uomini. Dappertutto vicino al torrente, che a questo punto aveva una proda pianeggiante, la terra era ridotta in melma da piedi d’uomini e zoccoli di cavalli. Un osservatore che sapesse usare con più esperienza i propri occhi avrebbe notato che le impronte puntavano in direzioni opposte; quel terreno era stato percorso e ripercorso, in avanzata e in ritirata. Questi uomini disperati e maciullati, poche ore prima erano penetrati a migliaia nella foresta con i loro compagni più fortunati, ora lontani. I battaglioni, movendo in successive ondate, aprendosi in sciami e poi riordinando le file, avevano sopravanzato il ragazzino su ogni lato… lo avevano quasi pestato mentre dormiva. Lo scalpiccio e il brusio della loro marcia non l’avevano svegliato. Quasi a un tiro di sasso da dove egli giaceva, avevano combattuto una battaglia; ma per lui erano rimasti assolutamente muti il crepitio della fucileria, gli scoppi delle cannonate, “le voci tonanti dei capitani e gli urli”. Aveva dormito durante tutta questa tregenda, impugnando la sua piccola spada di legno con una stretta forse più tenace, in inconsapevole simpatia con l’ambiente marziale, ma indifferente alla grandiosità della lotta quanto i morti che erano caduti per crearne la gloria. Il fuoco che ardeva oltre la fascia boscosa dall’altra parte del torrente, riflesso verso terra dalla coltre del proprio fumo, ora stava soffondendo tutto il paesaggio. Trasformava la cortina sinuosa della nebbia in un vapore dorato. L’acqua riluceva di sprazzi rossi, e rossi erano anche molti dei massi che emergevano alla superficie. Ma questo era sangue: i feriti in condizioni meno disperate nell’attraversare il torrente avevano macchiato le pietre; e aggrappandosi ad esse, anche il ragazzino ora passò impaziente sull’altra sponda; andava in direzione del fuoco. Quando ebbe ripassato il fiume, si volse in giro per guardare i compagni della sua marcia. L’avanzata stava arrivando al torrente. I più forti s’erano già trascinati sull’orlo e avevano immerso la faccia nell’acqua. Tre o quattro, i quali erano distesi immobili, sembravano privi di testa: visione alla quale il bambino sgranò gli occhi dalla meraviglia; nemmeno la sua mente pronta ad accettare tutto poteva concepire tanta forza di sopravvivenza. Invece questi uomini, soddisfatta la sete, non avevano più avuto la forza di ritrarsi dall’acqua né di tirare la testa fuori. Erano annegati. Dietro a loro, gli spazi aperti della foresta mostravano al condottiero tante figure informi della sua orribile armata quante ce n’erano al principio; ma non ce n’erano più tante in movimento. Egli agitò il berretto in segno d’incoraggiamento e sorridendo puntò la sua arma in direzione della luce che guidava questo straordinario esodo: una colonna di fuoco. Sicuro che le sue truppe l’avrebbero seguito, s’inoltrò nella fascia boscosa, la percorse agevolmente al rosso chiarore, scavalcò uno steccato, attraversò un campo, di tanto in tanto volgendosi a scherzare con la sua ombra

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condiscendente, e così si avvicinò alle rovine d’una casa in fiamme. Desolazione dappertutto! Nell’ampio cerchio dell’intenso bagliore non si vedeva anima viva. Non se ne curò; era un bello spettacolo e lui si mise a ballare tutto giulivo, imitando il guizzare delle fiamme. Corse attorno a raccogliere materiale da bruciare, ma ogni cosa che trovava era troppo pesante per le sue forze e non poteva lanciarla dentro il fuoco dalla distanza alla quale il calore gli permetteva di avvicinarsi. Nella disperazione vi gettò la sua spada, una resa alle superiori forze della natura. La sua carriera militare era finita. Spostandosi, i suoi occhi caddero su alcune costruzioni accessorie che gli presentavano un aspetto stranamente familiare, come se le avesse viste in sogno. Le stava osservando con stupore, quando d’un tratto tutta la piantagione con la foresta che la cingeva sembrò ruotare come su d’un perno. Il suo piccolo mondo fece un mezzo giro; le quarte della bussola si invertirono. Egli riconobbe nella costruzione in fiamme la propria casa! Per un momento restò stupefatto dal potere della rivelazione, poi corse con piedi incespicanti, facendo un mezzo circuito della rovina. Lì, ben in vista al chiarore dell’incendio, giaceva il corpo d’una donna morta, la faccia bianca rivolta al cielo, le mani gettate in fuori e strette su ciuffi d’erba, le vesti scomposte, i lunghi capelli neri arruffati e pieni di grumi sanguigni. La fronte era stata strappata via in gran parte, e dallo squarcio usciva il cervello, traboccando sulla tempia, una massa schiumosa e grigia con in cima dei grappoli di bolle vermiglie: opera di una granata. Il bambino mosse le sue manine, facendo gesti frenetici, incerti. Emise una serie di grida inarticolate e indescrivibili, qualcosa tra il chiacchiericcio della scimmia e il gloglottare del tacchino… una voce che faceva trasalire, senz’anima, empia, il linguaggio del diavolo. Il bambino era sordomuto. Poi restò immobile, con labbra tremanti, a guardare la rovina.

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Jean Lorrain

I BUCHI DELLA MASCHERA (Les trous du masque)

Di Jean Lorrain (1855-1906), scrittore maledetto della Parigi fin-de-siècle (omosessuale e drogato — bevitore d’etere — in tempi in cui l’ostentazione di questi costumi era ben più scandalosa che oggi), questo racconto sulle maschere e sul nulla ha una forza d’incubo non comune, soprattutto perché il narratore riesce a contemplare la sparizione di se stesso.

I «Volete vedere di persona» mi aveva detto l’amico de Jakels «ebbene, sia; procuratevi un domino e una maschera, un domino elegante di raso nero, calzate scarpe da sera, e per questa volta calze di seta nera, e aspettatemi a casa vostra martedì verso le dieci e mezza; verrò a prendervi.» Il martedì seguente, avvolto nelle pieghe fruscianti di un lungo mantello, una bautta di velluto e raso fermata dietro le orecchie, aspettavo il mio amico nella garconnière di rue Taitbout, riscaldandomi alla brace del focolare i piedi, irritati e tremanti per l’inconsueto contatto della seta. Dalla strada mi arrivavano confusi i suoni delle trombette e le grida esasperate di una sera di carnevale. Strana fino a essere inquietante, a ben riflettervi, quella veglia solitaria di una forma mascherata, sprofondata in poltrona, nella penombra di quel piano rialzato ingombro di soprammobili, soffocato dalle tende, con il riflesso, negli specchi appesi ai muri, della fiamma alta di una lampada a petrolio, e del tremolio di due lunghe candele bianchissime, sottili, funerarie; e de Jakels non veniva! Le grida squillanti delle maschere lontane appesantivano l’ostilità del silenzio: le due candele che ardevano diritte finirono per aumentare il mio nervosismo; improvvisamente atterrito di fronte alle tre luci, mi alzai per spegnerne una. Nello stesso momento una delle tende si aprì e de Jakels entrò. De Jakels? Non avevo sentito né suonare né aprire. Come era entrato nel mio appartamento? Ho riflettuto molto in seguito; ma de Jakels era là, dinanzi a me. De Jakels? Piuttosto, un lungo domino, una grande forma scura velata e mascherata come me. «Siete pronto?» interrogò la sua voce che non riconobbi, tanto era alterata. «La mia carrozza aspetta, possiamo andare.» La sua carrozza non l’avevo sentita né arrivare né fermarsi davanti alle finestre. In quale incubo, in quale ombra e in quale mistero andavo

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sprofondando? «È il cappuccio che vi chiude le orecchie; non siete abituato alla maschera» pensò a alta voce de Jakels, che aveva decifrato il mio silenzio: quella sera poteva dunque indovinare ogni cosa, e sollevando il mio domino si assicurò dell’eleganza delle calze e delle scarpe da sera. Il gesto mi tranquillizzò: era de Jakels, e non un altro, chi mi parlava di sotto il domino. Un altro non si sarebbe preoccupato di una raccomandazione fattami da de Jakels una settimana prima. «Ebbene, andiamo» comandò la voce; e in un fruscio di seta e di raso infilammo il passo carraio del portone, simili, mi parve, a due grossi pipistrelli nello svolazzare dei mantelli improvvisamente sollevati a rivelare il domino. Di dove veniva quel vento così forte? quel soffio d’ignoto? La temperatura di quella notte di martedì grasso era a un tempo umida e dolce.

II Dove andavamo, rannicchiati nell’ombra di una carrozza straordinariamente silenziosa, mentre le ruote e gli zoccoli del cavallo non traevano alcun suono dall’assito delle strade e dall’asfalto dei viali deserti? Dove andavamo, percorrendo lungosenna e rive sconosciute, illuminate appena, a tratti, dalla pallida lanterna di un vecchio lampione? Già da molto tempo avevamo perduto di vista la sagoma fantastica di Notre-Dame che si stagliava contro il cielo di piombo sulla riva opposta. Quai Saint-Michel, quai de la Tournelle, de Bercy; eravamo lontani dall’Opéra, dalle vie Drouot, Le Peletier, dal centro. Non eravamo diretti neppure a Bullier, dove i vizi infami si riuniscono a congresso e, fuggendo di sotto la maschera, si scatenano, quasi demoniaci e cinicamente riconosciuti, nelle notti di martedì grasso; e il mio compagno taceva. Sulle rive della Senna pallida e silenziosa, sotto gli archi di ponti che diventavano sempre più rari, lungo strade fiancheggiate da grandi alberi i cui rami spogli si stagliavano nel cielo livido come dita di morte, mi invadeva una paura irragionevole, una paura aggravata dall’inesplicabile silenzio di de Jakels; arrivavo a dubitare della sua presenza e a credere di trovarmi vicino uno sconosciuto. La sua mano aveva preso la mia, e per quanto fosse molle e senza forza, la teneva stretta in una morsa che mi stritolava le dita… La potente volontà della sua mano mi strozzava le parole in gola, a quella stretta sentivo perdere e dissolversi in me ogni desiderio di rivolta. Percorrevamo ormai, fuori dalle mura, grandi strade fiancheggiate da folte siepi e tetre vetrine di vinai, trattorie di periferia chiuse da molto tempo; correvamo sotto la luna che era infine riuscita a strappare un ammasso di nuvole vaganti e pareva diffondere su quell’equivoco paesaggio una coltre crepitante di sale;

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in quel momento mi sembrò che i ferri dei cavalli risuonassero sul terreno e che le ruote della carrozza, non più fantomatiche, stridessero fra le pietre e i ciottoli della strada. «È qui» mormorò la voce del mio compagno «siamo arrivati, possiamo scendere» e poiché io balbettavo intimidito «Dove siamo?»: «Barrière d’Italie, oltre le mura. Abbiamo preso la strada più lunga, ma la più sicura; torneremo da un’altra domani mattina». I cavalli si fermavano e de Jakels mi lasciava per aprire la portiera e tendermi la mano.

III Una grande sala molto alta, dai muri intonacati a calce, le imposte chiuse ermeticamente sulle finestre, e per tutta la lunghezza della sala tavole con bicchieri di latta trattenuti da catene. In fondo, sopraelevato di tre gradini, il bancone di zinco ingombro di liquori e di bottiglie con etichette colorate di leggendarie marche di vini; e il fischio alto e chiaro del gas: la sala, in breve, forse più spaziosa e pulita, di un locale fuori porta, frequentato e fiorente. «Soprattutto, non una parola. Non parlate con nessuno, rispondete ancora meno. Capirebbero che non siete dei loro, e potremmo passare un brutto quarto d’ora. Io sono conosciuto» e de Jakels mi spinse nella sala. Alcune maschere, qua e là, bevevano. Al nostro ingresso il padrone del locale si alzò, e pesantemente, trascinando i piedi, ci si parò davanti, come per impedirci il passaggio; senza una parola, de Jakels sollevò l’orlo dei nostri domino e gli mostrò i piedi calzati di scarpe da sera: si trattava, senza alcun dubbio, dell’apriti, sesamo di quello strano locale. Il padrone tornò pesantemente alla cassa, e io mi accorsi che anche lui, bizzarramente, era mascherato, ma con una grossa maschera burlescamente colorata, che imitava un viso umano. I due camerieri che servivano, due colossi con le maniche della camicia rivoltate su bicipiti pelosi da lottatori, circolavano in silenzio, anch’essi nascosti dalle stesse spaventose maschere. Le rare persone che bevevano sedute ai tavoli avevano maschere di velluto e raso. Con l’eccezione di un enorme corazziere in uniforme, un colosso dalla mascella forte, con i baffi rossi, seduto a tavola vicino a due eleganti domino di seta color malva, e che beveva, a viso scoperto, gli occhi azzurri già sperduti nel vuoto, nessuno degli altri esseri presenti aveva un aspetto umano. In un angolo due uomini in berretto di velluto e maschera di raso nero incuriosivano per la loro eleganza sospetta, poiché le camicie erano di seta blu chiaro e dall’orlo dei pantaloni troppo nuovi spuntavano sottili dita femminili calzate di seta e scarpine da sera; come ipnotizzato, contemplerei ancora quello spettacolo se de Jakels non mi avesse trascinato in fondo alla

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sala verso una porta a vetri chiusa da una tenda rossa. “Ingresso al ballo” si leggeva in alto, a lettere istoriate da pittori da strapazzo; un vigile montava la guardia. Era, quanto meno, una garanzia, ma passando gli urtai la mano, accorgendomi che era di cera come il viso roseo, irto di baffi posticci, ed ebbi l’orribile convinzione che il solo essere la cui presenza avrebbe potuto rassicurarmi in quel luogo misterioso era un semplice manichino.

IV Da molte ore mi aggiravo, solo in mezzo alle maschere silenziose in quel capannone a volta, come una chiesa, e in realtà era una chiesa, abbandonata e sconsacrata, quella vasta sala con le finestre a ogiva, in gran parte murate a metà tra le colonnine ritorte ricoperte da uno spesso strato di calce giallastra, nel quale affondavano i fiori scolpiti dei capitelli. Strano ballo, nel quale non si danzava, e non vi era orchestra! De Jakels era scomparso, ero solo, abbandonato in mezzo a una folla sconosciuta. Un vecchio lampadario in ferro battuto luceva alto e chiaro, appeso alla volta, rischiarando lapidi polverose, alcune delle quali, nere di iscrizioni, ricoprivano forse una tomba; in fondo, dove una volta era stato l’altare, mangiatoie e rastrelliere erano sistemate lungo i muri, a metà altezza, e negli angoli si scorgevano finimenti e cavezze, dimenticati: la sala da ballo era una scuderia. Qua e là grandi specchi da parrucchiere incorniciati di carta dorata si rimandavano la silenziosa passeggiata delle maschere, o piuttosto non se la rimandavano più, poiché le maschere si erano sedute, allineate immobili ai due lati dell’antica chiesa, sepolte fino alle spalle negli antichi stalli del coro. Stavano muti, senza compiere un gesto, come affondati nel mistero, sotto lunghe cagoules di stoffa d’argento, un argento opaco, smorto; poiché non c’erano più domino, né bluse di seta blu, né colombine, né pierrot, né travestimenti grotteschi; ma tutte le maschere erano simili, inguainate in una veste verde, di un verde spento dai riflessi dorati, e avevano grandi maniche nere, e tutte erano incappucciate di verde cupo e, nel vuoto dei cappucci, si aprivano le orbite delle loro argentee cagoules. Sembravano i volti gessosi dei lebbrosi dei lazzaretti di un tempo, e le mani inguainate di nero sollevavano un lungo gambo di giglio nero a foglie pallide; e il cappuccio, come quello di Dante, era coronato di gigli neri. E tutti tacevano in una immobilità di spettri, e al di sopra delle loro funebri corone l’ogiva delle finestre si stagliava chiara sul cielo bianco di luna, incorniciandoli di una mitria trasparente. La ragione in me piombava nello spavento; il soprannaturale mi avvolgeva: la rigidità, il silenzio di quegli esseri mascherati. Chi erano? Ancora un minuto di incertezza, e sarebbe stata la follia. Non resistevo più, e con la mano irrigidita dall’angoscia, avvicinatomi a una delle maschere, sollevai

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bruscamente la sua cagoule. Orrore! non c’era nulla, nulla. I miei occhi stravolti incontrarono solo il vuoto del cappuccio; l’abito, il mantello, erano vuoti. Quell’essere vivente non era che ombra e nulla. Pazzo di terrore, strappai la cagoule della maschera seduta nello stallo vicino: il cappuccio di velluto verde era vuoto, vuoti i cappucci delle altre maschere sedute lungo i muri. Tutte avevano volti d’ombra, tutte erano nulla. E il gas splendeva più forte, fischiando, nell’ampia sala; dai vetri rotti delle ogive il chiaro di luna abbagliava, accecante; l’orrore si impadronì di me, tra quegli esseri vuoti, dalle vane apparenze di spettri, uno spaventoso dubbio mi strinse il cuore di fronte a quelle maschere vuote. Se anch’io fossi simile a loro, se anch’io avessi cessato di esistere, se, sotto la mia maschera, non vi fosse nulla, null’altro che il vuoto? Mi precipitai a uno specchio. Un essere irreale si drizzava innanzi a me, incappucciato di verde pallido, incoronato di gigli neri, mascherato d’argento. E quella maschera ero io, poiché riconobbi il gesto della mia mano che sollevava la cagoule, e urlai di spavento: sotto la maschera d’argento non c’era nulla, nulla nell’ovale del cappuccio, se non il movimento della stoffa ripiegata sul vuoto; ero morto e… «E hai di nuovo bevuto l’etere» mi rimproverava la voce di de Jakels. «Strana idea per ingannare l’attesa.» Ero disteso al centro della mia camera, scivolato sul tappeto, la testa appoggiata alla poltrona, e de Jakels, in abito da sera sotto una tonaca monacale, dava ordini febbrili al mio cameriere sbalordito, mentre le due candele accese, ormai giunte alla fine, facendo crepitare lo stoppino, mi ridestavano… Era tempo.

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Robert Louis Stevenson

IL DIAVOLO NELLA BOTTIGLIA (The Bottle Imp, 1893)

La famosa storia della bottiglia dentro la quale c’è un diavolo che può realizzare ogni desiderio fu raccontata da Stevenson agli indigeni di Samoa e come tale figura nel volume I trattenimenti delle notti dell’isola. Ma Stevenson non aveva fatto che trasportare una vecchia leggenda scozzese in una generica ambientazione dei Mari del Sud. Questo per la fonte dell’invenzione: quanto alla resa letteraria, The Bottle Imp è un capolavoro dell’arte del narrare. L’intreccio si svolge con una esattezza matematica, astratta. Anche qui il soprannaturale è ridotto al minimo: l’angoscia sta tutta nella coscienza e si materializza in una semplice bottiglia dentro la quale s’intravede appena una forma biancastra. Sul valore autentico di Robert Louis Stevenson (1850-1894) non tutti i giudizi sono d’accordo. C’è chi lo considera un minore e chi un grande in assoluto. Questo secondo è pure il mio avviso: per la nettezza limpida e leggera dello stile, ma anche per il nocciolo morale d’ogni sua narrazione. Qui è la morale del limite umano che ha una ricca, modulata rappresentazione fantastica. Viveva un uomo nelle isole Hawaii al quale darò il nome di Keawe: il fatto è che vive ancora e debbo mantenerne l’incognito. Era nato non lontano da Hoaunau, dove giacciono sepolte in una grotta le ossa di Keauwe il Grande. Era un povero giovane pieno di coraggio e di alacrità; sapeva leggere e scrivere come un maestro, inoltre era un abile marinaio. Per un certo tempo infatti aveva fatto rotta sui battelli a vapore delle isole e aveva pilotato una baleniera sulla costa di Hamakua. Con il tempo gli balenò in testa l’idea di dare un’occhiata al mondo e alle città straniere, e così s’imbarcò su una nave diretta a San Francisco. Questa è una gran bella città, con un vasto porto, una vera marea di gente facoltosa, e una collina coperta di ricche dimore. Un giorno Keawe stava passeggiando sulla collina, le tasche piene di soldi, e guardava con stupore quei grandi edifici che davano su entrambi i lati della strada. “Che case magnifiche!” pensava. “E come devono essere felici quelli che vi abitano, senza preoccupazioni per il domani! ” Stava appunto formulando un pensiero simile, quando si trovò di fronte ad una palazzina più piccola delle altre, ma così curata fin nei dettagli, da sembrare una casa di bambole: gli scalini d’accesso luccicavano come se fossero d’argento; le siepi che cingevano il giardino erano così fiorite da sembrare ghirlande; le finestre poi, avevano lo splendore del diamante. Keawe si fermò ad ammirare a bocca aperta quella meraviglia. Mentre se ne stava impalato, s’accorse che un uomo

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lo guardava da dietro una finestra; e i vetri erano così tersi che Keawe poté scorgerlo così nitidamente come si vede un pesciolino in una pozza d’acqua in qualche incavo della scogliera. Era un vecchio con la testa pelata e la barba nera; aveva la tristezza dipinta sul volto e uno sguardo corrucciato. Il fatto è che Keawe fissava l’omino e questi fissava a sua volta Keawe e ognuno invidiava l’altro. Ad un tratto l’omino sorrise e fece cenno con il capo invitando Keawe ad entrare e andandogli incontro fin sulla soglia. «Questa bella casa è mia» disse l’uomo; poi, sospirando amaramente, aggiunse: «Non gradireste dare uno sguardo alle stanze?». E così fece visitare a Keawe lo stabile, dalla cantina alla soffitta: tutto rispondeva a un proprio canone di perfezione, tanto che Keawe restò sbalordito. «È davvero una casa splendida» disse Keawe; «se vivessi in un posto come questo, sarei felice come una pasqua da mane a sera. Ma perché voi sospirate a quel modo?» «Non vedo alcuna ragione» disse l’uomo «perché non abbiate anche voi una dimora in tutto e per tutto simile a questa, e anche migliore, se credete. Penso che abbiate qualche soldo, non è vero?» «Ho cinquanta dollari» disse Keawe «ma una casa come questa, altro che cinquanta dollari costa!» L’omino fece di conto, poi disse: «Peccato che avete così poco, in futuro potreste avere dei fastidi, comunque ve la lascerò per cinquanta dollari». «La casa?» chiese Keawe. «No, non la casa» rispose l’uomo «ma la bottiglia. Infatti devo dirvi che, sebbene vi sembri un gran riccone, tutto il mio avere, compresa questa casa e questo giardino, sono scaturiti da una boccia che non contiene più d’una pinta: proprio così.» Con queste parole aprì un ripostiglio che teneva sotto chiave e tirò fuori una bottiglia panciuta dal collo lungo lungo; il vetro aveva un colore lattiginoso, ma era cangiante come l’arcobaleno. S’intravedeva qualcosa che si muoveva dentro, come se fosse un’ombra, un focherello. «Ecco la bottiglia» disse l’uomo, e vedendo sorridere Keawe aggiunse: «Non mi credete? Bene, provate a romperla se vi riesce». Keawe prese la bottiglia e la lanciò più volte sul pavimento, finché non fu esausto di quell’esercizio; ma quella rimbalzava come una palla, senza nemmeno scheggiarsi. «È proprio buffo» disse Keawe «a toccarla e a vederla sembra proprio di vetro.» «Ma è di vetro» rispose l’uomo con un sospiro più sconsolato che mai «un vetro temperato nella fucina dell’inferno. Dentro ci vive uno spiritello e

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quell’ombra che si scorge è la sua, o così almeno credo. Il diavolino è al servizio di chi compra questa boccia. Basta pronunciare una parola e il demone che è qui dentro gli procura tutto quello che desidera: amore, fama, denaro, case come la mia, e città come questa. Napoleone possedette questa bottiglia e grazie a lei diventò padrone del mondo: poi la vendette e questo segnò la sua rovina. La possedette il capitano Cook e suo tramite scoprì il passaggio verso molte isole; ma anche lui la rivendette e fu assassinato alle Hawaii. Perché dovete sapere che, una volta venduta, il suo potere si estingue e con esso la protezione, e a meno che uno non si accontenti di quello che ha, gli accade qualche sciagura.» «E malgrado ciò avete intenzione di venderla?» disse Keawe. «Ho tutto quello che desidero, e sto diventando vecchio» rispose l’uomo. «L’unica cosa che il diavolo non può procurare è una vita più lunga. Inoltre sarebbe sleale se vi nascondessi un particolare sgradevole: se uno muore prima di aver venduto la bottiglia, è dannato all’inferno.» «Certo, non è uno scherzo da poco» esclamò Keawe «non vorrei immischiarmi in questa faccenda. Grazie a Dio, posso fare a meno di un tetto; ma di una cosa non potrei assolutamente fare a meno, e cioè di salvarmi l’anima.» «Caro mio, non precipitate: basta che usiate il potere del diavolo con moderazione e poi vendiate la bottiglia a qualcun altro, come sto facendo io con voi, per finire i vostri giorni tranquillo e beato.» «Bene, ma vorrei farvi osservare un paio di cose» disse Keawe. «Prima di tutto non avete smesso un minuto di sospirare come una ragazzina innamorata; quanto alla seconda, mi sembra che stiate vendendo la bottiglia per un’inezia.» «Ve l’ho già detto perché sospiro» rispose l’uomo. «Sento che la salute mi abbandona e, come avete osservato anche voi, morire e andare all’inferno è male per tutti. Quanto al basso prezzo a cui vendo la bottiglia, dovrò spiegarvi una sua caratteristica. Tanto tempo fa, quando il diavolo la portò sulla terra per la prima volta, era carissima e il primo a comprarla fu Prester John che sborsò svariati milioni di dollari. Dopo di lui poté essere venduta soltanto a scapito. Se la vendete al prezzo a cui l’avete comprata, vi torna a casa come un piccione viaggiatore. Di conseguenza in tutti questi secoli il prezzo è andato calando e al giorno d’oggi la bottiglia è proprio a buon mercato. Io stesso l’acquistai da uno dei miei doviziosi vicini che abitano questa collina e la pagai soltanto novanta dollari. Potrei rivenderla a un massimo di ottantanove dollari e novantanove centesimi, ma non un centesimo di più, altrimenti me la vedrei ripiombare indietro. E quanto a questo ci sono altri inconvenienti: innanzi tutto quando offrite una bottiglia di questo genere per la modica spesa di ottanta dollari, la gente non vi prende

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sul serio; inoltre… ma avremo tutto il tempo necessario per parlare di questo. Ricordate soltanto che deve essere venduta a denaro contante.» «Ma come faccio a sapere che quel che dite risponde a verità?» domandò Keawe. «Potete fare una prova anche subito» rispose l’uomo. «Datemi i vostri cinquanta dollari e prendete la bottiglia; poi esprimete il desiderio che i vostri soldi vi tornino in tasca. Se ciò non accade, m’impegno a rescindere il contratto e a restituirvi il denaro.» «Non m’ingannate?» disse Keawe. L’uomo lo rassicurò con un solenne giuramento. «Bene, tenterò» disse Keawe. «Tanto non può venirmene gran danno.» E così dicendo consegnò il denaro all’uomo ricevendo in cambio la bottiglia. «Demone della bottiglia» disse Keawe «rivoglio i miei cinquanta dollari.» Aveva appena pronunciato queste parole, che si sentì di nuovo la tasca gonfia. «È una bottiglia meravigliosa, non c’è dubbio» disse Keawe. «Ed ora buon giorno, mio caro amico, e il diavolo accompagni voi al posto mio!» disse l’uomo. «Riprendetevela» disse Keawe «ne ho abbastanza di questi trucchi. Eccovi la bottiglia.» «Ma voi l’avete comprata a meno di quanto l’ho pagata io» replicò l’uomo fregandosi le mani. «Ormai è vostra. Da parte mia desidero soltanto vedervi voltare il groppone.» Così dicendo chiamò il servo cinese perché mostrasse a Keawe la porta di casa. Quando Keawe si ritrovò in strada, con la bottiglia sotto il braccio, cominciò a pensare: “Se è vero quel che mi ha detto della bottiglia, posso aver fatto un pessimo affare. Ma forse quel tale voleva burlarsi di me”. Allora si dette a contare i soldi; la cifra era esatta: quarantanove dollari americani e una moneta del Cile. «Questo sembra che sia vero» disse Keawe «ma ora farò un’altra prova.» In quel quartiere della città le strade erano lucide come la tolda d’una nave e, sebbene fosse mezzogiorno, non c’era in giro anima viva. Keawe depose la boccia nella zanella e proseguì. Si voltò indietro un paio di volte e vide la bottiglia lattiginosa e panciuta che restava immobile dove l’aveva lasciata. Guardò una terza volta prima di svoltare, ma appena girato il cantone sentì qualcosa che gli picchiettava sul gomito: era il lungo collo che gli batteva contro il braccio mentre il fondo panciuto della bottiglia s’era infilato a forza nella tasca della sua casacca da marinaio. «E anche questo è vero» disse Keawe. Allora comprò un cavatappi in una bottega e se ne andò nei campi, in un cantuccio appartato. Tentò di estrarre il tappo dalla boccia, ma tutte le volte

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che provava a infilare il cavatappi, non riusciva a far presa e il turacciolo restava intatto. «Deve essere un nuovo tipo di sughero» disse Keawe cominciando a tremare e a sudare per la paura, poiché la bottiglia lo riempiva di spavento. Tornando verso la zona del porto, scorse un emporio dove un tale vendeva conchiglie e mazze provenienti dalle isole selvagge, vecchi idoli pagani, antiche monete, stampe che venivano dalla Cina e dal Giappone, e quel genere di cianfrusaglie che i marinai sogliono tenere nei loro bauletti. Keawe ebbe un’idea: entrò dentro e offrì la bottiglia per cento dollari. Lì per lì il negoziante gli rise in faccia e disse che gli avrebbe dato cinque dollari; ma a riguardarla bene era una bottiglia veramente strana… un vetro che nessuna vetreria umana avrebbe saputo soffiare, così straordinari erano quei colori che rilucevano nel bianco opalescente, e così misteriosa quell’ombra che vagava dentro. Fatto sta che dopo un certo tira e molla il bottegaio consegnò a Keawe sessanta dollari d’argento e mise la bottiglia su un ripiano, proprio nel bel mezzo della vetrina. «Bene» disse Keawe «ho venduto a sessanta dollari quel che ho pagato cinquanta… o, a dire il vero, un po‘ meno, perché uno dei miei dollari era del Cile. Ora saprò la verità su di un altro punto.» Così tornò a bordo della nave, ma quando aprì la sua cassetta ci trovò la bottiglia che aveva fatto un tragitto più veloce di lui. Sulla nave Keawe aveva un compagno che si chiamava Lopaka. «Che ti succede?» chiese Lopaka. «Sei rimasto imbambolato dinnanzi alla tua cassetta!» Erano soli nel castello di prua e così, dopo avergli fatto giurare di mantenere il segreto, Keawe gli narrò la storia. «È una strana faccenda» disse Lopaka «e temo che questa bottiglia ti metta nei guai. Una cosa è certa comunque: visto che i fastidi ci saranno di sicuro, merita sfruttare il lato positivo; tu stesso d’altra parte hai voluto trarre un guadagno nella vendita. Pensa bene a ciò che vuoi ricavarne; impartisci l’ordine e, se ottieni ciò che desideri, ti ricomprerò io stesso la bottiglia. Vorrei acquistare un piccolo veliero e commerciare nelle isole.» «Io vorrei una cosa diversa» disse Keawe; «una bella casa circondata dal giardino sulla costiera di Kona, dove sono nato, con il sole che splende sulla porta, fiori in giardino, vetri alle finestre, quadri alle pareti, ninnoli e copritavole. Una casa simile a quella che ho visto questa mattina… magari un piano più alta e con le terrazze tutt’intorno, come la dimora del re, e viverci senza pensieri facendo baldoria con parenti e amici.» «Bene» disse Lopaka «portiamocela alle Hawaii e se si avvererà tutto come tu credi, ti ricomprerò la boccia, te l’ho già detto, e ordinerò un veliero.» Restarono d’accordo in questi termini e non passò molto tempo che la nave

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tornò ad Honolulu trasportando Keawe, Lopaka e la loro brava bottiglia. Erano appena sbarcati che s’imbatterono in un loro compagno che cominciò subito a far le condoglianze a Keawe. «Non capisco perché mi compiangi» disse Keawe. «Forse non l’hai ancora saputo» rispose l’amico «ma tuo zio… quel buon vecchietto, è deceduto e tuo cugino, quel bel ragazzo, è annegato in mare.» Keawe fu preso dal dolore e cominciò a piangere e a lamentarsi dimenticando la bottiglia; ma Lopaka, che pensava a se stesso, attese che il dolore di Keawe si placasse e: «Ma tuo zio» disse «non aveva delle terre alle Hawaii, dalle parti di Kau?». «No» disse Keawe «non sono dalle parti di Kau, ma verso le montagne… su verso Hookena.» «E queste terre ora saranno tue?» chiese Lopaka. «Sì, proprio così» rispose Keawe ricominciando a dolersi per i suoi morti. «No» disse Lopaka «non lamentarti adesso; m’è venuta un’idea: se quanto è accaduto fosse opera della bottiglia? Se lo avesse fatto per procurarti il terreno su cui far sorgere la casa?» «Se fosse così» rispose Keawe «non ci sarebbe modo peggiore di accontentarmi che quello di uccidere i miei parenti. Ma potrebbe anche essere, certo; perché la mia casa me l’ero immaginata proprio in quel luogo.» «Però la casa non c’è ancora» disse Lopaka. «No, e non ci sarà mai!» disse Keawe. «Perché sebbene mio zio possedesse qualche campo di caffè, di ava1 e di banane, bastano appena per vivere con una certa agiatezza; il resto della terra è lava nera.» «Andiamo dall’avvocato» disse Lopaka «mi frulla in testa sempre la stessa idea.» Quando furono dall’avvocato vennero a sapere che negli ultimi tempi lo zio di Keawe s’era arricchito in maniera favolosa, lasciando un ingente capitale. «Ed ecco il denaro per la casa!» disse Lopaka. «Se avete in mente di costruirvi una nuova casa» disse l’avvocato «vi darò l’indirizzo di un giovane architetto di cui si dicono grandi cose.» «Di bene in meglio!» esclamò Lopaka. «Tutto s’appiana da sé. Non ci resta che eseguire gli ordini.» Si recarono quindi dall’architetto che aveva il tavolo ingombro di progetti di palazzine. «Preferite qualcosa fuori del comune?» chiese l’architetto. «Che ne pensate di questo?» e così dicendo sottopose a Keawe un disegno. Keawe non fece in tempo a gettarci lo sguardo che proruppe in un grido: era il disegno della casa che s’era sempre sognato, nata e sputata. “Questa casa m’impegola sempre più” pensò “ma che lo voglia o meno, le

1 Si tratta di una pianta del genere del pepe dalla quale si ricava una bevanda diffusa nella Polinesia.

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cose vanno avanti da sé e ormai che siamo in ballo tanto vale ballare.” E così disse all’architetto quel che desiderava, come voleva che fosse arredata la casa, quali quadri dovevano esserci appesi e quali gingilli dovevano figurare sui mobili. Poi domandò quale sarebbe stata la spesa per il suo lavoro. L’architetto fece molte domande, prese la penna e si mise a fare i conti; alla fine disse la somma esatta che Keawe aveva ereditato. Lopaka e Keawe si guardarono l’un l’altro accennando con il capo. “Non ci sono più dubbi” pensò Keawe “questa casa devo proprio averla, a prescindere dal mio volere. È il diavolo che me la manda e temo che me ne verranno dei guai. Sono certo comunque che, finché avrò questa bottiglia, non mi azzarderò più ad esprimere desideri. A questa casa ormai ci sono legato mani e piedi e quindi posso accettare quanto c’è di buono e di cattivo.” Così stipulò il contratto con l’architetto e sottoscrisse una carta. Poi Keawe e Lopaka s’imbarcarono di nuovo facendo rotta verso l’Australia, poiché s’erano accordati di non immischiarsi in nessun modo, lasciando che l’architetto e il demone della bottiglia pensassero a costruire e ad arredare la casa a piacer loro. Fecero un buon viaggio, anche se Keawe stette sempre con il fiato sospeso poiché aveva giurato che non si sarebbe più azzardato a formulare alcun desiderio e non avrebbe accettato altri favori dal demonio. Quando furono di ritorno il tempo del contratto era scaduto. L’architetto li informò che la casa era pronta per essere abitata e così Keawe e Lopaka presero posto sullo Hall e si recarono a Kona per vedere la casa e controllare se era in tutto conforme all’idea che se ne era fatta Keawe. La dimora s’ergeva sul pendio della montagna ed era visibile dalla nave. Oltre la casa, in alto, la foresta sembrava inerpicarsi andando a confondersi con le nubi cariche di pioggia; sotto, la lava nera sprofondava in calanchi dove avevano trovato sepoltura gli antichi re. Attorno alla casa si estendeva un giardino rigoglioso con fiori di tutti i colori; da un lato c’era un frutteto di papaia e dall’altro uno di alberi del pane, mentre di fronte all’abitazione e dalla parte del mare era stato piantato un pennone con in cima una bandiera. La casa era di tre piani, con grandi sale ed ampi balconi per ogni piano. Le finestre erano fornite di ottimi vetri, limpidi come l’acqua e splendenti come la luce del giorno. Le sale erano ammobiliate alla perfezione. Alle pareti erano appesi dipinti entro cornici dorate: raffigurazioni di navi, di uomini che facevano la lotta, di femmine meravigliose, di strani paesi; dipinti dai colori così vivaci come quelli che Keawe trovò appesi alle pareti di casa sua non si trovavano nemmeno in capo al mondo. Quanto ai ninnoli, poi, erano squisiti: orologi a pendolo, cofanetti armonici, omini che accennavano un saluto dondolando il capo, libri riccamente illustrati, armi preziose provenienti da

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tutte le parti del mondo e i più raffinati giuochi di pazienza per intrattenere un uomo solitario nelle ore d’ozio. Nessuno avrebbe realmente abitato quelle sale, fatte soltanto per essere attraversate con occhi pieni di meraviglia. Le terrazze erano del pari così ampie da poter ospitare un’intera cittadina con tutta comodità. Keawe era incerto se preferire il portico sul retro, dove arrivava la brezza di terra e si godeva l’incanto dei frutteti e delle aiuole, o il balcone del prospetto, dove si poteva respirare a pieni polmoni il venticello della sera e scorgere il profilo scosceso della montagna e vedere lo Hall che una o due volte alla settimana faceva la spola fra Hookena e le Isole di Pele, o i piccoli velieri risalire la costa per caricare legname, ava e banane. Quando Keawe e Lopaka ebbero visitato la casa, si sedettero sotto il porticato. «Bene» chiese Lopaka «è tutto come avevi pensato?» «Non ho parole» rispose Keawe. «È meglio di come me l’ero immaginata. Mi sembra di morire di gioia.» «C’è da osservare solo una cosa» disse Lopaka «tutto ciò può essere accaduto naturalmente, senza che il diavolo ci abbia messo la coda. Se comprassi la bottiglia e non ottenessi il veliero, avrei messo la mano sul fuoco per niente. Ti ho dato, la mia parola, lo so, ma credo che non ti arrabbieresti se ti chiedessi un’altra prova.» «Ho giurato che non avrei chiesto altro» disse Keawe «mi sono spinto anche troppo in là.» «Ma non sto pensando che tu debba chiedere qualcosa» rispose Lopaka. «Si tratta solo di vedere il diavolo in persona. Il che non comporta alcun guadagno, né è d’altra parte un atto disdicevole. Se tuttavia lo vedessi almeno una volta non avrei più dubbi su questa storia. Fammi vedere il diavolo, te ne prego; dopo, ecco il denaro, ti comprerò la bottiglia.» «Ma io temo che il demonio sia così brutto» disse Keawe «che una volta che tu l’abbia visto tu possa non voler più la bottiglia.» «Sono uno che mantiene la parola» disse Lopaka «ecco i soldi come pegno.» «Benissimo» rispose Keawe «sono curioso anch’io; dunque fatti un po‘ vedere, signor diavolo.» Appena fu pronunciata questa parola, il demone sbucò fuori dalla boccia e subito si ricacciò dentro con la celerità d’una lucertola. Keawe e Lopaka restarono di sasso. E prima che l’uno o l’altro avesse avuto modo di capacitarsi e di ritrovare la voce per parlare, scesero le tenebre. Allora Lopaka spinse avanti i soldi e si prese la bottiglia. «Sono un uomo di parola, io» disse Lopaka «e comunque devo esserlo per forza, altrimenti non toccherei questa bottiglia nemmeno con un piede. E poi quando avrò il mio veliero e qualche soldo in tasca mi libererò in quattro e quattr’otto di questo arnese. Perché, a dirti le cose come stanno, la vista del diavolo mi ha abbattuto.»

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«Ascolta, Lopaka» disse Keawe «cerca di non prendertela a male per quello che sto per dirti. So che è scesa la notte, le strade sono brutte, il sentiero fra le tombe tutt’altro che piacevole da percorrersi a quest’ora, ma devo pur dirti che da quando ho visto quel brutto musaccio, mi è impossibile mangiare, dormire e pregare, a meno che non sia lontano da me. Ti darò una lanterna, un cesto per tenerci la bottiglia, un quadro o qualsiasi altro oggetto di casa mia che ti abbia colpito… ma vattene via subito, vattene a dormire da Nahinu a Hookena.» «Keawe» disse Lopaka «molti se la prenderebbero a male, soprattutto dopo essermi comportato con te come un vero amico e aver mantenuto la parola comprando la bottiglia; e poi perché è buio pesto e il percorso fra le tombe deve essere dieci volte più pericoloso per uno come me, che si porta dietro una coscienza sporca e una simile bottiglia sottobraccio. Ma sono talmente terrorizzato io stesso, che non me la sento di biasimarti. E così me ne vado: prego Iddio che tu sia felice nella tua dimora e che la fortuna m’assista con il mio veliero e che alla fine possiamo entrambi andare in cielo a dispetto della bottiglia e del suo demone.» Detto questo, Lopaka prese a discendere la montagna e Keawe s’affacciò al balcone ad ascoltare il suono degli zoccoli del cavallo e a seguire con lo sguardo la lanterna che riluceva degradando giù per il sentiero e lungo gli antri del calanco dove avevano trovato sepoltura i vecchi re; e per tutto il tempo non fece altro che rabbrividire e torcersi le mani, pregando per il suo amico e rendendo gloria al Signore per essere scampato al pericolo. Il giorno appresso era così radioso e la sua nuova dimora talmente incantevole, che dimenticò le sue paure. Passavano i giorni e Keawe viveva felice e contento nella sua casa. Il suo angolo prediletto era il portico sul retro; ci stava quasi sempre, a mangiare e a leggere i giornali di Honolulu. Quando veniva qualche visitatore, era di prammatica far visitare le sale e i quadri appesi alle pareti. Nel frattempo la fama di quella dimora s’era diffusa tutto intorno ed era andata lontano. Nella regione di Kona la chiamavano Ka-Hale-Nui, cioè la Casa Grande, o anche la Casa Lucente, perché Keawe aveva assunto un servo cinese che passava il giorno a spolverare e a lustrare, tanto che i vetri, gli ottoni, le stoffe pregiate, i quadri avevano la lucentezza del mattino. Quanto a Keawe, non poteva passare da una stanza all’altra senza canterellare, poiché sentiva la gioia sgorgargli dal cuore; e quando vedeva le navi costeggiare le salutava issando sul pennone la propria bandiera. Così il tempo passò, finché un giorno Keawe si recò sino a Kailua per far visita a certi amici. Gli riservarono un’accoglienza festosa, ma il mattino appresso tagliò la corda appena gli fu possibile e cavalcò di gran lena perché non vedeva l’ora di rivedere la sua splendida casa. Oltretutto la notte seguente sarebbe stata quella in cui dalle parti di Kona i morti dei tempi

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andati usano mostrarsi in giro. E poiché lui aveva già avuto a che fare con il demonio, non aveva alcuna intenzione di imbattersi nei morti. Aveva appena oltrepassato Honaunau allorché, guardando innanzi, scorse una donna che si bagnava sulla riva del mare. Sembrava una fanciulla fiorente, ma non ci pensò a lungo. Poi scorse la veste di lei sventolare come se stesse infilandosela e il suo rosso holoku; e quando le fu vicino lei aveva già terminato di mettersi a posto, era risalita dalla spiaggia e se ne stava sul limitare del sentiero nel suo rosso holoku, fresca del bagno, gli occhioni dolci e splendenti. Non appena Keawe la vide, tirò le redini. «Credevo di conoscere tutti da queste parti» disse. «Come mai non ti ho mai vista?» «Sono Kokua, figlia di Kiano» disse la fanciulla «e sono appena tornata da Oahu. E tu chi sei?» «Te lo dirò fra poco» disse Keawe smontando da cavallo «non ora. Ho in mente un’idea, ma se ti dicessi chi sono, potresti anche aver sentito parlare di me e non mi daresti una risposta sincera. Per prima cosa dimmi se sei sposata.» A queste parole Kokua rise forte. «È a te che si deve fare questa domanda» disse «e tu allora sei sposato?» «No, davvero, Kokua» rispose Keawe «e fino ad ora non ci avevo nemmeno pensato. Ma ecco qual è la verità: ti ho incontrata qui al limitare del sentiero, e quando ho visto i tuoi occhi simili alle stelle il mio cuore ti è volato incontro rapido come un uccello. Se tu ora non vuoi saperne di me, dillo ed io proseguirò per la mia strada. Ma se ritieni che non sia peggiore degli altri, sarò felice di dirigermi verso la casa di tuo padre questa sera stessa e parlerò con lui domani.» Kokua non disse parola, guardava il mare e rideva. «Kokua» disse Keawe «se non rispondi, interpreterò il tuo silenzio come un consenso. Andiamo verso la casa di tuo padre.» Lei s’incamminò innanzi a lui; senza dir motto. Ogni tanto si voltava indietro e poi guardava di nuovo in avanti mordicchiando i nastri del cappello. Quando furono vicino a casa uscì sulla veranda Kiano e gridò il benvenuto a Keawe chiamandolo per nome. La fanciulla lo guardò con diverso interesse, perché anche lei aveva sentito parlare della grande casa; e non c’è dubbio che quella fosse per lei una forte tentazione. Trascorsero insieme una serata piena di allegria, e Kokua fece la spavalda sotto gli occhi dei genitori prendendosi gioco di Keawe, tanto più che non mancava di arguzia. Il giorno appresso Keawe parlò con Kiano e trovò la fanciulla sola. «Kokua» disse «ti sei presa gioco di me per tutta la sera; sei ancora in tempo per dirmi di andarmene. Non volevo rivelarti la mia identità per via della mia bella casa; temevo che tu pensassi troppo alla casa e poco a colui che ti ama.

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Ormai sai tutto e se questa è l’ultima volta che desideri vedermi, dimmelo subito.» «No» disse Kokua, e questa volta non rise. Keawe non chiese altro. Questa fu la corte che le fece Keawe. Le cose si erano svolte con grande celerità: veloce la freccia e ancor più rapida la palla dello schioppo, ed entrambe colpiscono il bersaglio. Le cose s’erano svolte a precipizio, ma erano andate anche lontano e il nome di Keawe risuonava nella mente della fanciulla; sentiva la voce di lui nel frangersi dell’onda sulla costa di lava, e per questo giovane che aveva visto solo due volte lei avrebbe lasciato il padre, la madre e le isole nelle quali aveva vissuto. Quanto a Keawe, il suo cavallo risaliva il pendio sotto il costone delle tombe mentre il suono degli zoccoli e il canto solitario di un cuore innamorato echeggiavano negli antri dei defunti. Quando arrivò alla Casa Lucente, cantava ancora. Si mise a tavola per pranzare sul grande terrazzo e il servo cinese rimase stupito nel sentire il padrone che canterellava fra un boccone e l’altro. Il sole tramontò dietro il mare e scese la notte. Keawe si dette a percorrere il terrazzo alla luce del lampione che splendeva sui monti e il suo canto sorprese al largo i naviganti. “Eccomi al culmine della felicità” disse con se stesso “e la vita non potrebbe essere migliore. Mi trovo sulla sommità del monte mentre tutte le strade degradano verso il basso. Per la prima volta voglio accendere le lampade in tutte le stanze e fare il bagno nella mia splendida vasca con acqua calda e fredda e poi coricarmi nel letto della mia camera nuziale.” Il cinese dovette dunque alzarsi e accendere la caldaia e mentre trafficava da basso per scaldare l’acqua, sentiva il padrone che cantava felice con se stesso nelle stanze inondate di luce. Allorché l’acqua fu calda, il cinese avvertì il padrone, il quale entrò nella stanza da bagno. E il cinese udì che ancora cantava mentre faceva sgorgare l’acqua nella vasca di marmo, e che la voce a tratti svaniva mentre si spogliava. Poi il canto s’interruppe, di colpo. Il cinese tese più volte gli orecchi, poi chiamò Keawe per chiedergli se stesse bene e Keawe gli rispose: «Sì» e gli ordinò di andare a letto. Ma non c’era più alcuna eco canora nella Casa Lucente e per tutta la notte il cinese sentì il padrone che passeggiava senza requie sulle terrazze. Il fatto è che mentre Keawe si stava spogliando per scendere nella vasca, aveva scoperto sul proprio corpo una macchiolina simile alla chiazza del lichene su una roccia. Era stato allora che aveva smesso di cantare, perché lui sapeva il significato di quel segno, e sapeva anche di essere stato colpito dal mal cinese.2 Ora, è triste per chiunque contrarre questa malattia. E altrettanto triste per tutti dovere abbandonare una casa simile, bella e confortevole, e separarsi

2 Era così definita la lebbra.

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dagli amici per andare verso la costa settentrionale di Molokai,3 fra le rocce possenti e i marosi. Ma cos’era mai in confronto al caso di Keawe, di chi aveva incontrato il suo amore proprio il giorno prima e aveva ottenuto il suo assenso quella mattina stessa, e vedeva ora tutte le sue speranze andare in frantumi come un cristallo? Per un po‘ rimase seduto sul bordo della vasca, poi si levò con un grido e corse all’aperto, mettendosi a camminare avanti e indietro al colmo della disperazione. “Potrei lasciare le isole Hawaii, terra dei miei padri” pensava Keawe “potrei anche abbandonare questa casa sulla vetta del monte, la casa dalle molte finestre. Troverei il coraggio per dirigermi verso Molokai, a Kalaupapa, sotto le scogliere, vivendo con i reietti e dormendo con loro lontano dai miei padri. Ma quale errore ho commesso, quale peccato porto impresso nell’anima, per aver dovuto incontrare Kokua che usciva fresca dal mare, nella sera? Kokua che mi ha incantato l’anima, Kokua, la luce della mia vita? Non potrò più sposarla, non potrò mai più ammirarla, né accarezzarla con le mie mani colme d’amore, ed è proprio per questo, è per te, Kokua, che levo il mio pianto.” Ora capirete che tipo d’uomo fosse Keawe. Egli avrebbe potuto vivere nella Casa Lucente ancora per anni, senza che nessuno avesse sentore della sua malattia. Ma gli interessava ben poco se doveva perdere Kokua. Avrebbe potuto sposare Kokua anche in quello stato, e sono in tanti a farlo, poiché son tanti ad avere l’anima di porci. Ma l’amore di Keawe per la ragazza era di nobile stampo e non voleva né provocarle del male, né arrecarle pericolo. Accadde poco dopo la mezzanotte che gli tornasse alla mente la bottiglia. Arrivò fin sotto il portico sul retro e ripensò al giorno in cui il diavolo era sbucato fuori, orrendo. A quel pensiero sentì un brivido di gelo nelle vene. “Quella boccia è spaventosa” pensò Keawe “e spaventoso il demonio, e spaventoso è rischiare le fiamme infernali. Ma quale altra speranza mi resta di guarire dalla malattia o di sposare Kokua? Ma come!” pensò. “Ho affrontato il diavolo una volta solo per avere una casa, e non ho il coraggio di affrontarlo un’altra volta per amor di Kokua?” Nel frattempo s’era ricordato che il giorno appresso sarebbe stato di transito lo Hall, nel viaggio di ritorno verso Honolulu. “È là che devo andare innanzi tutto” pensò “per incontrare Lopaka. La mia unica speranza è di rintracciare la bottiglia di cui desideravo tanto sbarazzarmi.” Non riuscì a chiudere occhio la notte; il cibo non gli andava né su né giù. Però scrisse una lettera a Kiano e quando si avvicinò l’ora in cui sarebbe dovuto passare il battello, scese a cavallo lungo il sentiero che si snoda all’ombra del calanco dei morti. Pioveva, il cavallo procedeva arrancando, lui gettò uno

3 Sulla costa omonima si trova il lebbrosario di Kalaupapa.

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sguardo alle nere bocche degli antri e sentì un moto d’invidia per quei poveri morti che ormai riposavano in pace, sgombri di ogni preoccupazione, e ripensò come il giorno prima era passato al galoppo per quei paraggi con tutt’altri pensieri, e ne rimase sgomento. Così arrivò a Hookena dove la gente s’era radunata come sempre ad accogliere la nave. La gente scherzava e si raccontava le novità, seduta sotto la tettoia dell’emporio. Ma Keawe non aveva alcun desiderio di parlare e così si sedette in mezzo agli altri, lo sguardo perso che sembrava osservare la pioggia che si riversava sulle case, e la risacca che si frangeva sulla scogliera, mentre un groppo gli chiudeva la gola. «Keawe della Casa Lucente ha perso il buonumore» sussurrava la gente. E lo aveva perso veramente, né c’era da stupirsene. Poi arrivò lo Hall e una scialuppa lo portò a bordo. A poppa il battello era affollato di haole4 che erano andati a fare un’escursione al vulcano, secondo il loro costume; al centro si pigiavano i kanaka5 e a prua erano ammassati i tori selvaggi di Hilo e i cavalli di Kau. Ma Keawe se ne stava solo in disparte con il proprio dolore e cercava di intravedere la casa di Kiano. Era accucciata là sulla spiaggia, contornata da rocce nere, all’ombra delle palme di cocco, e accanto alla porta si vedeva il rosso holoku, una macchiolina non più grande di una mosca e come una mosca indaffarata avanti e indietro: «Ah! Regina del mio cuore!» gridò Keawe. «Metterò a repentaglio l’anima per poterti avere.» Subito dopo caddero le tenebre e le cabine s’illuminarono mentre gli haole si sedevano ai tavoli per giocare a carte e bere whiskey, secondo le loro abitudini; ma Keawe passeggiò sul ponte per tutta la notte, e il giorno dopo, mentre il vapore navigava sottovento lungo la costa di Maui o di Molokai, era ancora là che camminava avanti e indietro come un animale selvatico in un serraglio. Verso sera doppiarono il Capo Diamante e attraccarono al molo di Honolulu. Keawe sbarcò fra la folla e cominciò a chiedere in giro di Lopaka. Si diceva che possedesse un veliero, il più bello delle isole, e che fosse andato alla ventura giù fino a Pola-Pola o Hahiki, quindi non c’era speranza di poterlo incontrare. Keawe si ricordò allora di un suo amico, un avvocato che viveva in città e di cui non dirò il nome, e andò subito a cercarlo. Gli dissero che era diventato all’improvviso ricco sfondato e che possedeva una magnifica casa che dava sulla spiaggia di Waikiki. La notizia fece sorgere un sospetto in testa a Keawe, il quale prese a nolo un calesse e si fece portare alla casa dell’avvocato. Era una casa nuova fiammante, gli alberelli in giardino erano alti quanto bastoni da passeggio. Quando comparve, l’avvocato aveva l’aria della

4 Erano chiamati così i bianchi dalla popolazione indigena. 5 Sono gli indigeni della Polinesia nella definizione dei bianchi.

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persona beata. «In che cosa posso esservi utile?» disse costui. «Voi siete amico di Lopaka» rispose Keawe «e proprio Lopaka ha acquistato da me una certa cosetta che voi spero mi aiuterete a rintracciare.» L’avvocato si rabbuiò. «Non fingerò di cadere dalle nuvole, signor Keawe» disse «sebbene sia molto sgradevole rivangare una faccenda simile. Io non so nulla, potete esserne certo, ma se indagate in un certo quartiere della città, penso che potreste scovare qualcosa.» E gli fece il nome d’un tale che, ancora una volta, mi guarderò bene dal riferire. E così giorno dopo giorno Keawe passò da una persona all’altra, imbattendosi invariabilmente in nuove vesti e carrozze e case magnifiche e uomini allegri e contenti, sebbene i loro volti s’incupissero appena sentivano alludere a quella faccenda. “Senza dubbio sono sulle sue tracce” pensò Keawe. “Questi abiti sfolgoranti e tutte queste carrozze sono i doni di quello spiritello e questi volti beati rivelano persone che hanno ottenuto lauti guadagni e si sono liberate di quella cosa maledetta, salvandosi l’anima. Capirò di essere vicino alla bottiglia solo quando potrò scorgere volti pallidi e sentirò sospiri sconsolati. ” Alla fine accadde che lo indirizzassero da un haole che abitava in via Beritania. Quando arrivò alla casa, era ormai l’ora di cena; trovò i segni inconfondibili di un edificio nuovo di zecca, il giardino piantato di fresco e la luce elettrica che sfolgorava attraverso le finestre. Allorché comparve il proprietario, Keawe fu scosso da un brivido di speranza e di timore. Era un giovane, pallido come un cadavere, gli occhi cerchiati di nero, i capelli arruffati e con un’espressione nel volto quale si ritrova soltanto in coloro che si avviano verso la forca. “Ci sono, senza dubbio” pensò Keawe, e non si perse in chiacchiere con costui. «Son venuto a comprare la bottiglia» disse asciutto. A queste parole il giovane haole di via Beritania vacillò appoggiandosi al muro. «La bottiglia!» disse annaspando. «Comprare la bottiglia!» Poi sembrò soffocare, per cui prese Keawe per un braccio, lo trascinò dentro una stanza e versò due bicchieri di vino. «I miei rispetti» disse Keawe che aveva vissuto a lungo con gli haole. «Sì» aggiunse «sono venuto a comprare la bottiglia. Quanto costa ora?» A quelle parole il giovane lasciò cadere il bicchiere di mano e guardò Keawe con la fissità di uno spettro. «Il prezzo» disse «il prezzo! Non conoscete il prezzo?» «Ma è proprio quello che vi sto chiedendo» insistette Keawe. «Ma perché siete così sconvolto? C’è qualcosa che non va nel prezzo?» «È diminuito enormemente da quando l’avevate voi, signor Keawe» disse il

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giovane balbettando. «Bene, bene, vuol dire che dovrò pagare di meno» osservò Keawe. «Quanto vi è costata?» Il giovane era bianco come un lenzuolo. «Due centesimi» rispose. «Cosa?» gridò Keawe. «Due centesimi? Allora vuol dire che dovrete venderla ad un centesimo. E che quello che la compra…» Le parole gli morirono fra le labbra. Colui che l’avesse comprata non avrebbe più potuto venderla, e la bottiglia con il demone sarebbero rimasti suoi inseparabili compagni fino alla morte e, quando fosse morto, lo avrebbero scortato ai bollori dell’inferno. Il giovane di via Beritania cadde in ginocchio. «Per amor di Dio, compratela!» gridò. «Avrete in cambio tutte le mie ricchezze. Quando l’acquistai a quel prezzo fui un pazzo. Avevo compiuto un ammanco di denaro all’emporio dove lavoravo; senza la bottiglia non avrei avuto scampo e m’avrebbero cacciato in galera.» «Povera creatura» disse Keawe «voi che avete messo a repentaglio l’anima per un’impresa disperata e per sfuggire il giusto castigo della vostra colpa, pensate forse che possa esitare a salvare l’amore che ho in cuore? Datemi la bottiglia e gli spiccioli di resto che sono sicuro avete già pronti. Eccovi una moneta da cinque centesimi.» Keawe aveva ragione: il giovane teneva il resto a portata di mano, e così la bottiglia cambiò proprietario e appena Keawe ne strinse il collo fra le mani espresse con un soffio di voce il desiderio di tornare sano. E infatti quando rientrò nella sua stanza e si spogliò davanti ad uno specchio la sua pelle appariva immacolata come quella di un fantolino. Allora successe una cosa strana. Non appena vide realizzarsi il miracolo, i suoi sentimenti mutarono radicalmente: non gli importò più nulla del mal cinese e ben poco di Kokua. Lo tormentava il pensiero di essere legato al demone della bottiglia per la vita e oltre la vita. Non aveva altra prospettiva se non quella di diventare un tizzone perennemente abbrustolito dalle fiamme dell’inferno. Se le vide balenare dinnanzi con gli occhi dell’immaginazione; l’anima gli venne meno e la tenebra oscurò la luce. Quando Keawe si riebbe un po‘, dal suono dell’orchestrina dell’albergo capì che era già notte. Vi si recò anche lui perché aveva paura di restare solo e quando fu nella sala, in mezzo a facce felici, si mise a camminare avanti e indietro e ad ascoltare la musica che saliva e scendeva di tono; scorse Berger che dirigeva l’orchestra e udì nel contempo il crepitio delle fiamme e con esse gli apparve un fuoco che ardeva in un pozzo senza fondo. Ad un tratto l’orchestrina intonò Hiki-ao-ao, una canzone che aveva cantato con Kokua e quella musica gli infuse di nuovo il coraggio. “Ormai è fatta” pensò “e ancora una volta cercherò di trarre il bene insieme al male.”

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Così accadde che ritornò ad Hawaii6 con il primo battello e, appena furono sbrigati i preparativi, si sposò con Kokua e la condusse con sé sulla montagna, alla Casa Lucente. E successe anche che quando i due erano insieme, il cuore di Keawe era in pace; ma non appena rimaneva solo, sprofondava in cupe meditazioni e sentiva crepitare le fiamme e vedeva ardere il fuoco rosso nell’abisso senza fondo. La ragazza gli si era data davvero con slancio: quando lo vedeva le balzava il cuore nel petto e la mano di lei correva a stringere la sua. E poi era così bella dalla testa ai piedi, che chiunque la vedeva provava un moto di gioia. Era amabile di natura e trovava sempre la parola adatta ad ogni occasione. Le piaceva cantare e, muovendosi nella Casa Lucente, lei, la meraviglia di quella magione, cinguettava come un uccellino. Keawe la contemplava e udiva il suo canto e ne restava deliziato, poi si ritraeva in un angolo e piangeva e si lamentava ripensando al prezzo che gli era costata. Allora doveva asciugarsi le lacrime e lavarsi la faccia prima di sedersi con lei nell’ampio terrazzo, accompagnando il suo canto e rispondendo ai suoi sorrisi con il cuore gonfio. Poi venne un giorno in cui i passi di lei persero la levità consueta e i canti si fecero più rari. Ora non era solo Keawe a nascondersi per piangere in segreto; si evitavano a vicenda andandosi a rincantucciare in balconi diversi, frapponendo fra di loro la vastità della Casa Lucente. Keawe era talmente sprofondato nella sua disperazione, che quasi non s’accorse del cambiamento, anzi fu contento di avere molto più tempo per starsene in disparte a meditare sul suo destino, senza dovere di continuo affettare un sorriso mentre aveva la morte nel cuore. Ma un giorno mentre attraversava la casa senza far rumore, udì un suono simile al singhiozzo di un bambino: era Kokua che, il volto premuto sull’impiantito della terrazza, piangeva disperatamente. «Hai tutte le ragioni del mondo di piangere in questa casa, Kokua» disse. «Eppure mi farei mozzare il capo perché almeno tu potessi essere felice.» «Felice!» gridò lei. «Quando vivevi da solo nella Casa Lucente eri per gli isolani la felicità in persona; sulla tua bocca albergavano sempre il canto e il sorriso e il tuo volto era radioso come il sorgere del sole. Poi hai preso in moglie la povera Kokua; sa Iddio quale sia la sua colpa, fatto sta che da allora non hai più sorriso. «Oh!» gridò. «Che cosa mi succede? Credevo di essere graziosa e sapevo di amarti. Cosa mi succede allora, che getto questa nube su mio marito?» «Povera Kokua» disse Keawe. S’era seduto accanto a lei e cercava di prenderle la mano, ma lei la ritraeva. «Povera Kokua» ripeté. «Mia povera bambina… mia adorata. M’ero illuso tutto questo tempo di risparmiarti le

6 In questo caso è l’isola di Hawaii. Infatti Honolulu, la capitale, sorge nell’isola di Oahu.

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mie pene! Bene, ti dirò tutto. Almeno potrai avere pietà per il povero Keawe e saprai che ti ho voluto fino al punto di dannarmi all’inferno pur di averti. E saprai quanto ti voglia ancora bene questo condannato che, quando ti vede, riesce ancora a sorridere.» E con ciò le narrò tutta la storia, sin dall’inizio. «Hai fatto tutto questo per amor mio?» gridò lei. «Ma allora di che mi devo angustiare?» e nel dir ciò l’abbracciava piangendo. «Ah! Bambina mia!» disse Keawe. «Eppure ho ben donde preoccuparmi, quando penso alle fiamme dell’inferno!» «Non dirlo più» disse la fanciulla; «nessun uomo può perdersi solo per avere amato Kokua. Abbi fede in me, Keawe, ti salverò con queste mie mani, oppure morirò con te. Come! Mi hai amata al punto di dannarti l’anima e pensi che non sia capace di sacrificarmi per salvarti a mia volta?» «Ah, mia cara! Potresti morire cento volte, ma cosa cambierebbe?» gridò. «Non faresti che lasciarmi solo fino al momento della mia dannazione eterna!» «Tu non sai nulla di me» disse Kokua «non sono come le altre; sono andata ad una buona scuola, a Honolulu. Ti assicuro che salverò il mio amore. Cosa dicevi di un centesimo? Non tutto il mondo si riduce all’America, sai. In Inghilterra hanno una monetina alla quale danno il nome di farthing, che corrisponde pressappoco a metà di un centesimo. Ma, ahimè!» gridò la fanciulla. «Anche questa moneta serve a poco, dal momento che colui che comprasse la bottiglia non potrebbe rivenderla, e uno coraggioso come Keawe non lo troveremo mai! Ma c’è anche la Francia! In quel paese c’è un soldino che chiamano centime e che corrisponde più o meno a un quinto di centesimo di dollaro. Non c’è altro da fare. Vieni, Keawe, facciamo vela per le isole francesi, andiamo a Tahiti prima possibile. Là avremo quattro centime, poi tre, due, uno… il che significa quattro possibilità di vendere la bottiglia; e poi saremo in due a concludere l’affare. Vieni, Keawe, dammi un bacio e non essere triste! Kokua ti salverà.» «Sei il dono del Signore!» gridò Keawe. «Non posso pensare che Iddio voglia punirmi per aver desiderato un simile bene! Sia come tu vuoi, portami dove credi. Rimetto nelle tue mani la mia vita e la mia salvezza.» Il giorno appresso, di buon’ora, Kokua fece i preparativi della partenza. Prese la cassetta che Keawe portava con sé quando faceva il marinaio e per prima cosa vi ripose in un angolo la bottiglia; quindi la riempì degli abiti più lussuosi che avevano e dei ninnoli più preziosi della casa. «Dobbiamo avere l’apparenza di gente ricca, altrimenti chi crederebbe al potere della bottiglia?» Per tutto il tempo che impiegò a fare i bagagli, lei fu allegra come un passerotto; soltanto quando guardava Keawe le salivano le lacrime agli occhi; allora correva ad abbracciarlo e a baciarlo. Quanto a Keawe, si sentiva

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l’animo più leggero. Ora che aveva fatto partecipe la moglie del suo segreto e aveva una qualche speranza dinnanzi a sé, si sentiva un altro, aveva riacquistato il suo passo leggero e il gusto di respirare a pieni polmoni. Ma il terrore gli stava sempre alle costole e di tanto in tanto la speranza svaniva, come fiammella di candela spenta da una raffica, e ricomparivano le fiamme adunche e il barbaglio del fuoco infernale. Fecero sapere in giro che sarebbero andati a fare una gita negli Stati Uniti; cosa che poteva sembrare strana, ma non quanto lo sarebbe stata se la gente avesse intuito la vera ragione. Così presero lo Hall alla volta di Honolulu e di qui salparono sull’Umatilla con una folla di haole diretti a San Francisco, e quando furono a San Francisco trasbordarono sul vapore postale Uccello dei Tropici che andava a Papeete, il capoluogo delle isole francesi del sud. Vi giunsero dopo un piacevole viaggio, in una bella giornata in cui spiravano gli alisei, e videro la scogliera e il frangersi della risacca, e i palmizi di Motuiti, le golette che costeggiavano e le case candide della cittadina che si profilavano lungo la costa, intervallate da piante verdi e, incombenti su di esse, le montagne e le nubi di Tahiti, l’isola saggia. Ritennero opportuno affittare una casa di fronte a quella del console britannico per mettersi in mostra e far sfoggio di denaro, di carrozze e di cavalli. E poiché avevano la bottiglia, non era difficile procurarsi tutta quella roba, tanto più che Kokua era più ardita di Keawe, e ogni volta che le veniva un’idea non si peritava di chiedere al demonio da venti a cento dollari per volta. Di questo passo non tardarono a farsi notare in città come ricchi stranieri delle Hawaii e le loro carrozze, i bei holoku e le trine di Kokua furono sulla bocca di tutti. Ben presto cominciarono ad avere familiarità anche con la lingua di Tahiti che, d’altra parte, salvo poche lettere, è assai affine a quella hawaiana. Furono così in grado di poter conversare correntemente e di offrire la bottiglia. Bisogna pensare che non era facile per nulla intavolare un simile argomento; e ancor di meno persuadere la gente che si trattava di un affare serio, quando si metteva in vendita per quattro centesimi la fonte della salute e la sorgente inesauribile di ogni ricchezza. Allora era inevitabile dover alludere ai pericoli della bottiglia; ma la gente reagiva in vario modo: o non credeva a quella storia e si metteva a ridere, oppure rimaneva impressionata dal maleficio, s’incupiva e sfuggiva Keawe e Kokua come se fossero il demonio in persona. E così, invece di acquistare credito, i due cominciarono ad avvertire il deserto attorno a loro; i bambini li sfuggivano strillando, e questo addolorava Kokua; i cattolici si facevano il segno della croce quando li incontravano; infine tutti, di comune accordo, cominciarono a declinare i loro inviti. Cominciarono ad avvertire un senso di scoramento. Di notte sedevano nella loro nuova casa, dopo una giornata logorante, senza far motto, mentre il

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silenzio veniva interrotto dai singhiozzi improvvisi di Kokua. Talora pregavano insieme, talaltra mettevano la bottiglia per terra e passavano la sera ad osservare lo spirito infernale che vagolava dentro. Allora temevano persino di andare a dormire. Passavano ore e ore prima che fossero vinti dal sonno e, quando uno dei due riusciva ad appisolarsi, si svegliava un attimo dopo e s’accorgeva che l’altro piangeva nel buio, in silenzio, o che era sgusciato via per sfuggire alla vicinanza della bottiglia ed era uscito di casa per andare a passeggiare nel giardino fra i banani, o vagava sulla spiaggia al chiaro di luna. Una notte accadde che quando Kokua si svegliò, Keawe non era più accanto a lei. Allungò la mano dalla sua parte e sentì che il letto era freddo. Allora ebbe paura e s’alzò sul letto. Dalle imposte filtrava un debole chiarore lunare. La stanza ne era illuminata e lei poteva scorgere la bottiglia sul pavimento. Fuori infuriava il vento, gli alberi imponenti dei viali gemevano con voce straziante, le foglie cadute frusciavano sulla veranda. In quel fragore Kokua ebbe la percezione d’un altro suono, il gemito d’un animale forse, o d’un uomo, chissà, un gemito triste come la morte che le trafisse il cuore. S’alzò senza fare rumore, schiuse la porta e guardò nel cortiletto bagnato dalla luce lunare. E là, sotto i banani, giaceva Keawe, il viso sulla polvere e tutto un gemito. Il primo impulso di Kokua fu di correre verso di lui e di consolarlo, ma un attimo di riflessione la trattenne. Keawe s’era comportato con grande ardimento dinnanzi alla consorte; e le sembrò opportuno non sorprenderlo in un momento di debolezza e di umiliazione. Con questo pensiero si ritrasse in casa. “Cielo!” pensò. “Come mi sono dimostrata debole e negligente! È su lui che incombe la dannazione eterna, non su di me; ed è stato lui che ha accolto sulla sua anima la maledizione divina. È per amor mio, per amore d’una creatura di poco conto e di ben poco aiuto, che lui vede tanto prossime le fiamme infernali… sì, e ne sente il fumo mentre giace lì fuori nel vento e al lume di luna. Sono così sciocca che sino ad ora non ho capito quale fosse il mio dovere, o pur avendolo intuito ho evitato di compierlo? Ma ora almeno affido la mia anima alle mani del mio amore; ora dirò addio ai bianchi scalini del cielo e ai volti degli amici che aspettano. Amore per amore e che il mio sia uguale a quello di Keawe. Un’anima per un’anima, e sia la mia a perire!” Era una fanciulla assai svelta e in un batter d’occhio fu pronta. Strinse in pugno le monetine di resto: i preziosi centesimi che tenevano sempre a portata di mano e di cui aveva fatto provvista ad un ufficio statale poiché ce n’erano pochi in circolazione. Mentre si avviava lungo il viale, le nubi trasportate dal vento oscuravano la luna. La città dormiva e lei non sapeva dove rivolgersi, finché non sentì qualcuno tossire nella penombra degli alberi.

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«Vecchio» disse Kokua «cosa fate qui nel freddo della notte?» Il vecchio non riusciva a parlare per quanto tossiva, lei comunque si rese conto che era una persona veramente anziana, povera e straniera nell’isola. «Vorreste farmi un piacere?» disse Kokua. «Come da straniero a straniero, e come un vecchio può esser d’aiuto ad una giovane, volete aiutare una figlia delle Hawaii?» «Ah!» fece il vecchio. «Siete proprio voi la strega delle Otto Isole,7 voi che volete tentare perfino l’anima di un vecchio. Ma ho già sentito parlare di voi e so difendermi dalla vostra malvagità.» «Sedete qui» disse Kokua «lasciate che vi narri una storia.» E così gli raccontò la storia di Keawe, dal principio alla fine. «E ora» disse lei «sono proprio io sua moglie, colei che ha comprato dannandosi l’anima. Cosa devo fare? Se vado da lui e gli chiedo di vendermi la bottiglia, rifiuterà. Ma se ci andate voi, ve la venderà subito. Vi aspetto qui: voi l’acquisterete per quattro centesimi ed io la ricomprerò da voi per tre. E che il Signore assista questa povera fanciulla.» «Se avete intenzione di ingannarmi» disse il vecchio «credo che Dio vi folgorerà.» «Certo che lo farebbe!» gridò Kokua. «Lo farebbe senza meno. Ma non potrei ingannarvi fino a questo punto… Dio non lo permetterebbe.» «Datemi i quattro centesimi e aspettatemi qui» disse il vecchio. Quando Kokua rimase sola nella strada sentì venirle meno il coraggio. Il vento che ruggiva fra gli alberi le sembrava il rombo delle fiamme infernali; la luce dei lampioni agitava ombre forsennate che a lei parevano le mani adunche dei diavoli. Se avesse avuto la forza, sarebbe scappata via di corsa, e se avesse avuto un po‘ di fiato avrebbe urlato come un’ossessa. Ma in verità non poteva fare né l’una né l’altra cosa e restò immobile e tremebonda nel viale, come un bambino impaurito. Poi scorse il vecchio di nuovo; teneva in mano la bottiglia. «Ho fatto come avete chiesto» disse. «Quando l’ho lasciato, vostro marito piangeva come un bambino. Stanotte farà sogni beati.» E così dicendo le porse la bottiglia. «Prima di darmela» disse Kokua presa dall’angoscia «unite il bene al male e chiedete di non tossire più.» «Sono vecchio» replicò l’uomo «e troppo vicino alla fossa per chiedere un favore al diavolo. Ma che cosa c’è? Perché non prendete la bottiglia? Perché indugiate?» «No, non sono io che indugio. Sono esausta, concedetemi solo un istante. Le mie mani si rifiutano, tutta la mia carne rifugge da quell’oggetto maledetto. Solo un istante!» Il vecchio rivolse uno sguardo di compassione a Kokua.

7 Costituiscono appunto le Hawaii.

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«Povera figlia!» disse. «Avete paura, l’anima vi vien meno. Bene, la terrò io. Ormai sono vecchio e non ho più tempo per cercare la felicità a questo mondo; quanto all’altro, poi…» «Datemela!» rantolò Kokua. «Ecco le vostre monete. Mi credete tanto vile? Datemi la bottiglia.» «Che Dio vi benedica, figliola» disse il vecchio. Kokua nascose la bottiglia sotto il suo holoku, disse addio al vecchio e si mise a camminare lungo il viale senza sapere dove andava. Ormai tutte le strade erano uguali per lei, perché portavano all’inferno. Talora camminava, talaltra si metteva a correre. Di tanto in tanto urlava nella notte o si gettava di lato alla carreggiata e piangeva nella polvere. Le tornava in mente tutto quanto aveva sentito dire dell’inferno: scorgeva il bagliore delle fiamme e sentiva l’aria ammorbata del fumo e la sua carne che si raggricciava sui carboni ardenti. Sul far dell’alba tornò in sé e si diresse verso casa. Le parole del vecchio s’erano avverate… Keawe dormiva come un bambino. Kokua restò in piedi a guardarlo. «Marito mio» disse «è venuto il tuo turno di riposo. E quando ti sveglierai, sarà venuto il tuo turno di cantare e di ridere. Ma la povera Kokua, ahimè, che mai fece male a nessuno, non potrà più dormire, né cantare, né divertirsi, sia in terra che in cielo.» Con questi pensieri si distese al suo fianco e la spossatezza era tale che piombò di colpo in un sonno profondo. Era ormai mattina tardi quando il marito la risvegliò per darle la buona novella. Sembrava fuori di sé dalla gioia, tanto che non s’accorse della mestizia che lei celava a stento. Le parole le si incespicavano in bocca, ma non importava: era Keawe che parlava, parlava. Non mandò giù nemmeno un boccone, ma chi se ne accorgeva? Non certo Keawe, che ripulì il piatto. Kokua lo vedeva e lo sentiva come una parvenza estranea, in un sogno. Talvolta le sembrava di dimenticare e di essere nel dubbio; e allora si copriva gli occhi con le mani: le pareva orribile star lì ad ascoltare le ciance del marito sapendo di essere dannata. Nel frattempo Keawe mangiava e parlava e faceva progetti per il ritorno, e la ringraziava per averlo salvato, e la coccolava chiamandola la sua unica autentica salvatrice. E rise del vecchio che s’era dimostrato così matto da comprare la bottiglia. «All’apparenza sembrava un bravo vecchio * disse Keawe. «Ma come si fa a giudicare? Perché mai quel vecchio reprobo ha voluto la bottiglia?» «Marito mio» disse Kokua in tono umile «forse il suo scopo era nobile.» Keawe rise con stizza. «Sciocchezze!» gridò Keawe «era un vecchio farabutto, te lo dico io, ed anche

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uno stupido. Se è stato difficile vendere la bottiglia a quattro centesimi, figurati a tre! Non c’è più possibilità di appiopparla ad altri; la cosa sa di bruciato… brrr!» esclamò rabbrividendo. «Certo, anch’io l’avevo comprata ad un centesimo ignorando che altrove esistessero monete più piccole. Il dolore mi aveva reso matto; ma ora va‘ a trovarne un altro: chi ha in mano la bottiglia se la porterà nella tomba.» «Oh, marito mio» disse Kokua «non è terribile salvare se stessi dannando un altro per l’eternità? Non potrei più ridere, mi sentirei umiliata, in preda della malinconia e pregherei per lo sciagurato che la possiede.» Allora Keawe s’inquietò ancora di più, perché capiva che la moglie aveva ragione. «Quante cerimonie!» gridò. «Se vuoi lasciarti andare alla malinconia, non fare complimenti. Ma una buona moglie non si comporterebbe così. Se pensassi un po‘ a me, ti vergogneresti.» E con queste parole sbatté la porta e Kokua restò sola. Quali probabilità le restavano di vendere la bottiglia a due centesimi? Nessuna, e lo sapeva benissimo. Ed anche a volercisi provare, c’era il marito che aveva furia di tornare in un paese dove non esistevano monete sotto il centesimo di dollaro. Proprio il giorno in cui lei s’era sacrificata, il marito l’abbandonava dopo averla redarguita. Non se la sentiva più di tentare di venderla nel poco tempo che restava; rimase quindi in casa e non fece altro che tirar fuori la bottiglia e guardarla con indicibile terrore, e quindi riporla con un gesto di ripugnanza. Poco dopo fece ritorno Keawe e le propose di uscire in carrozza. «Marito mio, mi sento male» disse «sono sfinita. Scusami ma preferirei di no.» Allora Keawe divenne più furioso di prima. Ce l’aveva con lei perché credeva che stesse rimuginando sul destino del povero vecchio; e con se stesso, perché sapeva che la moglie aveva ragione e in fondo in fondo si vergognava della propria spensieratezza. «È questa la tua sincerità» gridò «questo il tuo amore! Tuo marito è appena scampato alla dannazione eterna incontro alla quale era andato per amor tuo… e tu non riesci a rallegrartene! Kokua, hai la falsità nel cuore.» Uscì di nuovo su tutte le furie e si dette a vagare per la città tutto il giorno. Incontrò degli amici e andò a bere con loro: presero a nolo una carrozza e andarono a gozzovigliare in campagna. Per tutto il tempo Keawe si sentì a disagio poiché si stava divertendo mentre sua moglie era triste, e poiché sapeva in cuor suo che sua moglie aveva più ragione di lui, e questa consapevolezza lo portava a bere maggiormente. Beveva con lui un haole vecchio e brutale, uno che aveva fatto il nostromo in una baleniera, poi era stato disertore, cercatore d’oro, galeotto. Aveva l’anima immonda e la lingua sconcia. Gli piaceva bere e fare ubriacare gli altri e così

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non faceva che riempire il bicchiere di Keawe. Ben presto finirono i soldi che avevano. «Ehi, tu!» disse il nostromo. «Non ci hai sempre detto che sei ricco sfondato, e che possiedi una bottiglia magica o roba del genere?» «È vero» rispose Keawe «sono ricco. Andrò a casa a prendere altro denaro da mia moglie, perché è lei che lo tiene.» «Pessima abitudine, amico» disse il nostromo. «Non confondere mai i soldi con le sottane. Le donne sono false come l’acqua. Tienila d’occhio.» Annebbiato com’era dalle bevute, Keawe rimase doppiamente colpito da queste parole. “Non mi stupirebbe se fosse falsa davvero” pensò. “Perché è così affranta per la mia liberazione? Le farò vedere che non sono uno che si può portare in giro. La coglierò in flagrante.” Quando tornarono di nuovo in città, come avevano deciso, Keawe disse al nostromo di aspettarlo ad un cantone nei pressi della vecchia galera e s’incamminò per il viale da solo, fino alla porta di casa sua. Era scesa di nuovo la notte; filtrava luce da dentro, ma non si avvertiva alcun rumore. Keawe sgusciò oltre l’angolo, dischiuse pian piano la porta di servizio e guardò dentro. Accucciata sul piancito c’era Kokua con la lampada che le ardeva accanto. Dinnanzi aveva una bottiglia di colore lattiginoso, panciuta e dal collo lungo. Mentre la fissava, Kokua si torceva le mani. Keawe rimase impalato a guardarla per lungo tempo. Dapprima rimase come stordito; poi ebbe paura che l’affare non fosse andato in porto e che la bottiglia avesse preso la via del ritorno come era successo a San Francisco. Al che si sentì venir meno le gambe e i fumi del vino gli svanirono dal capo come nebbia del mattino. Poi gli venne un sospetto, uno strano sospetto e le sue guance avvamparono. “Non posso restare con questo dubbio” pensò. Richiuse la porta e tornò indietro oltre l’angolo, pian pianino, poi entrò in casa facendo rumore, come se stesse rientrando proprio allora. Ed ecco! Bastò il tempo di aprire la porta che la bottiglia era scomparsa. Kokua era seduta e sussultò come uno che si sveglia all’improvviso. «Ho bevuto e ho fatto baldoria tutto il giorno» disse Keawe. «Sono stato in buona compagnia e sono tornato solo per prendere un po‘ di denaro. Voglio tornare a bere con gli amici e spassarmela.» Aveva l’espressione del volto e la voce severe come quelle d’un giudice, ma Kokua era troppo turbata per avvedersene. «Fai bene a spendere il tuo denaro, marito mio» disse lei con la voce che tremava. «Se è per questo, faccio bene tutto quello che faccio» disse Keawe, dirigendosi

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verso la cassetta per prendere i soldi. Dette una sbirciata nell’angolo dove tenevano la bottiglia, ma non la vide. Allora gli parve che la cassetta fluttuasse sul pavimento come onda di mare, e che la casa gli girasse attorno come una spirale di fumo poiché sapeva di essere perduto, senza via d’uscita. “È successo quel che temevo” pensò. “È stata lei a ricomprare la bottiglia.” Si riprese un po‘ e cercò di rinfrancarsi, anche se il sudore gli gocciolava sul volto come pioggia ed era gelido come acqua di pozzo. «Kokua» disse «oggi ti ho detto parole cattive. Ora torno a far baldoria con la mia allegra brigata» e così dicendo rise sommesso. «Ma sarei più felice se mi perdonassi.» Lei gli abbracciò le ginocchia e gliele baciò inondandole di lacrime. «Oh! * gridò. «Non chiedo altro che una parola gentile!» «Non dobbiamo mai pensar male l’uno dell’altra» disse Keawe, e con queste parole uscì. C’è da dire che Keawe aveva preso come scorta di denaro soltanto gli spiccioli che avevano messo da parte al loro arrivo. Sapeva benissimo di non aver più voglia di bere. La sua sposa aveva venduto l’anima per lui: ora toccava a lui offrirle la sua e non aveva altro pensiero che questo. All’angolo della vecchia prigione c’era ad aspettarlo il nostromo. «La bottiglia ce l’ha mia moglie» disse Keawe «e se non mi aiuti a riprenderla non avremo né soldi né alcool stanotte.» «Non mi dirai che fai sul serio quando parli di quella bottiglia» si mise a gridare il nostromo. «Mi puoi vedere alla luce della lanterna» disse Keawe «ti sembra che stia scherzando?» «Giusto» disse il nostromo «hai l’aspetto d’un fantasma.» «Allora» riprese Keawe «ecco due centesimi; entra da mia moglie e offriglieli in cambio della bottiglia. A meno che non mi sbagli di grosso, te la darà subito. Portamela qui e te la ricomprerò per uno solo. La legge della bottiglia impone che la si compri ad un prezzo sempre inferiore. Ma qualunque cosa tu faccia, non ti lasciare sfuggire che ti mando io.» «Mi stai prendendo in giro, amico?» chiese il nostromo. «E anche se fosse, non ti farei del male» rispose Keawe. «È vero, amico» disse il nostromo. «Se poi non mi credi» aggiunse Keawe «fai la prova: appena uscito di casa esprimi il desiderio di avere le tasche piene di soldi, o la bottiglia del migliore rum, o qualsiasi cosa ti aggrada e sperimenterai il potere di quell’oggetto.» «Benissimo, kanaka» fa il nostromo «ci provo. Ma se ti prendi gioco di me, poi sarò io a prendermi gioco di te con un randello.» Così il baleniere si allontanò su per il viale e Keawe rimase ad attenderlo. Si

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trovava quasi nello stesso punto in cui Kokua aveva atteso la notte precedente; Keawe tuttavia era più risoluto e non mostrava tentennamenti, anche se era disperato nell’anima. Gli parve di dover attendere un tempo interminabile prima di udire una voce che cantava nelle tenebre del viale. Riconobbe la voce del baleniere; ma era strano che fosse diventato ubriaco fradicio all’improvviso. Poi alla luce del lampione si fece avanti la sua figura barcollante. Aveva infilato la bottiglia del demonio entro la giubba abbottonata; in mano aveva un’altra bottiglia che portava alla bocca pur continuando a camminare. «Vedo che l’hai presa» fece Keawe. «Giù le mani!» si mise a strillare il nostromo balzando all’indietro. «Se fai un passo, ti spacco il muso. Volevi fare di me il tuo zimbello, eh?» «Cosa vuoi dire?» gridò Keawe. «Cosa voglio dire?» replicò il nostromo. «Che è una bottiglia troppo preziosa questa, ecco cosa voglio dire. Non so come ho fatto a procurarmela per due centesimi, ma non te la cedo di sicuro per uno.» «Vuoi dire che non intendi rivenderla?» disse Keawe con la voce strozzata. «Nossignore!» sbottò il nostromo. «Ma se vuoi ti faccio assaggiare una sorsata di rum.» «Bada» disse Keawe «che l’uomo che ha la bottiglia va all’inferno.» «Tanto ci vado lo stesso» replicò il marinaio «e questa bottiglia nella quale mi sono appena imbattuto è la miglior compagnia. Nossignore!» riprese a strillare «questa bottiglia è mia e me la tengo, tu va‘ a cercartene un’altra.» «Ma è possibile?» gridò Keawe. «Per la tua salvezza, ti scongiuro, vendimela!» «Me ne infischio delle tue suppliche» rispose il nostromo. «M’avevi preso per un gonzo, ma ti sbagliavi, ecco tutto. Se non vuoi buttar giù un sorso di rum, lo farò io: alla tua salute, e buona notte.» E così s’allontanò lungo il viale in direzione della città e con lui esce dal racconto anche la bottiglia. Keawe invece corse da Kokua rapido come il vento; e immensa fu la loro felicità quella notte; e immensa, da allora in poi, la pace dei loro giorni nella Casa Lucente.

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Henry James

GLI AMICI DEGLI AMICI (The Friends of the Friends, 1896)

Nelle ghost stories di Henry James (1843-1916) il soprannaturale è invisibile (presenza del male al di là d’ogni immaginazione come nel famoso Giro di vite) o quasi (inafferrabile sdoppiamento di sé nel Jolly Corner). Comunque, non è l’immagine visiva del fantasma che conta, ma il nodo dei rapporti umani da cui il fantasma è evocato o che il fantasma contribuisce ad allacciare. Una storia di relazioni mondane impalpabili come in Gli amici degli amici (o forse meglio Amici di amici) si carica di vibrazioni: ogni vivente proietta fantasmi, il confine tra persone in carne e ossa ed emanazioni psichiche è labile; il punto di partenza “parapsicologico” si duplica e moltiplica. Come spesso in James il personaggio apparentemente neutrale che sta dietro la “voce narrante ” ha un ruolo decisivo proprio in ciò che non dice: qui, come nel Giro di vite, è una voce di donna, che stavolta non nasconde la sua passione dominante, la gelosia, e la sua tendenza all’intrigo. Trovo, come tu prevedevi, che ci siano molte cose interessanti, ma poco che serva a risolvere la questione di fondo, cioè la possibilità di pubblicazione. I suoi diari sono meno sistematici di quanto sperassi; ella aveva semplicemente l’abitudine benedetta di annotare e di raccontare. Riepilogava, metteva da parte, e sembra, in verità, essersi lasciata sfuggire raramente qualche bella storia da raccontare senza acchiapparla al volo. Alludo, naturalmente, non tanto alle cose che veniva a sapere, quanto a quelle che vedeva e sentiva. Scrive talvolta di sé, talvolta di altri, altre ancora di sé e degli altri. Ed è sotto quest’ultimo aspetto che solitamente è più viva. Però non è quando è più viva, lo capisci bene, che le sue cose sono sempre le più pubblicabili. A dire la verità, è spaventosamente indiscreta, o quanto meno ha tutto ciò che è necessario per farmi diventare tale. Prendiamo, per esempio, il breve brano che ti mando dopo averlo diviso per tua utilità in tanti capitoletti. Costituisce un piccolo libro bianco che io ho trascritto, e ha il merito di essere quasi una cosa compiuta, un insieme intelligibile. Sono pagine che evidentemente risalgono a molti anni fa. Ho letto con il più vivo interesse la testimonianza che qui viene fatta in modo così circostanziato, e ho fatto del mio meglio per raccapezzarmi tra le cose prodigiose che esse lasciano intuire. Queste cose sarebbero stupefacenti, non ti pare? per qualsiasi lettore, ma riusciresti a immaginare anche lontanamente che io possa presentare al mondo un documento simile, anche se lei stessa aveva espresso il desiderio che il mondo ne beneficiasse quando non ha dato ai suoi amici né un nome, né le iniziali? Hai qualche idea delle loro identità? Lascio a lei la parola.

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I So benissimo, naturalmente, di essermene assunta le conseguenze, ma questo non serve a migliorare niente. Sono stata io a parlargli di lei per prima, quando lui non l’aveva mai sentita nemmeno nominare. Anche se non mi fosse capitato di parlarne, qualcun altro ci avrebbe pensato; in seguito ho cercato di trovare consolazione in questo pensiero. Ma un pensiero dà magra consolazione: l’unica consolazione che conta davvero nella vita è non essere stati sciocchi. E questo è un piacere che indubbiamente non godrò mai. «Sì, dovresti conoscerla e parlarne con lei»: è questo che gli dissi subito. «Ciascuno ama il proprio simile.» Gli spiegai chi era lei, e gli dissi che erano simili perché, se lui aveva avuto in gioventù una strana esperienza, lei ne aveva avuta una analoga pressappoco nello stesso periodo. Era un episodio, ben noto ai suoi amici, che lei veniva continuamente invitata a raccontare. Era una donna affascinante, intelligente, graziosa, infelice, e nondimeno era questo episodio che all’inizio aveva fatto parlare di lei. All’età di diciott’anni, mentre si trovava all’estero con una zia, aveva avuto la visione di uno dei suoi genitori nel momento della morte. Suo padre si trovava in Inghilterra, a centinaia di chilometri di distanza, e per quanto lei ne sapesse, non era morto né morente. Si trovava, un giorno, nel museo di una grande città straniera. Era entrata da sola, precedendo i suoi compagni, in una saletta che conteneva qualche famoso capolavoro, e l’aveva trovata occupata in quel momento da altre due persone. Una di queste era un vecchio custode; il secondo, prima che lo osservasse bene, lo prese per uno straniero, un turista. Si accorse soltanto che era a capo scoperto ed era seduto su una panca. Nell’attimo in cui i suoi occhi si posarono sull’uomo tuttavia ella riconobbe sbalordita suo padre, il quale, come se da tempo l’aspettasse, la guardava con espressione stranamente turbata, con un’inquietudine che era quasi di rimprovero. Lei gli corse incontro con un grido sgomento: «Papà, che cosa c’è?» ma al grido seguì una sensazione ancora più acuta quando questi, al suo movimento, semplicemente scomparve, lasciandola con il custode e i suoi amici, che nel frattempo l’avevano raggiunta e le stavano preoccupati intorno. Queste persone, la guida, la zia, i cugini, furono quindi in qualche modo testimoni dell’accaduto, o quanto meno dell’emozione suscitata in lei, e a questa testimonianza si aggiunse poi quella di un medico che faceva parte di una delle comitive e che fu immediatamente informato. Questi le prescrisse qualcosa per tranquillizzarla, ma disse anche alla zia, prendendola da parte: «Stia a vedere se non è successo qualcosa a casa sua». E qualcosa era effettivamente successo: il suo povero padre, all’improvviso, era morto quella stessa mattina. La zia, sorella della madre, ricevette prima della fine di quel giorno un telegramma che la informava del triste evento e le chiedeva di preparare la nipote alla notizia. La nipote era già preparata, e il ricordo di

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quella apparizione, naturalmente, rimase indelebile nella ragazza. Tutti noi, come suoi amici, ne fummo messi a conoscenza, e di nascosto ne parlavamo l’un l’altro. Trascorsero dodici anni, e divenuta una donna che dopo un infelice matrimonio viveva separata dal marito, ella ci interessava per altri motivi, ma essendo molto diffuso il nome che ora portava, ed essendo per di più in corso il procedimento di separazione legale, che non era di sicuro un titolo di merito, avevamo generalmente l’abitudine di riferirci a lei chiamandola “sai, quella che ha visto il fantasma di suo padre”. In quanto a lui, povero caro, lui aveva visto il fantasma di sua madre, proprio così! Non avevo mai sentito parlare di questa storia fin quando, consolidata la nostra amicizia, egli fu indotto, approfittando dell’argomento di un nostro discorso, ad accennare alla vicenda, ispirandomi così l’idea di fargli sapere che aveva un rivale in questo campo, una persona con cui poteva confrontare l’esperienza vissuta. In seguito questa vicenda, forse perché continuavo indiscretamente a ripeterla, diventò per lui qualcosa di simile a un’etichetta in società, ma non era stato a questo proposito che, un anno prima, mi era stato presentato. Egli aveva altri meriti, così come li aveva anche lei, poverina. Posso dire onestamente che me ne resi conto perfettamente fin dall’inizio, che li scoprii prima ancora che lui scoprisse i miei. Ricordo come restai colpita anche allora dal fatto che egli li avesse scoperti più prontamente, proprio perché avevo trovato, anche se non per diretta esperienza, un’analogia con la strana vicenda che aveva raccontato. Risaliva, questa vicenda, come quella vissuta da lei, a una dozzina d’anni prima, un anno in cui egli era rimasto, per qualche motivo, a trascorrere le vacanze a Oxford. Aveva trascorso sul fiume quel pomeriggio d’agosto. Ritornato alla sua camera quand’era ancora pieno giorno, trovò sua madre che stava lì davanti, come se i suoi occhi fossero stati sempre fissi sulla porta. Aveva ricevuto una lettera da lei, quel mattino, inviata dal Galles dove ella viveva con il padre. Alla sua vista, la madre aveva sorriso radiosamente tendendogli le braccia, poi, quando lui si era fatto avanti aprendo gioiosamente le sue, ella era scomparsa d’improvviso. Le scrisse quella sera stessa, raccontandole l’accaduto, e questa lettera è stata gelosamente conservata. Il mattino dopo aveva appreso che la madre era morta. A questo punto della nostra conversazione, rimase vivamente colpito dalla coincidenza quasi prodigiosa che fui in grado di raccontargli. Mai gli era capitato di udire di un caso simile al suo. Certo dovevano conoscersi, la mia amica e lui, e altrettanto certamente dovevano avere qualcosa in comune. Avrei pensato io a combinare l’incontro, vero? se a lei non dispiaceva, naturalmente, in quanto a lui non aveva proprio niente in contrario. Promisi di parlarne con lei il più presto possibile, e potei farlo quella settimana stessa. Anche lei non aveva niente in contrario, era dispostissima a conoscerlo. Eppure l’incontro, nel

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senso comune della parola, non sarebbe mai avvenuto.

II Questa è soltanto metà del mio racconto, il modo straordinario in cui l’incontro fu impedito. La causa di ciò fu una serie di incidenti fortuiti, ma questi incidenti, proseguiti nel corso degli anni, diventarono, per me e per gli altri, oggetto di divertiti commenti. All’inizio essi trovarono la cosa piuttosto buffa, poi col tempo ne furono alquanto infastiditi. La cosa strana è che tutti e due erano ben disposti: non che fossero indifferenti alla cosa, e tanto meno contrari. Era, questo, uno dei capricci del caso, favorito anche – immagino – da una divergenza piuttosto netta dei loro interessi, delle loro abitudini. I suoi interessi erano concentrati nell’ufficio, nel suo interminabile lavoro di ispettore che gli lasciava ben poco tempo libero e continuamente lo faceva viaggiare, costringendolo a disdire gli impegni che prendeva. La compagnia gli piaceva, ma ne trovava ovunque e la prendeva come capitava. Non sapevo mai dove si trovasse in un dato momento, e succedeva che non lo vedessi anche per mesi di fila. Lei, dal canto suo, viveva praticamente in periferia, a Richmond, e non andava mai “fuori”. Era una donna distinta, ma non mondana, ed era consapevole, come si dice, della sua condizione. Decisamente orgogliosa e alquanto eccentrica viveva la sua vita così come l’aveva programmata. Parecchie cose si potevano fare con lei, ma non era possibile convincerla a frequentare la società. Questo andava oltre quelli che per lei erano i limiti della convenienza, e questi limiti consistevano nella compagnia di una sua cugina, in una tazza di tè e nel panorama che vedeva. Il tè era buono, ma il panorama era angusto, anche se non in modo così irritante, direi, come la cugina, una vecchia zitella insopportabile che si trovava con lei durante la visita al museo e ora coabitava con lei. Questa sua convivenza con una parente di rango inferiore, rapporto che aveva in parte una motivazione economica (lei proclamava che la sua compagna era un’impareggiabile organizzatrice) era una di quelle innocenti bizzarrie che dovevamo perdonarle. Un’altra di queste era il suo rispetto delle convenienze che comportava la sua separazione dal marito. Un rispetto spinto all’estremo, che molti consideravano perfino morboso. Si guardava dal prendere la minima iniziativa, si creava ogni sorta di scrupoli, sempre pronta a sospettare, e anche a ricordare, dovrei forse dire, una mancanza di riguardo: era una delle poche donne da me conosciute che questa particolare condizione aveva reso riservata anziché disinibita. Povera cara, era di una tale sensibilità! Particolarmente rigidi erano i limiti che aveva posto alle possibili attenzioni da parte degli uomini: era un suo pensiero fisso che il marito attendesse solo l’occasione per rinfacciarle qualcosa. Scoraggiava, quando non impediva, le visite di uomini in età non avanzata, e diceva

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sempre che la prudenza non è mai troppa. Quando le accennai per la prima volta che un mio amico era stato segnato dal destino nel suo stesso modo soprannaturale, la misi nella condizione di poter dire liberamente: «Oh portamelo qui per farmelo conoscere!». Io sarei probabilmente riuscita a portarlo a casa sua e si sarebbe creata così una situazione perfettamente innocente, o quanto meno relativamente semplice. Ma lei non disse nulla del genere, si limitò a rispondere: «Devo proprio conoscerlo, certo; sì, vedrò di incontrarlo». Questa fu la causa del ritardo iniziale, e in questo frattempo accaddero parecchie cose. Una di queste fu che ella, grazie al suo fascino, si fece sempre più amici, col passare del tempo, e capitava regolarmente che questi amici fossero anche amici di lui, quanto bastava per accennarne nel corso della conversazione. Era davvero strano che senza appartenere allo stesso mondo o, come si dice con un’orribile espressione, allo stesso “ambiente”, questa coppia sconcertante si trovasse a imbattersi così spesso nelle stesse persone, facendole partecipare allo stupito coro generale. Lei aveva amiche che non si conoscevano tra loro e che tuttavia puntualmente le parlavano di lui. Aveva anche una sua particolare originalità, quella capacità intrinseca di interessare che la faceva considerare da ciascuno di noi come una sorta di risorsa privata, da coltivare gelosamente, più o meno in segreto, come una persona che non si frequenta in società, che non era da tutti, indiscriminatamente, avvicinare, la cui amicizia era quindi particolarmente difficile e particolarmente preziosa. La frequentavamo ciascuno per proprio conto, con diversi appuntamenti e a diverse condizioni, e ritenevamo opportuno, per la nostra armonia, non parlarne tra noi. C’era sempre qualcuno che aveva sue notizie più recenti di un altro. Ricordo una stupida donna che per molto tempo, grazie a tre semplici visite a Richmond, godette fama tra gli esclusi di essere in rapporti di intimità con “un mucchio di persone eccezionalmente intelligenti”. Ognuno di noi ha avuto amicizie che aspirava a mettere in contatto, e ognuno ricorda che le sue migliori aspirazioni non sempre sono state coronate dal massimo successo, ma non credo che si sia mai verificato un caso in cui il fallimento sia stato così direttamente proporzionale alla quantità delle pressioni esercitate. E in questo caso era forse proprio la quantità delle pressioni la cosa più singolare. La mia amica e il mio amico recitavano ciascuno, per me e per gli altri, l’assurda trama di una farsa irresistibile. Il motivo addotto inizialmente era venuto meno col passar del tempo, e cinquanta altri migliori erano fioriti sopra di questo. Erano tutti e due spaventosamente simili: avevano le stesse idee, gli stessi vezzi e gusti, gli stessi pregiudizi, le stesse superstizioni, le stesse fisime; dicevano le stesse cose e talvolta le facevano anche, avevano simpatia e antipatia per le stesse persone e per gli stessi luoghi, per gli stessi libri, autori e stili letterari;

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avevano punti di rassomiglianza perfino nell’aspetto e nei lineamenti. Costituiva una loro prerogativa che nel parlare comune fossero ugualmente “garbati” e quasi altrettanto piacevoli. Ma la principale affinità, oggetto di stupore e di commenti, era la loro singolare fobia a farsi fotografare. Erano queste le uniche persone di cui fossi a conoscenza che non erano mai state “prese” e che erano irriducibilmente contrarie a permetterlo. Semplicemente non volevano per nessuna cosa al mondo. Io me n’ero lamentata apertamente, soprattutto con lui, che così vanamente desideravo mettere in cornice sulla mensola del caminetto del mio salotto. Era in ogni caso, tra tutti i motivi, il più importante per cui dovevano conoscersi, tutti gli altri motivi essendo ridotti a nulla per via della strana legge che li aveva portati a chiudersi le porte in faccia, a essere come due secchi calati alternativamente nel pozzo, come due capi della sega, due partiti in uno Stato, così che quando uno era su l’altra era giù, quando uno era fuori l’altra era dentro, e per nessun motivo né l’uno né l’altra entravano in una casa fin quando uno dei due non l’aveva lasciata né la lasciavano finché uno dei due non era ancora arrivato. Arrivavano soltanto quando uno dei due aveva ormai desistito, che era anche il momento stesso in cui se ne andavano. Erano, insomma, alternativi e incompatibili, si eludevano con una perseveranza che poteva essere spiegata soltanto se fosse stata concertata. Ed era invece così poco concertata che alla fine, e cioè dopo parecchi anni, la cosa aveva finito col deluderli e infastidirli. Non credo che la loro curiosità fosse particolarmente viva fin quando non si era rivelata assolutamente vana. Molto era stato fatto, naturalmente, per aiutarli, ma tutto questo non si risolveva altro che in ostacoli sui quali inciampavano. Per offrire qualche esempio, avrei dovuto prendere appunti, ma ricordo soltanto che nessuno dei due riuscì mai a essere presente a una cena nell’occasione giusta. L’occasione giusta per l’uno era l’occasione sbagliata per l’altra. Nell’occasione sbagliata erano ambedue puntualissimi, e non c’erano altro che occasioni sbagliate. Erano gli stessi fenomeni fisici che congiuravano, e a essi si aggiungevano le condizioni di salute. Un raffreddore, un’emicrania, un lutto, un temporale, un po‘ di nebbia, un terremoto, un qualche cataclisma inevitabile intervenivano. Tutta la vicenda era qualcosa di più di un semplice scherzo. Eppure doveva essere preso come uno scherzo, anche se non si poteva non pensare che lo scherzo avesse fatto diventare grave la situazione, che avesse provocato in ambedue una consapevolezza, un’inquietudine, una vera e propria paura dell’incidente definitivo, l’unico che sarebbe stato una novità, l’incidente che li avrebbe fatti incontrare. L’effetto ultimo dei casi precedenti era quello di accendere questo sentimento istintivo. Provavano come un senso di colpa, e, forse, anche l’uno per l’altra. Tanti preparativi, e tutti frustrati: che cosa di veramente buono avrebbe potuto giustificarli? Un

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semplice incontro sarebbe stato semplicemente banale. Dopo tanti anni, mi domandavo spesso, potevo immaginare che si trovassero stupidamente uno davanti all’altra? se quello scherzo li aveva annoiati, ancor più annoiati potevano essere da qualcos’altro. Facevano ambedue le stesse identiche riflessioni, e ciascuno, in qualche modo, era sicuro di intuire quelle dell’altro. Penso davvero che fu questa singolare diffidenza, alla fine, che prese il controllo della situazione. Voglio dire che se per i primi anni non riuscirono a incontrarsi per cause di forza maggiore, ne presero in seguito l’abitudine perché, come dire? erano diventati nervosi. Ci voleva davvero una caparbia forza di volontà per sostenere una cosa insieme così regolare e così assurda.

III Quando, per coronare la nostra lunga conoscenza, accettai la sua ennesima proposta di matrimonio, si diceva in giro, lo so, che avevo posto come condizione il dono di una sua fotografia. Questo era tanto vero che avevo rifiutato di donargli la mia senza avere la sua in cambio. In ogni caso, lo ebbi finalmente ritratto, nella sua spiccata distinzione, sulla mensola del camino, e lì, il giorno in cui ella venne a farmi visita per farmi le sue congratulazioni, fu più vicina a vederlo di quanto fosse mai capitato. Lui le aveva dato dunque un esempio che la invitai a seguire: lui aveva sacrificato quella sua fisima, perché lei non faceva altrettanto? Anche lei doveva regalarmi qualcosa per il mio fidanzamento: non voleva darmi il pezzo mancante? Lei rise e scrollò il capo; e quando scrollava il capo il suo impulso sembrava venire da lontano, come la brezza che agita un fiore. Il pezzo mancante del ritratto del mio futuro marito era il ritratto della sua futura sposa. Ma lei aveva preso la sua decisione, e non poteva modificarla più di quanto potesse giustificarla. Era un partito preso, un entètement, un voto: sarebbe vissuta e morta senza essere fotografata. Ora era lei sola che non era mai stata fotografata, e proprio questo le piaceva, la faceva sentire molto più originale. Si rallegrò della resa del suo ex compagno di fede, e restò molto tempo ad osservare la fotografia, a proposito della quale non fece alcuna particolare osservazione, anche se la voltò perfino per vederne il retro. A proposito del nostro fidanzamento si mostrò molto affettuosa, piena di cordialità e di simpatia. «Tu lo conosci da più tempo ancora di quanto io non lo conosca» osservò «e sembra davvero moltissimo tempo.» Si rendeva conto che noi due avevamo fatto tanto cammino insieme, e che era inevitabile adesso che riposassimo insieme. Di tutto ciò sono sicura, perché ciò che seguì è così strano che provo quasi un senso di sollievo nel ricordare il momento fino al quale i nostri rapporti proseguirono naturali come sempre. E fui proprio io che, in un improvviso momento di follia, li modificai e li guastai per sempre. Ora mi rendo conto che ella non mi offrì alcun pretesto, e che io soltanto ne vidi uno nello strano

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modo con cui guardava quel bel volto incorniciato sopra al camino. Come avrei voluto, allora, che lei lo guardasse? Quello che avevo desiderato fin dall’inizio era che lei si interessasse a lui. Ebbene, era questo che desideravo ancora, fino a quando lei non mi promise che questa volta mi avrebbe realmente aiutato a rompere lo stupido incantesimo che non li faceva mai incontrare. Mi ero accordata con lui perché facesse la sua parte se lei avesse fatto con altrettanta convinzione la sua. Mi trovavo in una situazione diversa, adesso, nella situazione di dover rispondere per lui. Potevo garantire senza alcuna esitazione che alle cinque del sabato successivo si sarebbe trovato senz’altro in quel posto. Si trovava in quel momento fuori città per una questione urgente ma, impegnatosi a mantenere alla lettera la sua promessa, sarebbe ritornato appositamente e con il debito anticipo. «Ne sei assolutamente sicura?» ricordo che lei mi domandò, grave in viso e pensierosa; mi parve che fosse lievemente impallidita. Era stanca, era indisposta: un peccato che lui dovesse vederla, dopo tanta attesa, in un momento come quello. Se soltanto fosse riuscito a vederla cinque anni prima! Risposi tuttavia che questa volta ne ero certa e che il successo, quindi, sarebbe dipeso unicamente da lei. Alle cinque in punto di sabato lei l’avrebbe trovato seduto su quella particolare sedia che le indicai, la sedia sulla quale sedeva abitualmente, sulla quale, ma questo non lo dissi, era seduto la settimana prima, quando mi aveva posto quella domanda sul nostro futuro in modo tale da farmi decidere. Lei guardò la sedia in silenzio, così come aveva osservato la fotografia, mentre io le ripetevo per l’ennesima volta che era troppo assurdo che in qualche modo non fosse possibile presentare all’amica più cara la propria metà. «Sono io la tua amica più cara?» domandò con un sorriso che per un attimo ridiede vita alla sua bellezza. Per tutta risposta la strinsi al petto, poi ella disse: «Bene, verrò. Ho una tremenda paura, ma puoi contare su di me». Quando se ne fu andata, cominciai a domandarmi di che cosa avesse paura, perché aveva parlato con tono molto convinto. Il giorno dopo, nel tardo pomeriggio, ricevetti da lei un breve messaggio: al suo ritorno a casa aveva trovato l’annuncio della morte di suo marito. Erano sette anni che non lo vedeva, tuttavia desiderava che apprendessi la notizia in questo modo, prima che ne venissi a conoscenza in un altro. Questo evento faceva però così poca differenza nella sua vita, per quanto fosse strano e triste a dirsi, che avrebbe tenuto fede scrupolosamente all’appuntamento. Mi rallegrai per lei, pensando che quanto meno la differenza sarebbe stata per lei l’avere un po‘ di soldi in più; ma perfino in questo frangente, non dimenticando che ella aveva detto di aver paura, mi sembrò di intuire un motivo di questo suo stato d’animo. La sua paura, col trascorrere della sera, diventò contagiosa e questo contagio prese nel mio cuore la forma d’un panico improvviso.

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Non era gelosia, era soltanto paura della gelosia. Mi diedi della sciocca per non aver atteso il giorno in cui fossimo stati marito e moglie. Dopo di allora, mi sarei sentita in qualche modo più sicura. Si trattava di attendere soltanto un altro mese, una cosa davvero da poco per persone che avevano atteso così a lungo. Era abbastanza evidente che si sentiva nervosa, e ora che era libera il suo nervosismo non sarebbe stato meno. Che cos’era stato allora, se non un improvviso presentimento? Fino ad allora, ella era stata vittima di una serie di interferenze, ma adesso era possibile che ne divenisse lei la causa. E in tal caso la vittima sarei stata proprio io. Che cos’era stata quell’interferenza se non un segno della Provvidenza che indicava un pericolo? Ed ero io, naturalmente, il bersaglio di questo pericolo, povera me. Il pericolo era stato fin allora sventato da una serie di imprevisti senza pari nella loro frequenza, ma il dominio del caso era adesso evidentemente alla fine. Avevo l’intima convinzione che ambedue sarebbero giunti puntuali all’appuntamento. Avevo sempre più l’impressione che stavano avvicinandosi, convergendo. Erano come impegnati nel gioco di chi cerca un oggetto nascosto. L’uno e l’altra erano adesso vicini al “fuoco”. Avevamo parlato di rompere l’incantesimo: ebbene ora sarebbe stato effettivamente rotto, salvo assumere semplicemente un’altra forma, e diventare padrone dei loro incontri, così come li aveva fatti prima eludere. E su un pericolo come questo non potevo restare tranquillamente a riflettere: non riuscivo a prendere sonno, e a mezzanotte mi agitavo ancora inquieta. Alla fine sentii che c’era un modo soltanto per sconfiggere lo spettro. Se il dominio del caso era al termine, dovevo essere io a succedergli. Mi misi al tavolino e scrissi in fretta un messaggio, che egli avrebbe trovato al suo ritorno; poi, essendo ormai a letto i domestici, uscii fuori a capo scoperto nella strada deserta e spazzata dal vento per andare a imbucarlo nella più vicina cassetta delle poste. Il messaggio diceva che non sarei potuta essere in casa quel pomeriggio, come avevo sperato, e che lui doveva quindi rimandare la visita all’ora di cena. Questo voleva dire che mi avrebbe trovata da sola.

IV Quando lei si presentò alle cinque, come d’accordo, naturalmente mi sentii falsa e meschina. La mia azione era stata dettata da una momentanea follia, ma ora dovevo almeno, come si dice, adeguarmi. Si trattenne un’ora; lui non si presentò, naturalmente, e io potei soltanto proseguire la mia perfida messinscena. Avevo pensato infatti che fosse meglio lasciarla venire: per quanto assurdo mi possa ora sembrare, avevo pensato che questo potesse sminuire la mia colpa. Eppure, mentre lei sedeva davanti a me, così visibilmente pallida e stanca, prostrata da tutto ciò che si era aperto in lei con la morte del marito, provai davvero un’acuta trafittura di pena e di rimorso.

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Se non le dissi subito ciò che avevo fatto, è perché provavo troppa vergogna. Simulai stupore, e continuai a simulare fino all’ultimo; protestai che se mai avevo avuto fiducia, l’avevo avuta quel giorno. Arrossisco nel narrare questa storia, e questa la considero la mia punizione. Non parlai di lui che in tono indignato; escogitai supposizioni, attenuanti; ammisi sconcertata, con l’avanzare delle lancette dell’orologio, che la loro sorte non era mutata. Lei sorrise, a questa immagine della loro “sorte”, ma appariva inquieta, diversa dal solito: l’unica cosa che mi sosteneva, strano a dirsi, era il fatto che indossava il lutto, non grande ostentazione di gramaglie, ma un semplice nero uniforme. Sul cappello aveva tre piccole piume nere. Aveva anche un manicotto di astrakan. Questo fatto, dopo averci riflettuto sopra, mi rasserenò un po‘. Mi aveva scritto, infatti, che l’improvviso evento non faceva per lei alcuna differenza, ma evidentemente quel tanto di differenza c’era. Se era disposta a rispettare le solite convenzioni, perché non osservava allora anche quella di non uscire per il tè durante i primi giorni? C’era una persona che desiderava a tal punto conoscere che non poteva aspettare la sepoltura del marito. Questa impazienza così mal dissimulata mi consentiva di essere abbastanza dura e inflessibile per poter proseguire il mio odioso inganno, ma nello stesso tempo, col trascorrere di quell’ora, credetti di ravvisare in lei qualcosa di più profondo ancora della delusione, un qualcosa dissimulato non altrettanto bene. Intendo dire uno strano intimo sollievo, come un lento, sommesso soffio espirato quando un pericolo è passato. Ciò che accadde durante quell’ora vuota che trascorse con me, fu che alla fine ella rinunciò a lui. Rinunciò a lui per sempre. Della cosa scherzò con quanto garbo non ho mai visto, ma nonostante ciò quella fu una data importante nella sua vita. Con la sua mite naturalezza parlò di tutte le altre occasioni mancate, del lungo gioco a mosca cieca, della bizzarria senza pari di quella relazione. Perché una relazione era, o era stata, sì o no? Questa era l’assurdità della cosa. Quando si alzò per andarsene, le dissi che quella era più che mai una relazione, ma che non avevo il coraggio, dopo quanto era avvenuto, di proporle un’altra occasione a breve scadenza. Era evidente che l’unica occasione concreta si sarebbe presentata il giorno del mio matrimonio. Naturalmente lei sarebbe stata presente alle mie nozze, vero? E c’era da sperare, almeno, che anche lui ci fosse. «Se ci sono io, non ci sarà lui!» Ricordo ancora l’acuta vibrazione della sua voce, e la sua risata. Dovetti ammettere che poteva esserci qualcosa di vero. Ciò che contava, quindi, era essere prima tranquillamente sposati. «Questo non ci servirà. Nulla ci servirà!» disse mentre mi baciava. «Mai, non lo incontrerò mai!» Fu con queste parole che mi lasciò. Potevo sopportare la sua delusione, come l’ho chiamata, ma quando, un paio d’ore più tardi, ricevetti lui per cena, mi accorsi che non potevo sopportare la

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delusione di lui. L’impressione che la mia messinscena avrebbe potuto fargli non l’avevo tenuta particolarmente in conto, ma il suo effetto fu la prima parola di rimprovero che mai fosse uscita dalla sua bocca. Dico “rimprovero” perché questa parola è un po‘ esagerata per descrivere i termini con cui egli mi fece comprendere la sua sorpresa per il fatto che, in quella straordinaria circostanza, non avessi trovato un qualche modo per non privarlo di un’occasione come quella. In realtà avrei potuto trovare il modo per non uscire o per consentire comunque che il loro incontro avvenisse ugualmente. Probabilmente si sarebbero trovati bene insieme, nel mio salotto, anche senza di me. A queste parole non resistetti: confessai la mia azione vergognosa e il suo miserabile motivo. Non avevo disdetto l’appuntamento con lei, e nemmeno ero uscita di casa; lei era stata in casa mia, e dopo averlo atteso per un’ora, se n’era andata nella convinzione che egli avesse mancato all’appuntamento per sua colpa. «Deve avermi giudicato un vero e proprio bruto!» esclamò lui. «Ha detto di me…» e ricordo ancora che quasi impercettibilmente trattenne il fiato nella pausa «… ciò che aveva il diritto di dire?» «Ti assicuro che non ha detto nulla che rivelasse il minimo risentimento. Ha guardato la tua fotografia, ne ha perfino voltato il dorso, dove, per caso, è scritto il tuo indirizzo. Eppure questo non ha provocato in lei alcuna reazione apparente. Non le importa molto di tutto ciò.» «E allora perché hai paura di lei?» «Non era di lei che avevo paura. Era di te.» «Pensavi che sarei così sicuro di innamorarmi di lei? Non hai mai alluso prima a questa eventualità» soggiunse, mentre io restavo in silenzio. «Per quanto tu l’abbia descritta come una persona ammirevole, non è stato in questa luce che me l'hai mostrata.» «Vuoi dire che, se così fosse stato, saresti riuscito dopo tanto tempo a trovare il modo di vederla? A quel tempo non avevo questa paura» soggiunsi. «Non ne avevo altrettanti motivi.» Lui mi baciò, a queste parole, e quando ricordai che lei aveva fatto altrettanto un paio d’ore prima, ebbi per un attimo la sensazione che lui mi togliesse dalle labbra l’impronta stessa delle sue. Nonostante questo bacio, l’accaduto aveva lasciato tra noi un certo senso di gelo, e soffrivo terribilmente al pensiero che lui mi avesse visto colpevole d’un simile sotterfugio. Sì, ne era venuto a conoscenza soltanto dopo la mia franca confessione, ma ero ugualmente infelice come se avessi una macchia da cancellare. Né potevo non accorgermi del modo in cui mi guardava mentre parlavo dell’apparente indifferenza da lei mostrata per il suo mancato arrivo. Per la prima volta da quando lo conoscevo, egli sembrava aver manifestato un dubbio su ciò che

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dicevo. Prima che se ne andasse, gli assicurai che le avrei rivelato l’inganno: per prima cosa, la mattina dopo, sarei partita per Richmond e lì le avrei fatto sapere che lui era senza colpa. Lui, a queste parole, mi baciò ancora. Avrei espiato la mia colpa, gli dissi; mi sarei umiliata, e avrei confessato tutto e le avrei chiesto perdono. Lui allora, mi baciò ancora una volta.

V In treno, il giorno dopo, ripensai sconcertata al fatto che lui avesse acconsentito, ma la mia decisione era così ferma che mi lasciai guidare da essa. Salii la lunga collina da dove inizia il panorama, poi bussai alla sua porta. Restai un po‘ perplessa nel vedere le serrande delle finestre ancora chiuse, e pensai che, se anche ero arrivata troppo presto sotto l’impulso del mio rimorso, comunque avevo lasciato alla gente di casa tutto il tempo necessario per alzarsi. «In casa, dice? Ha lasciato la casa per sempre.» Rimasi visibilmente sconcertata a questo annuncio dell’anziana cameriera. «È uscita?» «È morta, signora, mi scusi.» Poi, vedendomi senza fiato a queste terribili parole: «È morta la scorsa notte». Il grido acuto che mi sfuggì suonò anche alle mie orecchie come una nota stonata in quel momento. Ebbi la sensazione, in quell’attimo, che fossi stata io a ucciderla; mi sentii svenire e attraverso una nebbia vidi la donna che tendeva le braccia verso di me. Di ciò che accadde dopo non ho ricordo, né di altro, dopo un intervallo che immagino molto breve, oltre che della povera, stupida cugina della mia amica, in una camera buia, che singhiozzava accanto a me in modo velatamente accusatorio. Non so dire quanto tempo impiegai per capire, per credere e poi per reprimere, con immenso sforzo, quel senso doloroso di colpa superstizioso, irrazionale, che inizialmente era stata l’unica sensazione di cui fossi consapevole. Il medico, dopo l’evento, era stato esemplarmente chiaro e categorico: gli era bastato addurre un’insufficienza cardiaca da tempo latente, determinata probabilmente, anni prima, dalle inquietudini e dalle angosce che il matrimonio le aveva procurato. C’erano state, in quei tempi, scenate furiose con suo marito, e lei aveva perfino temuto della vita. Ogni emozione, tutto ciò che poteva essere ansietà e preoccupazione, dovevano da allora essere attentamente evitate, e lei aveva mostrato d’esserne consapevole nella sua evidente dedizione a una vita tranquilla, ma com’era possibile che chiunque, soprattutto una “vera signora”, riuscisse a stare al riparo da ogni pur lieve turbamento? E uno di questi l’aveva avuto un giorno o due prima, nell’apprendere la notizia della morte di suo marito, poiché questi turbamenti potevano essere d’ogni genere, non soltanto di dolore o di sgomento. In quanto a questo, lei non aveva mai

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pensato a una liberazione così prossima: sembrava, stranamente, che lui dovesse vivere a lungo quanto lei. Poi, quella sera, aveva avuto evidentemente qualche disavventura in città dove doveva esserle capitato qualcosa che era assolutamente necessario chiarire. Era tornata a casa molto tardi, erano le undici passate, e incontrando nell’atrio la cugina, che era estremamente preoccupata, aveva ammesso che si sentiva stanca, che doveva riposarsi un attimo prima di salire le scale. Insieme erano passate in sala da pranzo, la cugina le aveva proposto un bicchiere di vino ed era accanto alla dispensa per versarglielo. Fu un attimo solo, e quando la mia informatrice si era voltata, la nostra povera amica non aveva fatto ancora in tempo a sedersi. D’improvviso, con un lieve gemito appena percettibile, si era accasciata sul divano. Era morta. Quale ignoto “lieve turbamento” le aveva inferto il colpo? Quale emozione, in nome del cielo, l’aveva attesa in città? Accennai subito all’unico motivo immaginabile di turbamento: il mancato incontro in casa mia, dove lei era giunta alle cinque appunto a questo scopo, con l’uomo al quale io dovevo andare sposa, che casualmente aveva avuto un impedimento e che lei non conosceva ancora. Era una spiegazione evidentemente insufficiente; ma qualcos’altro poteva esserle capitato facilmente: niente era più possibile, per le strade di Londra, che un incidente, in particolare un incidente con quelle carrozze scatenate. Che cosa aveva fatto, dove era andata, dopo aver lasciato casa mia? Avevo dato per scontato che fosse tornata a casa direttamente. Ricordammo tutte e due, poco dopo, che talvolta, in queste sue escursioni in città, trascorreva un’ora o due, per suo piacere, per bere qualcosa, in un piccolo circolo femminile chiamato “Gentlewomen”, e promisi che sarebbe stata mia cura rivolgermi subito a quel locale. Poi entrammo nella penombra paurosa della stanza ove lei giaceva racchiusa nella morte, e lì, avendo chiesto dopo un po‘ di essere lasciata sola con lei, rimasi per mezz’ora. La morte l’aveva presa, conservando la sua bellezza, ma sentii, soprattutto mentre ero inginocchiata al capezzale, che l’aveva racchiusa, le aveva imposto il silenzio. Aveva chiuso con la chiave qualcosa che anelavo conoscere. Al mio ritorno da Richmond, e dopo aver sbrigato un altro compito, mi recai nell’appartamento di lui. Era la prima volta che lo visitavo, ma spesso avevo desiderato vederlo. Sulla scala, che in quella casa composta di venti appartamenti era aperta senza esclusione a tutti, incontrai il suo domestico, che tornò indietro con me e mi introdusse in casa. Udito il mio ingresso, egli apparve sulla soglia di un’altra stanza, e nel momento in cui restammo soli gli annunciai la notizia: «È morta!». «Morta?» Rimase terribilmente colpito, e notai che, dopo quel crudele annuncio, non aveva bisogno di domandare a chi alludessi. «È morta ieri sera, poco dopo avermi lasciata.»

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I suoi occhi fissi scrutavano i miei con stranissima espressione, come per scorgervi un trabocchetto. «Ieri sera, dopo averti lasciata?» ripeté stupefatto. E poi disse ciò che udii a mia volta stupefatta: «Impossibile! Io l’ho vista!». «Tu l’hai “vista”?» «Proprio lì, dove sei tu ora.» Questo mi richiamò alla memoria, dopo un attimo, come se mi aiutasse a accettare le sue parole il grande prodigio del presagio che egli aveva avuto in gioventù. “Nell’ora della morte, capisco. Bella, come hai visto tua madre.” «Ah, no, non come ho visto mia madre, non così, non così!» Era molto commosso dalla mia notizia, molto più commosso, evidentemente, di quanto sarebbe stato il giorno prima, e provai l’acuta sensazione che, come mi ero detta allora, ci fosse in effetti un rapporto tra loro e che lui si fosse trovato realmente faccia a faccia con lei. Questa idea, che riconfermava quella sua straordinaria prerogativa, avrebbe dato subito di lui l’immagine di un essere dolorosamente diverso, se egli non avesse sottolineato con tanta enfasi la differenza. «L’ho vista in vita. L’ho vista, le ho parlato. L’ho vista come vedo te ora.» È strano che per un attimo, anche se soltanto per un attimo, trovai sollievo, tra questi due strani fenomeni, in quello che era il più personale, in qualche senso, ma anche il più naturale. Dell’altro aspetto, quando la immaginai che si recava da lui dopo avermi lasciata trovando così una spiegazione a come aveva impiegato il suo tempo, chiesi ragione a lui con una sfumatura di asprezza di cui ero consapevole: «E che cosa mai è venuta qui a fare?». Aveva avuto un minuto di tempo per riflettere, per riprendersi e per valutare l’effetto delle sue parole così che, pur parlando ancora con espressione eccitata nello sguardo, diede mostra d’un consapevole rossore e tentò incongruamente di minimizzare con un sorriso la gravità delle sue parole. «È venuta semplicemente a vedermi. È venuta, dopo ciò che è successo in casa tua, così che potessimo, comunque, finalmente incontrarci. Mi è sembrato un gesto squisito ed è in questo senso che l’ho visto.» Mi guardai intorno per la stanza in cui lei era stata – in cui lei era stata e io non ero mai stata fino a quel momento. «E il modo in cui l’hai visto tu è stato anche il modo in cui te l’ha spiegato lei?» «Lei me l’ha spiegato semplicemente venendo qui e lasciando che la guardassi. Questo era sufficiente!» gridò con una risata insolita. Io ero sempre più meravigliata. «Vuoi dire che non ti ha nemmeno parlato?» «Non ha detto nulla. È rimasta a guardarmi, così come io guardavo lei.» «E nemmeno tu hai parlato?» Mi rivolse ancora il suo doloroso sorriso. «Pensavo a te. La situazione era delicata sotto ogni aspetto. Ho fatto uso del massimo tatto. Ma lei ha visto che mi aveva fatto piacere.» Ripeté ancora la

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sua risata forzata. «È evidente che ti ha fatto “piacere”!» Poi riflettei un attimo. «Quanto tempo è rimasta?» «Come posso dirlo? Mi è sembrato una ventina di minuti, ma probabilmente è stato molto meno.» «Venti minuti di silenzio!» Cominciavo ora ad avere una mia idea precisa e in realtà ad aggrapparmi ad essa. «Ti rendi conto che mi stai raccontando una cosa assolutamente mostruosa?» Era rimasto fino allora con la schiena rivolta al fuoco, e a queste parole, con un’espressione supplice, mi venne vicino. «Ti prego amore mio, prendila con dolcezza.» Potevo prenderla con dolcezza, e glielo feci capire, ma non riuscii, quando lui un po‘ goffamente aprì le sue braccia, a permettergli di stringermi a sé. E così cadde tra noi, per un certo tempo, l’imbarazzo di un profondo silenzio.

VI Fu lui a romperlo, dicendo poco dopo: «Non vi è assolutamente alcun dubbio della sua morte?». «Nessuno, purtroppo. Ero poco fa inginocchiata al letto sul quale l’hanno messa a giacere.» Lui teneva gli occhi fissi a terra, poi li sollevò per volgerli verso i miei. «Che aspetto ha?» «Sembra… in pace.» Lui si allontanò di nuovo mentre lo guardavo, ma dopo un attimo soggiunse: «A quale ora, dunque…». «Dev’essere stato vicino a mezzanotte. Si è accasciata quando è arrivata a casa sua… per un mal di cuore che lei sapeva di avere, del quale era a conoscenza anche il suo medico, ma del quale, serenamente, coraggiosamente, non ha mai parlato con me.» Rimase ad ascoltare attentamente e per qualche minuto non fu capace di parlare. Alla fine esclamò, con un tono del quale ho ancora nelle orecchie, mentre scrivo, la sicurezza quasi fanciullesca, la semplicità veramente sublime. «Era una donna meravigliosa!» Anche in quel momento riuscii a darmene ragione abbastanza per rispondergli che gliel’avevo sempre detto, ma dopo un attimo, come se quelle parole gli avessero fatto intuire il sentimento che poteva avermi fatto provare, si affrettò a soggiungere: «Capirai senz’altro che se non è tornata a casa fino a mezzanotte…» Lo ripresi immediatamente. «Hai avuto tutto il tempo possibile per vederla? Com’è possibile» domandai «se non sei uscito da casa mia fino a tardi? Non ricordo precisamente l’ora, ero molto preoccupata. Ma sai bene che, pur avendo detto di avere molto da fare, sei rimasto per un certo tempo dopo

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cena. Lei, dal canto suo, è rimasta tutta la sera al “Gentlewomen”. È proprio da lì che vengo, e mi sono accertata. Ha preso lì il tè, ed è rimasta molto, molto tempo.» «E che cosa ha fatto in tutto questo tempo?» Lo vedevo ansioso di contestare ogni punto della mia versione, e più lui lo manifestava più io ero indotta a insistere in questa versione, a preferire, con apparente perversità, una spiegazione che accresceva soltanto lo stupore e il mistero, ma che, tra i due prodigi da scegliere, la mia riaccesa gelosia trovava più facile da accettare. Lui continuò a perorare, con un candore che ora mi pare bellissimo, per affermare il suo privilegio di aver conosciuto in vita la donna; mentre io, con una passione di cui mi meraviglio tuttora anche se è ancora bruciante sotto le ceneri, potevo replicare soltanto che per uno strano dono che ella aveva in comune con la madre di lui e per parte sua aveva ugualmente ereditato, il prodigio della sua giovinezza si era ripetuto per lui, così come il prodigio vissuto da lei si era ripetuto per lei. Era stata da lui, certo, e con un gesto squisito, come lui diceva, ma non era stata certo in carne e ossa! Stavano semplicemente a dimostrarlo i fatti. Avevo avuto, ripetei, una sicura testimonianza di ciò che ella aveva fatto, per quasi tutto il tempo, nel suo piccolo circolo. Il locale era quasi deserto, ma gli inservienti avevano notato la sua presenza. Era rimasta immobile in una grande poltrona accanto al camino del soggiorno; poi aveva ripiegato la testa, aveva chiuso gli occhi, era sembrata dolcemente addormentarsi. «Capisco. Ma fino a che ora?» «Su questo punto» fui costretta a rispondere «gli inservienti non sono stati molto precisi. La custode, in particolare, è purtroppo una sciocca, anche se, a quanto pare, dovrebbe far parte pure lei del circolo. Evidentemente, in quel periodo della serata, si è assentata per un certo tempo, senza farsi sostituire, contro i regolamenti, dalla guardiola in cui ha il compito di controllare chi entra e chi esce. Faceva confusione, mentiva manifestamente e così, in base alle sue risposte, non posso indicare un’ora con sicurezza. Ma verso le dieci e mezzo è stato notato che la nostra povera amica non era più nel circolo.» L’orario coincideva perfettamente. «È venuta qui direttamente, e da qui è andata direttamente al treno.» «Non potrebbe aver fatto così in fretta» ribattei. «È una cosa che lei in particolare non ha mai fatto.» «Non aveva alcun bisogno di fare in fretta, mia cara: aveva tutto il tempo a disposizione. La memoria ti fa difetto quando dici che ti ho lasciata piuttosto tardi: in realtà, ti ho lasciata insolitamente presto. Se il tempo che ho trascorso con te ti è sembrato lungo mi dispiace, perché sono ritornato qui alle dieci.» «Per infilarti le pantofole» obiettai «e addormentarti nella tua poltrona. Hai dormito fino al mattino… l’hai vista in sogno!» Lui mi guardò in silenzio, con sguardo cupo, uno sguardo che mi rivelava l’irritazione che doveva

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reprimere. Poco dopo soggiunsi: «Hai ricevuto una visita, in un’ora inconsueta, da parte d’una signora, e sia: niente al mondo è più probabile. Ma ci sono signore e signore. Com’è possibile, in nome del cielo, se ella è giunta senza farsi annunciare ed è rimasta in silenzio, e per di più se tu non hai mai visto alcun suo ritratto, com’è possibile che tu abbia riconosciuto la persona di cui stiamo parlando?». «Non ho forse udito a sazietà le sue descrizioni? Posso descrivertela in ogni particolare.» «Non farlo!» esclamai, con tanta immediatezza che lo feci ridere di nuovo. Mi imporporai a questa reazione, ma soggiunsi: «È stato il tuo domestico a introdurla?». «No, non era qui: è sempre fuori quando c’è bisogno di lui. Una delle peculiarità di questa grande casa è che i diversi piani sono accessibili dalla porta della strada senza alcun controllo. Il mio domestico ha una relazione con una giovane che lavora nell’appartamento sopra a questo, e la scorsa sera ha avuto un convegno particolarmente lungo. Quando è fuori casa per questa faccenda, lascia dischiusa la porta esterna, sulle scale, in modo da poter sgattaiolare dentro senza far rumore. E così basta semplicemente spingere la porta. E lei l’ha spinta: ci voleva soltanto un po‘ di coraggio.» «Un po‘? Una tonnellata ce ne voleva! E ci voleva ogni sorta di impossibili calcoli!» «Bene, il coraggio l’aveva, i calcoli li ha fatti. Bada bene, non penserei mai di negare» soggiunse «che è stata una cosa davvero meravigliosa!» Qualcosa del suo tono mi impedì di replicargli avventatamente. Alla fine domandai: «Come ha fatto a sapere dove abiti?». «Deve aver ricordato l’indirizzo sull’etichetta che hanno fortunatamente lasciata appiccicata alla cornice che ho fatto fare per la mia fotografia.» «E com’era vestita?» «A lutto, mia cara. Non una grande ostentazione di gramaglie, ma un nero semplice e uniforme. Sul cappello aveva tre piccole piume nere. Aveva un manicotto di astrakan. E vicino all’occhio sinistro» soggiunse «aveva una piccola cicatrice verticale.» Lo interruppi: «Il ricordo di una carezza di suo marito». Poi aggiunsi: «Come le sei stato vicino!». Lui non rispose nulla e mi parve arrossire, al che feci bruscamente per andarmene. «Bene, arrivederci.» «Non vuoi trattenerti ancora un po‘?» Mi si avvicinò di nuovo con tenerezza, e questa volta glielo permisi. «La sua visita aveva una sua bellezza» mormorò tenendomi tra le braccia «ma la tua ne ha una maggiore.» Lasciai che mi baciasse, ma ricordai, come avevo ricordato il giorno precedente, che l’ultimo bacio da lei dato in questo mondo, come immaginavo, l’aveva posato sulle labbra che egli ora toccava. «Io sono viva,

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lo vedi» risposi «Quella che hai visto ieri sera era la morte!» «Era viva! Era viva!» Parlava con sommessa ostinazione, io mi scostai da lui. Rimanemmo a guardarci fissamente l’un l’altra. «Tu descrivi questa scena, per quanto la descrivi, in termini che non sono comprensibili. Lei è entrata nella stanza senza che tu te ne accorgessi?» «Ho alzato gli occhi dalla lettera che scrivevo, là a quel tavolo sotto la lampada, sulla quale ero interamente concentrato, e lei era lì, davanti a me.» «E allora che cosa hai fatto?» «Sono saltato in piedi con un’esclamazione e lei, con un sorriso, ha portato un dito alle labbra, come per ammonirmi, ma con una sorta di delicata dignità. Capii che ciò voleva significare silenzio, ma la cosa strana era che il gesto sembrò immediatamente spiegare e giustificare la sua presenza. In ogni caso, rimanemmo lì per un certo tempo, come ti ho detto, non saprei dire quanto, faccia a faccia. Proprio come siamo qui ora noi due.» «A fissarvi semplicemente negli occhi?» Lui scosse con impazienza il capo. «No! noi non ci fissiamo negli occhi!» «Sì, però stiamo parlando.» «Bene, anche noi stavamo… in un certo senso.» Si smarrì allora nel ricordo. «È stata una cosa amichevole, come ora.» Sulla punta della lingua avevo una domanda, se questa era una spiegazione sufficiente, ma mi limitai invece a constatare che evidentemente non avevano fatto altro che guardarsi con reciproca ammirazione. Poi gli domandai se l’aveva riconosciuta immediatamente. «No» rispose «perché, naturalmente, non l’aspettavo, ma mi è venuto in mente, molto prima che se ne andasse, chi era… l’unica persona che ella poteva essere.» Riflettei un attimo. «E come se n’è andata, alla fine?» «Così, come è arrivata. La porta era aperta alle sue spalle e lei se n’è uscita.» «In fretta o lentamente?» «Piuttosto in fretta. Ma guardando dietro di sé» aggiunse con un sorriso. «L’ho lasciata andare, perché sapevo perfettamente che dovevo lasciarle fare ciò che desiderava.» Detto ciò, si avvicinò di nuovo a me, tenendomi tra le braccia e cercando di convincermi, con tutta la galanteria del caso, che io ero una cosa ben diversa. Avrei dato qualsiasi cosa per domandargli se l’aveva toccata, ma le parole rifiutavano di esprimersi: presentivo, fino alla minima inflessione del tono, come sarebbero suonate orribili e volgari. Dissi invece qualcos’altro, non ricordo esattamente che cosa, qualcosa di incerto e contorto che aveva lo scopo, abbastanza scoperto, di indurlo a dirmelo senza dover fare io la domanda. Ma lui non me lo disse; ripeté soltanto, come per lusingarmi e consolarmi, il senso della sua dichiarazione di qualche minuto prima,

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l’assicurazione che ella era stata davvero squisita, come del resto io avevo sempre ripetuto, ma che ero io la sua “vera” amica, e sua per sempre. Queste parole mi diedero lo spunto per ribadire, nello spirito della mia precedente replica, che io avevo quanto meno il merito di essere viva; e ciò provocò a sua volta in lui il guizzo di contraddizione che temevo. «Oh, se era viva! Lo era, lo era!» «Era morta, era morta!» affermai con vigore, con la determinazione che così doveva essere, tale da apparirmi ora quasi come grottesca. Ma il suono delle mie parole si era appena spento quando mi riempì improvvisamente d’orrore, e tutta la naturale emozione che il loro significato avrebbe suscitato in altre condizioni allora straripò. Fui sommersa dal ricordo del grande affetto che c’era stato ed era spento per sempre, del bene che le avevo voluto e della fiducia che avevo in lei. E nello stesso tempo ebbi la visione della solitaria bellezza della sua fine. «Se n’è andata, l’abbiamo perduta per sempre!» esclamai tra i singhiozzi. «È esattamente ciò che provo io» esclamò lui, parlandomi con estrema dolcezza e stringendomi a sé per confortarmi. «Se n’è andata, l’abbiamo perduta per sempre: che cosa importa adesso?» Si chinò sopra di me e quando il suo viso sfiorò il mio non avrei saputo se era bagnato delle mie lacrime o delle sue.

VII Era mia teoria, e divenne mia convinzione, posso dire mio atteggiamento, che essi non si fossero mai “ incontrati ”, e per questo motivo ritenni giusto chiedergli di accompagnarmi ai suoi funerali. Lui acconsentì e mi fu vicino con modestia e tenerezza, e presupposi, anche se lui chiaramente non badava affatto a questo rischio, che la solennità dell’occasione, a cui erano presenti in gran parte le persone che li avevano conosciuti entrambi ed erano a conoscenza del lungo gioco avvenuto tra loro, sarebbe bastata a spogliare la sua presenza di ogni facile associazione. In quanto a ciò che era accaduto tra loro la sera della sua morte, ben poco ci dicemmo ancora; io inorridivo davanti a ogni prova concreta. In un caso o nell’altro, sarebbe stata una sfacciata intromissione. Lui, dal canto suo, non presentò nessuna prova a sostegno, nessuna, cioè, tranne una dichiarazione del custode della casa, una persona per sua stessa ammissione estremamente inattendibile e distratta, secondo la quale tra le dieci e mezzanotte addirittura tre signore vestite in nero erano entrate e uscite dalla casa. E questo non dimostrava ancora niente; né l’uno né l’altra sapeva che cosa dire di tre donne. Lui sapeva che io pensavo di aver tenuto conto di ogni minuto del tempo trascorso da lei, e lasciammo cadere la questione come se fosse risolta, evitando ulteriori discussioni. Una cosa io sapevo, però, che lui se ne asteneva per compiacermi,

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non perché si fosse arreso alle mie ragioni. Non si era arreso: era soltanto compiacente, e si aggrappava alla sua versione perché era questa che preferiva. E la preferiva, pensavo, perché faceva maggiormente appello alla sua vanità. Questo, se fossi stata al posto suo, non avrebbe avuto tale effetto su me, anche se io ne avevo indubbiamente altrettanta, ma queste sono cose individuali, sulle quali nessuno può giudicare in vece di un altro. Avrei pensato che fosse più gratificante essere protagonista di uno di quegli inesplicabili avvenimenti che sono raccontati nei libri del mistero o sono dibattuti in qualche dotto consesso; immaginavo da parte di una persona appena inghiottita nell’infinito eppure ancora vibrante di umani sentimenti, che niente avrebbe potuto trovare di più bello e puro, di più alto e sublime che un simile impulso di riparazione, di premonizione o perfino di curiosità. Questo era bello, se si voleva, e al suo posto mi sarei sentita lusingata per esser così desiderata e prescelta. Era risaputo che già aveva avuto un’esperienza come quella, che da tempo egli era comparso in quella luce, e quel fatto che cos’era, in sé, se non qua si una prova? Ciascuna di quelle strane apparizioni contribuiva a avallare l’altra. Lui la vedeva in un modo diverso, ma aveva anche, mi affretto ad aggiungere, un manifesto desiderio di non farne un vanto o, come dicono, un “caso” Io potevo credere ciò che preferivo, tanto più che tutta la faccenda era, in un certo senso, opera mia. Era un episodio della mia vita, un dubbio della mia coscienza, non della sua e pertanto lui avrebbe assunto a quel proposito qualsiasi atteggiamento che a me fosse apparso conveniente. Avevamo tutti e due, in ogni caso, altri problemi davanti a noi: eravamo alle prese con i preparativi del nostro matrimonio. Per quanto mi riguardava, erano problemi sicuramente urgenti, ma scoprii, col trascorrere dei giorni, che credere a ciò che “preferivo” significava credere a ciò di cui ero sempre più intimamente convinta. Mi accorsi anche che questo non mi piaceva poi tanto o che in ogni caso il “piacere” non era affatto la causa della mia convinzione. La mia ossessione, come in realtà posso chiamarla e quale cominciai a percepirla, non accettava di farsi accantonare, come io speravo, dalla coscienza delle mie incombenze più generali. Se molte cose avevo da fare, ancor più ne avevo da pensare, e venne il momento in cui le mie incombenze furono gravemente compromesse dai pensieri che avevo per la mente. Ora rivedo tutto, ho la sensazione di vivere tutto daccapo. È un momento terribilmente privo di gioia, pieno anzi di straripante amarezza, eppure devo rendere a me stessa giustizia: non sarei potuta essere diversa da quella che ero. Quelle stesse strane sensazioni, dovessi conoscerle di nuovo, produrrebbero la stessa angoscia profonda, gli stessi acuti dubbi, le stesse certezze ancora più acute. Sì, è sempre più facile ricordare che scrivere, ma anche se riuscissi a rievocare

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quell’esperienza ora per ora, se riuscissi a trovare termini capaci di esprimere l’inesprimibile, sempre la sofferenza fermerebbe subito la mia mano. Lasciatemi dunque ricordare, molto semplicemente e succintamente, che una settimana prima delle nostre nozze, tre settimane dopo la sua morte, capii fin nel mio intimo che avevo qualcosa di molto serio da affrontare e che, se dovevo fare questo sforzo, dovevo farlo subito, prima che trascorresse un’altra ora. La mia inestinguibile gelosia, questa era la maschera della Medusa. Non era morta con la morte di lei, le era lividamente sopravvissuta, ed era alimentata da sospetti inesprimibili. Sarebbero inesprimibili oggi, voglio dire, se non avessi sentito allora l’acuta necessità di esprimerli. Una necessità che si impossessò di me, per salvarmi, sembrava, dal mio destino. E quando ciò accadde, vidi, nell’incalzare del tempo, nelle ore che mancavano alla scadenza, nell’attesa sempre più breve, che l’esito era uno solo, quello della più assoluta e pronta franchezza. Potevo almeno non fargli il torto di ritardare un altro giorno; potevo almeno aver sufficiente rispetto per la mia sofferenza da non ricorrere a sotterfugi. E così, molto pacatamente, ma nondimeno brutalmente e crudelmente, lo misi di fronte al fatto, una certa sera, che dovevamo riconsiderare la nostra situazione e riconoscere che era completamente modificata. Lui mi guardò coraggiosamente negli occhi. «Come sarebbe a dire modificata?» «Un’altra persona si è posta tra noi.» Impiegò non più di un minuto a riflettere. «Non fingerò di non sapere a chi alludi.» Sorrise, compassionevole della mia aberrazione, ma con l’intenzione di essere gentile. «Una donna morta e sepolta!» «È sepolta, ma non morta. È morta per il mondo, è morta per me. Ma non è morta per te.» «Ti riferisci di nuovo alle diverse ipotesi che abbiamo fatto a proposito della sua apparizione di quella sera?» «No» risposi. «Non voglio riesumare niente. Non ne ho bisogno. Mi è più che sufficiente ciò che ho davanti agli occhi.» «E dimmi, tesoro, di che cosa si tratta?» «Sei cambiato completamente.» «Per quella cosa assurda?» replicò lui con una risata. «Non tanto per quella, quanto per le cose assurde che sono seguite.» «E quali sarebbero?» Eravamo uno davanti all’altra, lealmente, senza abbassare gli occhi, ma i suoi avevano una strana luce fioca, e la mia certezza si esaltò davanti al suo percettibile pallore. «Vuoi dare davvero a credere» domandai «di non sapere quali siano?»

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«Mia cara bambina» replicò lui «tu le descrivi in modo un po‘ troppo approssimativo!» Riflettei un attimo. «Può essere imbarazzante mettere a fuoco il quadro. Ma sotto questo punto di vista e, fin dall’inizio, che cos’è mai stato più imbarazzante della tua peculiarità?» Lui fece finta di non capire, una cosa che gli riusciva sempre magnificamente. «La mia peculiarità?» «Quel tuo ben noto, particolare potere.» Scrollò le spalle con visibile insofferenza e gemette sprezzantemente. «Ah, quel mio particolare potere!» «Il tuo potere di accedere a forme di vita» proseguii con freddezza «il tuo accesso a impressioni, a apparizioni, a contatti che, nel bene o nel male, sono preclusi al resto di noi. Questo era in parte il motivo, agli inizi, del profondo interesse che destavi in me, uno dei motivi per cui ero incuriosita, per cui ero addirittura orgogliosa di conoscerti. Era un meraviglioso privilegio, ed è ancora un meraviglioso privilegio. Ma non potevo, naturalmente, prevedere allora come si sarebbe esercitato adesso, e anche se ne fossi stata in grado, non avrei potuto prevedere il modo straordinario in cui il suo effetto mi avrebbe interessata.» «Ma in nome di Dio» domandò lui in tono quasi supplichevole «a che cosa stai mai alludendo in modo così fantasioso?» Poi mentre io restavo in silenzio, cercando di trovare il tono adatto per replicare, «E come è che si esercita?» soggiunse «e in quale modo sei stata interessata dai suoi effetti?». «Ti è mancata per cinque anni» risposi «ma adesso non ti manca mai. Stai recuperando il tempo perduto!» «Recuperando il tempo perduto?» Ora il suo volto pallido cominciava a imporporarsi. «Tu la vedi… la vedi. La vedi ogni notte!» Lui rispose con una forte risata di scherno, ma io la sentii suonare falsa. «Viene a trovarti, come è venuta quella sera» ripetei «dopo averci provato, si è accorta che le piaceva!» Riuscii a parlare, con l’aiuto di Dio, senza cieca passione o enfasi volgare, ma furono esattamente queste le parole che pronunciai, e a me apparvero allora tutt’altro che “approssimative”. Ridendo, lui si era voltato, battendo le mani nell’udire quella mia sortita, ma un attimo dopo era di nuovo di fronte a me, con una mutata espressione che mi impressionò. «Osi negare» domandai allora «che la vedi abitualmente?» Aveva assunto un atteggiamento indulgente, come per venirmi incontro e rabbonirmi dolcemente. Con mio sbalordimento, improvvisamente disse: «Bene, cara, e se così fosse?». «È un tuo diritto naturale; è diritto della tua conformazione e della tua dote meravigliosa, anche se, forse, non molto invidiabile. Ma puoi facilmente

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capire che questo ci divide. Ti lascio incondizionatamente libero.» «Mi lasci libero?» «Devi scegliere tra me e lei.» Lui mi fissò intensamente. «Capisco.» Poi si allontanò di qualche passo, come cercando di afferrare ciò che avevo detto e pensando al modo migliore per rispondere. Alla fine si voltò di nuovo verso di me. «Come fai a sapere una cosa così spaventosamente personale?» «Anche se ti sei tanto sforzato di nasconderla, vuoi dire? È vero, è una cosa spaventosamente personale, e puoi star certo che non ti tradirò mai. Hai fatto del tuo meglio, hai recitato la tua parte, ti sei comportato, povero caro, in modo leale e degno d’ammirazione. Di conseguenza, ti ho osservato in silenzio, recitando anch’io la mia parte; ho notato ogni inflessione della tua voce, ogni vuoto nel tuo sguardo, ogni sforzo compiuto senza darlo a vedere; ho atteso finché non sono stata assolutamente certa e desolatamente infelice. Ma come potresti nasconderlo, se sei pazzamente innamorato di lei, se sei contagiato, quasi mortalmente direi, dalla gioia di ciò che ella ti dà?» Anticipai il suo gesto di protesta con un gesto ancora più immediato. «Tu la ami come non hai mai amato, e passione per passione, lei ti contraccambia completamente! Una donna in un caso come il mio, intuisce, sente, vede: non è una stupida ottusa a cui raccontare favole credibili. Sei venuto a me meccanicamente, compuntamente, con ciò che resta della tua tenerezza e della tua stessa vita. Io posso rinunciare a te, ma non posso dividerti con nessuno: il meglio di te è suo, io lo so, e liberamente ti lascio a lei per sempre!» Tentò allora l’arma della galanteria, ma la situazione non poteva essere rappezzata: lui rinnovò i suoi dinieghi, ritrattò la sua ammissione, mise in ridicolo la mia accusa, della quale riconobbi io stessa l’assurdità indifendibile. Non finsi, nemmeno per un attimo, che stessimo parlando di cose normali; non finsi, nemmeno per un attimo, che lui e lei fossero persone normali. Sì, se lo fossero state, come avrei mai potuto curarmi di loro? Avevano goduto di una rara estensione del loro essere, e in questo loro volo avevano trascinato anche me, ma io non potevo respirare in quell’atmosfera e chiedevo di essere riportata a terra. Tutto, in ciò che era avvenuto, era mostruoso, e più di tutto la mia lucida percezione di tutto quanto; l’unica cosa rimasta fedele alla natura e alla verità era la mia necessità di agire in base a tale percezione. Dopo aver parlato in questo modo, sentii che la mia sicurezza era ora completa, e niente a essa mancava tranne l’impressione che aveva prodotto su lui. E questa impressione lui la celò dietro una cortina di sarcasmo, un espediente che serviva a fargli guadagnare tempo e a coprire la sua ritirata. Mise in dubbio la mia sincerità, la mia integrità mentale, quasi la mia umanità, e questo naturalmente acuì la nostra frattura e confermò la nostra

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divisione. Fece di tutto, insomma, tranne che convincermi d’essermi sbagliata o di essere lui infelice: ci separammo e lo lasciai alla sua inconcepibile comunione. Non si sposò mai, e nemmeno io. Sei anni dopo, quando nella solitudine e nel silenzio venni a sapere della sua morte, accolsi la notizia come una diretta conferma della mia teoria. Fu un evento improvviso, mai adeguatamente spiegato, circondato da circostanze, sì le ricostruii a una a una, in cui lessi chiaramente una deliberata intenzione, il segno della sua volontà segreta. Fu la conseguenza di una prolungata necessità, di un inestinguibile desiderio. Per spiegare esattamente ciò che intendo dire, fu la risposta a una voce irresistibile che lo chiamava.

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Rudyard Kipling

I COSTRUTTORI DI PONTI (The Bridge Builders, 1898)

Il fantastico, nei racconti indiani di Rudyard Kipling (1865-1936), nasce dal contrasto tra due mondi: le culture dell’india in tutta la ricchezza delle loro tradizioni religiose, filosofiche, di modo di vivere, e la morale dell’inglese convinto di costruire in India una civiltà nuova, che sente la responsabilità d’un tale compito e l’angoscia dell’incomprensione sia da parte degli indiani che di tanti suoi compatrioti. Entrambi questi mondi sono oggetto, per l’angloindiano Kipling, d’una profonda conoscenza e d’una profonda passione. Emblematico tra tutti è questo racconto che parte dalla cronaca d’un’impresa tecnologica, la costruzione d’un ponte sul Gange (il volume in cui è compreso s’intitola The Day’s Work, Il lavoro quotidiano), che si scontra con le forze della natura e con la religione che a quelle forze s’ispira – e approda a un’evocazione visionaria degli dèi dell’induismo. Il dialogo tra gli dèi a cui assistiamo è un dibattito ideologico su una possibile integrazione delle due civiltà, nel senso che quella indiana, tanto più antica, potrebbe ben inglobare quella inglese. L’ingegnere Findlayson, dei Lavori Pubblici, contava di ricevere, al minimo, una C.I.E.;8 sperava una C.S.I.: anche gli amici gli dicevano che meritava di più. Aveva sopportato per tre anni caldo e freddo, contrattempi, disagio, pericolo, malattia, con un carico di responsabilità fin troppo pesante per un solo paio di spalle; e giorno per giorno, in quel giro di tempo, sotto la sua direzione era andato sorgendo sul Gange il grande ponte di Kashi. Prima di tre mesi, adesso, se tutto procedeva bene, Sua Eccellenza il Viceré avrebbe inaugurato il ponte in gran pompa, un arcivescovo lo avrebbe benedetto, il primo convoglio di soldati lo avrebbe attraversato, e ci sarebbero stati discorsi. Seduto nel suo trolley9 su un binario volante steso lungo una delle scarpate principali – enormi argini con rivestimento in pietra che si spiegavano a nord e a sud per cinque chilometri su entrambi i lati del fiume – Findlayson, C.E., si permise di pensare a quando tutto sarebbe stato finito. Vie d’accesso comprese, la sua opera era lunga circa tre chilometri: un ponte con travate a traliccio, armato con armatura Findlayson, posato su ventisette piloni di mattoni. Ognuno dei piloni era d’un diametro di sette metri e venti,

8 Decorazioni, titoli, qualifiche sono correntemente indicati con le rispettive sigle che, secondo l’uso inglese, seguono il nome proprio. Qui: C.I.E., Croce dell’impero Indiano; C.S.I., Stella Coloniale Indiana. Più sotto: C.E., Ingegnere civile (N.d.T.).

9 Carrello ferroviario di servizio, azionato a mano (a spinta, o con leva) (.N.d.T.).

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incapsulato in pietra rossa di Agra, e scendeva ventisei metri sotto il letto di sabbia mobile del Gange. Sopra, correva la strada ferrata, su una larghezza di quattro metri; e ancora, sopra questa, una carreggiata di sei metri circa, fiancheggiata da passaggi pedonali. All’una e all’altra estremità si innalzavano torri fortificate in mattoni rossi, con feritoie per i moschetti e alloggiamenti per le bocche da fuoco, e la rampa stradale si stava spingendo verso il loro fianco. Sui tronconi dei terrapieni brulicavano centinaia e centinaia di asinelli che risalivano arrancando dalla voragine del sottostante scavo, con sacchi di materiale; il calpestio degli zoccoli, la gragnuola di bastonate degli asinai, lo scroscio e il rotolio del terriccio rovesciato riempivano l’aria calda del pomeriggio. Il fiume era in magra e fra i due piloni centrali, sulla sabbia di un bianco abbagliante, tozze cataste di traversine ferroviarie, colmate all’interno e spalmate all’esterno di mota, si alzavano a sostenere le ultime longarine mentre si provvedeva a fissarle con i ribattini. Su un pontile a palafitte, dove la siccità aveva lasciato un poco di acqua bassa, una gru a braccio andava avanti e indietro, piazzando di colpo al posto giusto travi di ferro, sbuffando e rinculando e grugnendo con brontolìi da elefante in un deposito di legname. Centinaia di ribaditori sciamavano sulle fiancate a traliccio e sulle coperture di ferro della linea ferroviaria, penzolavano da impalcature nascoste nel ventre delle travate, facevano grappolo intorno alle gole dei piloni, stavano a cavalcioni sugli aggetti delle incastellature dei passaggi pedonali; nella vampa del sole i loro fornelli e gli sprazzi che scaturivano ad ogni martellata apparivano appena di un pallido giallo. Ad est e ad ovest, a nord e a sud, sferragliavano e stridevano avanti e indietro sugli argini i treni di cantiere, trainando vagonetti pieni di pietra bruna e bianca che sobbalzavano fragorosamente, e poi, tolte le caviglie alle ribalte laterali, rovesciavano giù alcune migliaia di tonnellate di materiale per tenere a posto il fiume. Sul suo carrello Findlayson, C.E., si girò a osservare la regione alla quale, per vari chilometri tutto intorno, egli aveva cambiato volto. Guardò in basso alle sue spalle il ronzante villaggio di cinquemila operai; a monte e a valle, la prospettiva di contrafforti e di sabbie; verso l’altra riva del fiume, i piloni che rimpicciolivano nel tremolio della calura; alte sopra il suo capo, le torri di guardia – che solo lui sapeva quanto erano robuste – e respirò soddisfatto perché vedeva che il lavoro era buono. Dinanzi a lui, nella luce del sole, si ergeva il suo ponte, con poche settimane di lavoro ancora da completare alle travate dei tre piloni centrali – il suo ponte, grezzo, brutto come il peccato, ma pukka [stabile] destinato a durare dopo che ogni memoria del costruttore e, sì, persino della stupenda armatura Findlayson sarebbe estinta. L’opera era, in pratica, compiuta. Hitchcock, l’assistente, arrivò al piccolo galoppo lungo il binario su un

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cavallino cabuli con una rigida treccia per coda, che a forza di abitudine sarebbe stato capace di trottare con sicurezza sopra un traliccio. Fece con la testa un cenno di saluto al superiore. «Ci siamo» disse, con un sorriso. «Stavo pensando appunto a questo» rispose il capo. «Neanche un cattivo lavoro, per due uomini, no?» «Uno… e mezzo. Dio! che razza di pivello ero, arrivando al cantiere!» Hitchcock si sentiva molto vecchio, con la massa di esperienza degli ultimi tre anni, che gli avevano insegnato il comando e la responsabilità. «Eravate un principiante, infatti» disse Findlayson. «Chissà quale effetto vi farà il ritorno al lavoro di ufficio, terminato il compito qui.» «Sarà detestabile» disse il giovanotto, e procedendo seguì con l’occhio lo sguardo di Findlayson e mormorò: «Non è un bel lavoro, perbacco?». «Credo che faremo carriera insieme» disse Findlayson come tra sé. «Siete un giovane troppo in gamba per sprecarvi con un altro. Eravate un pollastro, siete un assistente. Sarete assistente personale, e a Simla, per poco che la faccenda mi procuri qualche merito.» Davvero l’intero onere del lavoro era ricaduto su Findlayson e sul suo assistente, un giovanotto che egli aveva scelto apposta allo stato grezzo, per forgiarlo come occorreva a lui. C’era una cinquantina di cottimisti, montatori e ribaditori presi dalle officine delle ferrovie, ed anche una ventina di dipendenti bianchi o meticci per sorvegliare, sotto sorveglianza, le squadre di operai. Ma nessuno sapeva meglio di quei due, nella loro reciproca fiducia, che non si può dare fiducia ai subalterni. Questi si erano varie volte trovati alla prova in circostanze critiche e improvvise – slittamenti dei pali di sostegno, rottura di paranchi, ribaltamenti di gru, furie del fiume – ma nessuna congiuntura aveva messo in luce un solo uomo al quale Findlayson e Hitchcock avrebbero fatto l’onore di un lavoro spietato come il loro. Findlayson passò mentalmente in rassegna quel periodo cominciando dal principio: i mesi di lavoro a tavolino mandati di botto a rotoli quando il Governo dell’India, all’ultimo momento, aveva aggiunto sessanta centimetri alla larghezza del ponte, presumendo forse che i ponti si ritaglino nella carta e così aveva distrutto almeno venti metri quadrati di calcoli e Hitchcock, nuovo alla delusione, aveva nascosto il capo tra le braccia e pianto; gli angosciosi ritardi nell’esecuzione dei contratti, dall’Inghilterra; la vana lettera che adombrava una lauta provvigione se una certa, unica fornitura un poco dubbia veniva accettata; la lotta conseguente al rifiuto; l’ostruzionismo conseguente alla lotta, cortese ed accurato, all’altra cima, tanto che infine il giovane Hitchcock, aggiungendo un mese di licenza a un altro mese e facendosi dare da Findlayson altri dieci giorni, aveva speso le povere sue

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piccole economie di un anno in una puntata lampo a Londra e lì, come la sua lingua asseriva e le successive forniture comprovarono, mise il timor di Dio addosso a un pezzo così grosso che temeva soltanto il Parlamento e che disse questo finché Hitchcock non se lo fu lavorato addirittura a pranzo da lui… ed egli allora temette il ponte di Kashi e quanti parlavano in suo nome. C’era poi stato il colera, arrivato al villaggio nottetempo; e il vaiolo, scoppiato dopo il colera. Quanto alla malaria, non li aveva mai lasciati. Hitchcock era stato nominato magistrato di terza classe con facoltà giurisdizionale di frusta, per il miglior governo della comunità; e Findlayson lo aveva visto esercitare i propri poteri con prudenza e imparare su che cosa andava chiuso un occhio e a che cosa bisognava invece badare. Era lunga, lunghissima, la rievocazione, e includeva tempeste, improvvise piene, morte sotto ogni specie e forma, rabbia spaventosa e violenta contro le scartoffie che fanno quasi dar di volta il cervello a chi è consapevole di avere da occuparsi di tutt’altro; siccità, igiene, amministrazione; nascite, matrimoni, funerali, risse, in un villaggio con venti caste nemiche l’una all’altra; discutere, rimproverare, supplicare, e spesso andare a letto in compagnia di un truce scoramento, grati solo di avere il fucile smontato nella custodia. Sullo sfondo di tutto, la nera struttura del ponte di Kashi saliva, lamiera per lamiera, longarina per longarina, e ogni suo pilone ricordava Hitchcock, l’uomo onnipresente rimasto a fianco del suo capo senza venirgli mai meno, dal principio fino a quel preciso istante. Il ponte dunque era opera di due uomini – a meno che non si volesse includere nel conto anche Peroo, come Peroo stesso vi si includeva senza dubbio. Si trattava di un lascar,10 un Kharva di Bulsar, di casa in tutti i porti da Rockhampton a Londra, il quale era salito fino al grado di serang11 sulle navi della British India ma, stancatosi delle regolamentari assemblee e delle pulizie di vestiario, aveva abbandonato il servizio recandosi all’interno, dove uomini della sua fatta erano sicuri di trovare lavoro. Esperto di paranchi e della manovra di grossi pesi, Peroo valeva quasi qualsiasi cifra volesse chiedere per i suoi servigi; ma il salario dei capomastri era quello stabilito dall’uso e Peroo rimaneva parecchi pezzi d’argento al disotto del suo effettivo valore. Non lo turbava il lavoro in rapide acque correnti né a grandi altezze e, in quanto ex-serang, sapeva come ci si fa obbedire. Non esisteva pezzo di ferro tanto grande o in posizione tanto ardua che Peroo per alarlo non riuscisse ad escogitare un paranco – un sistema di cavi mal rifinito, sbolinato, ordito con accompagnamento di una quantità scandalosa di chiacchiere, ma perfettamente adatto alla bisogna. Era stato Peroo a salvare la travata del pilone n. 7 dalla distruzione, la volta che il cavo metallico nuovo si incastrò

10 Il termine, che indica il marinaio indigeno, specialmente indiano, entrò nell’uso di varie lingue, nell’ottocento (in Francia venne ad indicare un individuo sveglio e intraprendente) (N.d.T.).

11 Specie di nostromo indigeno (N.d.T.).

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nell’occhio della gru e l’enorme trave si inclinò nelle sue ritenute minacciando di slittare per obliquo. A questo punto gli operai indigeni avevano perso la testa mettendosi a urlare, e Hitchcock, col braccio destro spezzato dalla caduta di un ferro a T, se lo era infilato nell’abbottonatura della giacca, era svenuto, si era ripreso e per quattro ore era rimasto a dare ordini, finché Peroo, dalla cima della gru, riferì: «Tutto bene» e la trave altalenò fino al suo posto. Non ce n’era un altro come Peroo, il serang, per dar volta, imbracare, agguantare, azionare i motori ausiliari, o capace di rialzare una locomotiva dal fondo di uno sterrato in cui si era ribaltata; per spogliarsi e tuffarsi, all’occorrenza, a vedere come i blocchi di cemento intorno ai piloni reggevano allo strofinio di Mamma Gunga, o per avventurarsi controcorrente in una notte di monsone, onde riferire sulle condizioni dei rivestimenti degli argini. Sul cantiere interferiva senza paura nei conciliaboli tra Findlayson e Hitchcock e quando il suo sorprendente inglese o la sua ancor più sorprendente “lingua-franca”, per metà portoghese e per metà malese, non bastavano più, dava inevitabilmente di piglio a uno spago e mostrava i nodi che, secondo lui, occorreva fare. Comandava una sua squadra di imbragatori – tutto un misterioso parentado di Kutch Mandvi, radunato un mese dopo l’altro e spremuto al massimo. Peroo non avrebbe mai mantenuto sul ruolino di paga mani improduttive o una testa balorda, per riguardi di famiglia o di tribù. «Il mio onore è l’onore di questo ponte» rispondeva all’uomo che stava per essere licenziato «del tuo onore che cosa mi importa? Vattene a lavorare su un piroscafo. Non sei buono ad altro.» Il piccolo agglomerato di capanne, dove abitavano lui e la squadra, faceva cerchio intorno alla malconcia dimora di un prete di mare – un tale che non aveva mai messo piedi sull’Acqua Nera ma era stato scelto come guida spirituale da due generazioni di pirati, tutti rimasti estranei alle missioni religiose dei porti o alle professioni di fede che certe agenzie sulle banchine del Tamigi tentano di rifilare ai marittimi. Il prete dei lascar non aveva nulla in comune con la loro casta né, se è per questo, con altro. Mangiava le offerte dei suoi fedeli, dormiva, fumava, tornava a dormire, «perché» diceva Peroo, il quale aveva personalmente provveduto a rimorchiarlo chilometri e chilometri all’interno «è un uomo molto santo. Non gli importa niente di quel che tu mangi purché non mangi carne di bue, e questo è bene perché, noi Kharva, a terra veneriamo Siva; ma in mare sulle navi della Kùmpani dobbiamo stretta obbedienza agli ordini del Burra Malum [il primo ufficiale], e su questo ponte ci atteniamo a quello che dice Finlinson sahib». Findlayson sahib aveva ordinato quel giorno di togliere l’impalcatura alla torre di guardia della riva destra, così Peroo con i suoi uomini stavano mollando e arriando pali ed assi di bambù, con la rapidità stessa con cui un tempo scaricavano una nave di cabotaggio.

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I colpi del fischietto d’argento del serang giungevano sino al trolley, col cigolio e lo schiocco delle carrucole. Peroo era in piedi sul più alto cornicione della torre, con indosso la muta turchina del mestiere che aveva lasciato, e quando Findlayson gli fece un gesto per raccomandargli di stare attento, poiché quella non era vita da buttar via, egli diede di piglio all’ultimo palo e, facendosi solecchio alla marinara, rispose con il grido strascicato e lamentoso della vedetta del castello di prua: «Ham dekhta hai [Sto all’erta]». Findlayson rise, poi sospirò. Da anni non vedeva un piroscafo, e aveva nostalgia della patria. Mentre il suo trolley passava sotto la torre, Peroo si calò lungo una corda, alla maniera delle scimmie, e gridò: «Adesso sembra a posto, sahib. Il nostro ponte è fatto, o quasi. Che cosa dirà Mamma Gunga quando sopra passerà la ferrovia?». «Poco ha detto, finora. Non è certo stata Mamma Gunga a farci ritardare.» «Per essa è sempre tempo; e ritardo c’è stato, nondimeno. Il sahib ha scordato la piena dello scorso autunno, quando le chiatte del pietrame furono sommerse senza preavviso… o con preavviso di mezza giornata soltanto?» «Sì, ma nulla, salvo un’inondazione in grande stile, potrebbe danneggiarci, adesso. I contrafforti tengono bene, sulla riva di ponente.» «Mamma Gunga mangia a grandi bocconi. La pietra non è mai troppa, sulle scarpate. L’ho detto al Chota sahib» (si riferiva a Hitchcock) «e lui ride.» «Non fa nulla, Peroo. Un altr’anno potrai costruirti un ponte a modo tuo.» Il lascar sogghignò: «Non sarà di questo tipo, allora, con opera muraria affondata sott’acqua, come affondò la Quetta. A me piacciono i ponti sus-sus-pesi che volano da una riva all’altra, in un solo gran balzo, come palanche. Allora non c’è acqua che possa recar danno. Quando viene il Lord sahib a inaugurare il ponte?». «Fra tre mesi, quando fa più fresco.» «Ah, ah! È come il Burra Malum. Mentre si fa il lavoro, lui sta dabbasso a dormire. Poi viene sul cassero, tocca con un dito, e dice: “Qui è sporco! Brutto muso di scimmia!”.» «Ma il Lord sahib non mi chiama brutto muso di scimmia, Peroo.» «Già, sahib; ma in coperta non sale finché il lavoro non è tutto finito. Anche il Burra Malum del Nerbudda disse una volta a Tuticorin…» «Be‘! Va‘! Ho da fare.» «Io anche!» disse Peroo, senza battere ciglio. «Posso prendere, adesso, il battellino a remi e andare lungo le scarpate?» «Per sostenerle con le mani? Sono abbastanza massicce, mi pare.» «Ma no, sahib. È così. In mare, Sull’Acqua Nera, c’è spazio per andare in deronza di qua e di là, senza stare a preoccuparsi. Noi qui non abbiamo neanche un poco di spazio. Guardate, noi abbiamo messo il fiume in bacino, incanalandolo tra parapetti di pietra.»

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Findlayson sorrise al “noi”. «Gli abbiamo messo il morso e gli abbiamo messo le briglie. Non è come il mare, che può battere contro una morbida spiaggia. È Mamma Gunga… ai ferri.» Aveva abbassato la voce. «Peroo, tu sei stato su e giù per il mondo, anche più di me. Ora, dimmi la verità. Quando ci credi, in cuor tuo, alla faccenda di Mamma Gunga?» «Tutto quello che il nostro prete dice. Londra è Londra, sahib. Sydney è Sydney, e Port Darwin è Port Darwin. Anche Mamma Gunga è Mamma Gunga, e quando torno alle sue rive, io so questo, e adoro. A Londra feci poojah nel grande tempio accanto al fiume, in omaggio al Dio che c’è dentro… Sì, il battellino lo prenderò senza i cuscini.» Findlayson si mise in sella al suo cavallo, e al trotto raggiunse la tettoia del bungalow che divideva con il suo assistente. Era diventato come casa sua, quel posto, nei tre anni trascorsi. Sotto quel tetto grezzo di paglia, era andato arrosto nel caldo torrido, aveva sudato nella stagione delle piogge, aveva patito i brividi della febbre; l’imbiancatura a calce, di fianco alla porta, era coperta di sommari schizzi e di formule, e sul pavimento della veranda la copertura di stuoia mostrava, come un sentiero di ronda, la traccia delle sue deambulazioni solitarie. Non esiste giornata di otto ore, nel lavoro di ingegnere, e il pasto serale con Hitchcock fu consumato in stivali e speroni: ai sigari, stettero ad ascoltare il brusio del villaggio, ove stavano tornando le squadre dal letto del fiume e cominciavano a tremolare i lumi. «Peroo se ne è andato lungo i contrafforti nel vostro battellino. Ha preso con sé un paio di nipoti, e lui se ne sta adagiato a poppa come un commodoro» disse Hitchcock. «Non importa. Ha qualcosa in mente. Eppure dieci anni sulle navi della British India dovrebbero averlo svuotato un bel po‘ delle sue credenze.» «E così è» disse Hitchcock ridacchiando. «Mi è capitato di udirlo, l’altro giorno; faceva un discorso da vero e proprio ateo, con quel loro vecchio guru grasso. Peroo negava l’efficacia della preghiera; avrebbe voluto che il guru si imbarcasse, per trovarsi con lui nel bel mezzo di una tempesta e vedere se è capace di fermare un monsone.» «Nondimeno, provate a portargli via il suo guru: ci pianterebbe, dritto sparato. Mi stava tirando fuori la storia che quando era a Londra ha rivolto preghiere alla cattedrale di San Paolo.» «A me ha detto che la prima volta in cui entrò nella sala macchine di un piroscafo, da ragazzo, rivolse preghiere al cilindro a bassa pressione.» «Non sono poi cattive preghiere, né in un caso né nell’altro. Adesso, sta propiziando le proprie divinità e vuol sapere che cosa ne penserà Mamma Gunga, di farsi attraversare da un ponte. Chi è?» Un’ombra oscurò l’inquadratura dell’uscio e nella mano di Hitchcock fu messo un telegramma.

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«Ormai dovrebbe esserci quasi abituata. Solo un tar. Sarà la risposta di Ralli a proposito dei bulloni nuovi… Santo cielo!» Hitchcock era balzato in piedi. «Che c’è?» disse il superiore, e prese il modulo. «Ecco che cosa pensa Mamma Gunga, eh?» disse, leggendo. «Sangue freddo, giovanotto. Ci hanno preparato un bel lavoro. Vediamo. Muir telegrafa, mezz’ora fa: “Piena sul Ramgunga. Attenti”. Be‘, questo ci lascia… una, due… nove ore e mezzo perché la piena raggiunga la stretta di Malipur, più sette, fanno sedici e mezzo fino a Latodi, diciamo quindici ore prima che ci piombi addosso.» «Al diavolo quella fogna di nevi del Ramgunga! Findlayson, è in anticipo di due mesi su tutto quanto ci si potesse aspettare, e la sponda sinistra è ancora coperta di materiale. Due buoni mesi di anticipo!» «Proprio perciò accade. Conosco i fiumi indiani da venticinque anni soltanto, non posso pretendere di capire. Ecco che arriva un altro tar.» Findlayson aprì il telegramma. «Cockran, questa volta, dal Canale del Gange: “Qui piogge violente. Male”. Poteva economizzare l’ultima parola. Ebbene, non abbiamo bisogno di saperne altro. Dobbiamo metter sotto le squadre tutta la notte e sgomberare il letto del fiume. Voi prenderete la riva sinistra e farete in modo d’incontrarmi al centro. Tutto ciò che galleggia, portatelo a valle del ponte: avremo già più che a sufficienza rottami che vengon giù col fiume, senza lasciar che le chiatte del pietrame investano i piloni. Che cosa avete, sulla riva orientale, che occorra badarci?» «Il pontone, quello grande che porta la gru a braccio. Altra gru a braccio sul pontone riparato, con i ribattini della carreggiata tra i piloni dal n. 20 al 23… due binari volanti, e un argano. Le impalcature faranno quel che possono» disse Hitchcock. «Sta bene. Ritirate tutto quello su cui potete mettere le mani. Lasceremo altri quindici minuti alle squadre, che mangino un boccone.» C’era accanto alla veranda un grande gong per la notte, che non si usava mai se non in caso di piena, o di incendi al villaggio. Hitchcock si era fatto portare un cavallo fresco ed era già in cammino verso il suo lato del ponte quando Findlayson prese la bacchetta fasciata di stoffa e picchiò con i colpi strisciati che ricavano dal metallo tutta la vibrazione. Assai prima che l’ultimo rombo cessasse, ogni gong notturno del villaggio aveva raccolto l’allarme. Vi si aggiunsero il rauco urlio delle buccine nei piccoli templi, il battito di tam-tam e tamburi; e, dal settore europeo in cui abitavano i ribaditori, la tromba di M’Cartney, arma d’offesa la domenica e nei giorni di festa, squillò alla disperata il “buttasella”. Le macchine che rientravano dai contrafforti dopo il lavoro giornaliero risposero col fischio l’una dopo l’altra e i fischi dalla riva opposta risposero a loro volta. Poi il grande gong rombò tre volte ad indicare che di piena si trattava e non di incendio; la buccina, il tamburo, il fischio fecero eco al segnale, e il villaggio

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tremò al calpestio di piedi nudi in corsa su terra molle. La consegna per ogni evenienza era di raggiungere il posto di lavoro e attendere istruzioni. Le squadre uscivano a fiotti nel crepuscolo, e c’erano uomini che si fermavano ad annodarsi lo straccio intorno alle reni o ad allacciare un sandalo, capisquadra che gettavano gridi ai loro sottoposti che correvano o sostavano a ritirare sbarre e picconi dalle rimesse degli attrezzi, locomotive che avanzavano lentamente sulle rotaie in mezzo alla calca che era come una marea alta fino alle ruote; infine il torrente di color bruno scomparve nell’oscurità del letto del fiume, corse su per le impalcature, sciamò lungo i tralicci, si assiepò intorno alle gru, e si fermò, ogni uomo al proprio posto. Allora i colpi inquieti del gong trasmisero l’ordine di raccattare tutto e portarlo al disopra del segnale di guardia delle piene, e le lampade a fiamma svamparono a centinaia tra le strutture opache di ferro mentre i ribaditori davano inizio al lavoro della nottata, in gara contro la piena che stava per giungere. Le travate dei tre piloni centrali, quelle che poggiavano su cataste di sostegno, erano pressoché a posto. Avevano soltanto bisogno di quanti più ribattini si riuscisse a fissarvi, perché la piena avrebbe indubbiamente spazzato via i sostegni e le opere metalliche, a non bloccarle alle estremità, si sarebbero adagiate sulle incapsulature di pietra. Un centinaio di piedi di porco si affaccendavano attorno alle traverse della linea provvisoria che era servita ad alimentare i piloni non ultimati. Essa veniva sollevata a sezioni, caricata sui carri piatti e le locomotive sbuffanti la riportavano sulla riva, al disopra del livello di piena. Dinanzi all’assalto di schiere vociferanti, le baracche degli arnesi, sulla sabbia, si volatilizzarono e con esse scomparvero cumuli di rifornimenti governativi, casse di ribattini cerchiate di ferro, pinze, cesoie, pezzi di ricambio per bullonatrici, pompe di riserva, catene. La gru grande doveva venire trasferita per ultima, perché stava alzando tutto il materiale pesante sopra la struttura principale del ponte. I blocchi di calcestruzzo sulle chiatte furono gettati fuori bordo dove l’acqua era più profonda per proteggere i piloni, dopodiché i barconi scarichi, manovrando con le pertiche, furono spostati sotto il ponte fino a valle. Lì trillava più forte il fischietto di Peroo: il primo colpo del grande gong aveva riportato indietro il battellino a velocità di gara, e Peroo con i suoi, tutti a torso nudo, lavoravano per l’onore e la stima, che valgono più della vita. «Sapevo che avrebbe parlato» gridava «io lo sapevo. Ma il telegrafo ha fatto bene ad avvertirci. O figli di un connubio impensabile! Creature di abiezione indicibile! Siamo forse qui per mostra?» Mezzo metro di cavo di acciaio, sfilacciato alle estremità, era in funzione, e faceva meraviglie in mano a Peroo che balzava di frisata in frisata, urlando nel gergo del mare. I barconi del pietrame preoccupavano Findlayson più di tutto il resto. M’Cartney con la sua squadra stava fissando le estremità delle tre campate

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insicure, ma barconi alla deriva, se la piena risultava molto alta, potevano mettere in pericolo le travate, e ce n’era addirittura una flotta quasi a secco nei rami minori del fiume. «Portali a ridosso della torre di guardia» gridò giù a Peroo. «Lì l’acqua farà remora; portali a valle del ponte.» «Accha! [Benissimo], lo so. Li ormeggiamo con cavo metallico» fu la risposta. «Ohé! Senti, Chota sahib, come lavora!» Veniva, dal lato opposto del fiume, un fischiare quasi ininterrotto di locomotive, rincalzato da un brontolio di pietrame. Hitchcock dedicava, all’ultimo minuto, qualche ulteriore centinaio di vagonate di pietra di Tarakee a rinforzare contrafforti e scarpate. «Il ponte sfida Mamma Gunga» disse Peroo, con una risata. «Ma io so, quando essa parlerà, quale voce suonerà più alta.» Per ore gli uomini seminudi lavorarono, tra grida ed urli, al lume delle lampade. Era una notte calda, senza luna; fu oscurata, sul finire, da nubi e da una raffica improvvisa che resero Findlayson assai pensoso. Era vicina l’alba quando Peroo disse: «Si muove! Mamma Gunga è sveglia. Sentite». Chinandosi fuori bordo da una barca immerse una mano e intorno ad essa ci fu il mormorio della corrente. Una piccola onda colpì il fianco di un pilone con uno schiocco secco. «Sei ore prima di quel che doveva» disse Findlayson, asciugandosi rabbiosamente la fronte. «Ora non possiamo più fidarci di nulla. Meglio far sgomberare tutti gli operai dal letto del fiume.» Di nuovo il rimbombo del grande gong, e vi fu una seconda volta la corsa precipitosa di piedi nudi sulla terra e sul ferro risonante; il clangore degli arnesi cessò. In quel silenzio, gli uomini udirono l’arido sbadiglio dell’acqua che strisciava su sabbie assetate. L’uno dopo l’altro i capisquadra urlarono a Findlayson, che aveva preso posto accanto alla torre di guardia, che il letto del fiume, nelle rispettive sezioni, era stato evacuato, e quando si spense l’ultima voce Findlayson avanzò in fretta sopra il ponte fin dove le lastre metalliche del piano stradale definitivo lasciavano il posto alla passerella provvisoria sopra i tre piloni centrali, e lì incontrò Hitchcock. «Tutto sgomberato dal vostro lato?» disse Findlayson. Il sussurro risonava nella cassa di tralicci. «Sì, e il braccio orientale attualmente si sta colmando. Siamo completamente fuori dal preventivo. Quand’è che ci arriverà addosso, la cosa?» «Non si può dire. Il fiume sale con tutta la rapidità di cui è capace. Guardate!» Findlayson puntò il dito verso il tavolato sotto i suoi piedi, dove la sabbia arsa, sporca per tanti mesi di lavoro, cominciava a bisbigliare e

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frizzare. «Ordini?» disse Hitchcock. «Fare l’appello. Contare i materiali. Mettervi tranquilli. E pregare per il ponte. Non vedo altro. Buonanotte. Non andate a rischiare la vita cercando di ripescare qualcosa che se ne vada via con la corrente.» «Oh, sarò prudente quanto voi! ‘Notte. Santo cielo, come sale! Ed ecco sul serio la pioggia.» Findlayson rifece la via fino a riva dal suo lato, sospingendo davanti a sé gli ultimi ribaditori di M’Cartney. Le squadre si erano sparpagliate lungo gli argini, malgrado la pioggia fredda dell’alba, e stavano lì ad aspettare la piena. Soltanto Peroo continuava a tenere riuniti i suoi uomini dietro il saliente della torre di guardia, dove i barconi del pietrame erano imbozzati con gherlini, cavi metallici e catene. Lungo il fronte corse un gemito stridulo che si gonfiò sino a un grido, in parte di paura e in parte di stupore: la superficie del fiume sbiancò, da una riva all’altra, tra le pareti di pietra, e in lontananza i contrafforti scomparvero tra spruzzi di spuma. Mamma Gunga era salita in gran furia fino al livello delle rive, e un muro d’acqua color cioccolato l’annunciava. Uno strido lacerante sovrastò il ruggito dell’acqua, era il lamento delle campate che, portate via in un vortice le cataste di sostegno da sotto la loro pancia, calavano sui ceppi d’arresto. Le chiatte scricchiolavano e cigolavano l’una contro l’altra nel risucchio che aggirava la spalla di muratura, e i loro rozzi alberi salivano sempre più. sulla linea indistinta dell’orizzonte. «Prima che fosse chiusa tra queste muraglie sapevamo che cosa avrebbe fatto. Ora che è così allo stretto, solo Iddio sa che cosa farà!» disse Peroo osservando il furibondo ribollire intorno alla torre di guardia. «Ehi, picchia, allora! Picchia sodo, perché così una donna logora la propria resistenza.» Però Mamma Gunga non si mise a picchiare come si augurava Peroo. Dopo la prima irruzione a valle, non vennero altre muraglie di acqua, ma la fiumana continuò a salire ingrossando, come un serpente quando beve a mezza estate, pizzicando e palpando le scarpate, ammucchiandosi dietro le gettate, così che Findlayson si rimise persino a calcolare la forza di resistenza della sua opera. Quando si fece giorno il villaggio rimase a bocca aperta. «Ancora la notte scorsa» dissero gli uomini, volgendosi l’uno all’altro «c’era una città, nel letto del fiume! Guarda adesso!» Ed essi guardavano, e tornavano a stupirsi dell’acqua profonda, dell’acqua precipitosa, che lambiva la gola dei piloni. La riva opposta era avvolta in un velo di pioggia, nel quale il ponte scompariva, svanendo; a monte, solo vortici e spruzzi indicavano i contrafforti, e a valle il fiume chiuso, non più imbrigliato dagli argini, si era allargato come un mare fino all’orizzonte. Poi scesero rapidi, rotolando nella corrente, uomini e buoi morti, alla rinfusa, e di quando in quando un lembo di tetto di paglia che si dissolveva se toccava un

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pilone. «Grossa piena» disse Peroo, e Findlayson annuì. La piena era più grossa di quanto mai avesse desiderato vederne. Il ponte avrebbe sostenuto ciò che gli era addosso ora, ma non molto di più; e se esisteva una probabilità su mille che nelle arginature ci fosse un punto debole, Mamma Gunga avrebbe trascinato con sé l’onore di Findlayson buttandolo in mare con gli altri relitti. Quel che è peggio, non c’era nulla da fare, solo star fermi; ed egli rimase fermo, nel suo impermeabile, tanto che il casco divenne poltiglia sulla sua testa e i suoi stivali ebbero il fango fin sopra la caviglia. Non teneva il conto del tempo, perché era il fiume a segnare le ore, centimetro per centimetro, decimetro per decimetro, sulle scarpate ed egli, intorpidito e digiuno, tendeva l’orecchio al tormento delle chiatte, al sordo rombo sotto i piloni e gli altri cento rumori che costituiscono la piena voce di un’inondazione. Un servo sgocciolante gli recò, una volta, del cibo, ma egli non riuscì a mangiare; e una volta, credendo di udire di là dal fiume un debole fischio di locomotiva, sorrise. Un insuccesso del ponte non sarebbe stato dolore piccolo per il suo assistente, ma Hitchcock era giovane, col suo grande lavoro ancora da fare. Quanto a lui, una catastrofe significava… tutto: tutto ciò per cui valeva la pena di aver vissuto una dura vita. Avrebbero detto, quelli del mestiere… Ben ricordava le cose più o meno compassionevoli che egli stesso aveva detto, quando i grandi serbatoi di Lockhart erano scoppiati riducendosi a un mucchio di mattoni e fango, e ogni coraggio si era spezzato in petto a Lockhart, che ne era morto. Ricordava quello che egli stesso aveva detto quando il ponte di Sumao era stato portato via dal grande ciclone marino; e soprattutto ricordava la faccia del povero Hartopp tre settimane più tardi, dopo che la vergogna lo aveva segnato. Il suo ponte, come dimensione, era il doppio di quello di Hartopp, e vi era applicata non solo l’armatura Findlayson ma anche la nuova scarpa di pilone, la scarpa a chiavarda Findlayson. Non esistevano scusanti, nella professione. Il Governo, magari, poteva prestarvi ascolto, ma i colleghi vi avrebbero giudicato dal ponte, in quanto reggeva o cadeva. Tornò a passarlo in rassegna mentalmente, trave per trave, campata per campata, mattone per mattone, pilone per pilone, ricordando, confrontando, valutando e ricalcolando, che non ci fosse qualche errore; e in quelle lunghe ore, in quelle fughe di formule matematiche che gli ballavano e vorticavano davanti agli occhi, un agghiacciante timore veniva a pungergli il cuore. Dal canto suo, indubbiamente il conto tornava; ma chi sapeva niente dell’aritmetica di Mamma Gunga? Proprio mentre egli si rassicurava con la tavola pitagorica, il fiume poteva stare scavando marmitte precisamente in fondo ad uno qualsiasi di quei piloni di ventisette metri su cui posava la sua reputazione. Tornò un servo con qualcosa da mangiare, ma egli aveva la bocca secca, riuscì solo a bere, e tornò a rigirare decimali nel

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cervello. Ed il fiume saliva ancora. Peroo, avvoltolato in un mantello di stuoia, stava ai suoi piedi, accoccolato, guardando alternativamente la sua faccia e la faccia del fiume, ma senza dire nulla. Infine il lascar si alzò e sguazzò nella melma, verso il villaggio, non senza avere avuto cura di lasciare un congiunto a sorvegliare i barconi. Presto fu di ritorno, sospingendo dinanzi a sé con pochissima reverenza il prete della sua fede, un vecchio grasso, con una barba grigia che sferzava il vento in compagnia dello straccio bagnato svolazzante sulle sue spalle. Un guru più miserabile non si era mai visto. «A che cosa servono le offerte e i piccoli lumi a petrolio e il grano secco» urlò Peroo «se sei capace solo di startene a sedere nel fango? Per tanto tempo hai bazzicato con gli Dèi, quando erano soddisfatti e benigni. Adesso sono in collera. Parla con loro!» «Che cosa è un uomo contro l’ira degli Dèi?» uggiolò il prete, rannicchiandosi nel soffio di vento che lo coglieva. «Lasciami andare al tempio, e lì pregherò.» «Figlio di un porco, prega qui! Nulla, in cambio del pesce salato, della polvere di curry, delle cipolle secche? Grida forte! Di‘ a Mamma Gunga che adesso basta. Ordinale di starsene tranquilla stanotte. Io non so pregare, ma ho fatto servizio sulle navi della Kùmpani e quando gli uomini non eseguivano i miei ordini io…» Un mulinello del pezzo di cavo metallico completò la frase, e il prete, sfuggendo al discepolo, corse verso il villaggio. «Pezzo di maiale!» disse Peroo. «Dopo tutto quello che abbiamo fatto per lui! Finita la piena, ci penso io a trovarci un nuovo guru. Finlinson sahib, si sta facendo notte, e da ieri non avete mangiato. Siate ragionevole, sahib. Nessuno può resistere alla veglia e al gran pensare, con la pancia vuota. Coricatevi, sahib. Il fiume farà quel che farà.» «Il ponte è mio, non posso abbandonarlo.» «Lo terrete in piedi con le mani, allora?» disse Peroo, ridendo. «Ero in pena per i miei barconi e le mie bighe prima che arrivasse la piena. Ora siamo nelle mani degli Dèi. Il sahib non intende mangiare o coricarsi? Prendete queste, allora. Sono pietanze e buon grog tutto insieme, e ammazzano ogni stanchezza, oltre la febbre che vien dopo la pioggia. Oggi io non ho mangiato niente altro.» Dalla cintura fradicia tirò fuori una piccola tabacchiera di latta e la ficcò in mano a Findlayson dicendo: «Ma no, non temete. Non è altro che oppio, onesto oppio di Malwa!». Findlayson si fece cadere nel palmo della mano due o tre di quelle pallottoline marrone scuro e quasi senza sapere quel che faceva le ingoiò. Quella roba in ogni caso era una buona salvaguardia contro la febbre, la febbre che gli saliva strisciante addosso dall’umido del fango. Ed aveva visto che cosa era capace di fare Peroo nelle soffocanti nebbie d’autunno in forza di

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una dose tratta dalla scatola di stagno. Peroo, con gli occhi che brillavano, fece un cenno di approvazione. «Tra poco… tra poco il sahib si accorgerà che pensa di nuovo bene. Anch’io…» Pescò nella sua preziosa scatola, si riaggiustò la stuoia sul capo, e si accoccolò a tener d’occhio i barconi. Faceva troppo buio, ora, per vedere più in là del primo pilone; e la notte pareva avere dato forza al fiume. Findlayson stava con il mento sul petto, a pensare. Un punto a proposito di uno dei piloni, il n. 7, non gli quadrava ancora in mente. Le cifre non volevano disegnarsi all’occhio, se non ad una ad una e ad enormi intervalli di tempo. Aveva nell’orecchio un suono caldo e pastoso, come la nota più profonda di un contrabbasso, un suono affascinante sul quale rimase a riflettere per ore, così gli sembrò. Poi, Peroo era al suo fianco e gridava che si era schiantato un ormeggio di acciaio e i barconi si erano sciolti. Findlayson vide la flottiglia aprirsi e traversarsi a ventaglio. con l’accompagnamento del lungo stridore dei cavi che strofinavano lungo i capi di banda. «Li ha colpiti un albero. Se ne andranno tutti» gridò Peroo. «Si è spezzato l’ormeggio principale. Che cosa fa il sahib?» Alla mente di Findlayson era balenato all’improvviso un piano enormemente complesso. Vedeva le cime che correvano in linee ed angoli retti di barcone in barcone, ogni cima una linea di fuoco, incandescente. Ma c’era una cima che le comandava tutte. La vedeva. Una volta alata quella, era cosa assolutamente e matematicamente certa che la flottiglia scompigliata si sarebbe radunata nell’acqua stagnante dietro la torre di guardia. Ma perché, si chiese, Peroo gli si attaccava così disperatamente alla cintola mentre egli si affrettava giù per la riva? Era necessario scostare il lascar, con bel modo e pianamente, perché era necessario salvare i barconi e, inoltre, dimostrare l’estrema facilità del problema che pareva così arduo. E poi (ma questo non aveva la minima importanza), ecco che un cavo di acciaio filava nella sua mano, scottandola, l’alta riva scompariva e con essa tutti i fattori del problema, che si sparpagliavano lentamente. Egli era seduto nella tenebra piena di pioggia, seduto in un barcone che girava come una trottola, e Peroo era in piedi accanto a lui. «Avevo dimenticato» disse il lascar piano «che a chi è digiuno e non abituato l’oppio fa effetto peggio del vino. Quelli che muoiono in Gunga vanno agli Dèi. Nondimeno, non ho nessun desiderio di presentarmi a così importanti personaggi. Sa nuotare, il sahib?» «E a che scopo? Può volare, volare svelto come il vento» rispose egli, con voce torbida. “È impazzito!” mormorò tra sé Peroo. “E mi ha buttato da parte come un fastello di mattonelle di sterco. Be‘, non saprà di morire. Il barcone qui non riesce a stare a galla più di un’ora, anche se non entra in collisione con niente.

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Non è bello guardare la morte con occhio limpido.” Si servì ancora della scatoletta di latta per rinfrancarsi, si accoccolò a prua di quello scafo roteante, con gli occhi fissi attraverso la nebbia sul nulla che era lì. Una calda sonnolenza invadeva Findlayson, l’ingegnere Capo, che aveva la responsabilità del suo ponte. Le grosse gocce d’acqua lo colpivano con mille piccoli fremiti tintinnanti, e sulle palpebre gli gravava tutto il peso del tempo dei tempi sin dalla creazione. Pensava e constatava di essere perfettamente al sicuro, perché l’acqua era solida, tanto che un uomo poteva sicuramente uscire su di essa e, stando ritto e fermo con le gambe un poco divaricate per tenere l’equilibrio (questo era l’importante), sarebbe stato portato a grande e comoda velocità fino a terra. Ma gli si presentò un proposito ancora migliore. Bastava soltanto uno sforzo di volontà e l’anima avrebbe scagliato il corpo a terra così come il vento travolge la carta; lo avrebbe sospinto sulla riva al pari di un aquilone. Ma se il forte vento (la barca girava su se stessa vertiginosamente) si fosse inserito sotto il corpo lasciato in libertà? Questo si sarebbe innalzato come un aquilone per poi piombare a testa innanzi sulle distanti sabbie, o sfuggito di mano avrebbe vagato barcollante per tutta l’eternità? Findlayson si aggrappò alla frisata per ancorarsi, perché pareva essere sul punto di prendere il volo prima di avere sistemato tutti i suoi piani. L’oppio fa più effetto su un bianco che su un nero. Peroo non provava altro che una gradevole indifferenza per gli eventi. «Non può rimanere a galla» borbottò. «I comenti già si stanno aprendo. Se solo fosse stata un battellino a remi, l’avremmo cavata fuori; ma una cassa piena di buchi, non val niente. Finlinson sahib, fa acqua.» «Accha! Io vado via. Vieni anche tu.» Mentalmente Findlayson aveva già lasciato la barca e stava volteggiando alto nel cielo in cerca di un punto d’appoggio per il suo piede. Il suo corpo (egli era davvero umiliato della goffa impotenza di quel corpo) giaceva a poppa, con l’acqua che gli si avventava alle ginocchia. “Che cosa profondamente ridicola!” disse tra sé, dalle altitudini in cui stava; “quello… è Findlayson, il capo del ponte di Kashi. E quello stupido animale, oltre tutto, sta per annegare. Annegare, quando è vicino a riva. Io… io sono già a riva. Perché non viene anche lui?” Fu intensamente indignato di ritrovarsi con l’anima rientrata nel corpo e con quel corpo che annaspava e soffocava in acqua fonda. La sofferenza del ricongiungimento fu atroce, ma fu necessario lottare anche per il corpo. Si accorse che stava afferrandosi a della sabbia bagnata e che riusciva con passi portentosi, come i passi che si fanno in sogno, a non perdere piede nell’acqua turbinante, finché da ultimo si strappò alla presa del fiume e cadde, ansante, sulla terra umida. «Non stanotte» disse al suo orecchio Peroo. «Gli Dèi ci hanno protetti.» Il

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lascar posava con cautela i piedi, che frusciavano tra sterpi. «Deve essere un’isola in cui hanno raccolto l’indaco l’anno scorso» proseguì. «Non troveremo uomini, qui, ma fate molta attenzione, sahib; la piena ha cacciato fuori tutti i serpenti su centocinquanta chilometri. Ecco i lampi, alle calcagna del vento. Ora potremo vedere; ma state attento a camminare.» Findlayson era molto, molto più in là di ogni timore di serpenti, e invero di ogni emozione puramente umana. Toltasi l’acqua dagli occhi sfregandoli, egli vedeva con enorme chiarezza e camminando faceva, o così gli sembrava, passi impetuosi che valicavano il mondo. Egli aveva costruito un ponte, nella notte dei tempi, da qualche parte, un ponte gettato su distese infinite di scintillante mare; ma il Diluvio lo aveva spazzato via lasciando sotto il cielo quell’unica isola per Findlayson e il suo compagno, unici sopravvissuti del genere umano. Un lampeggiare ininterrotto, ramificato e livido, mostrava tutto quello che c’era da vedere su quella macchiolina in mezzo all’inondazione; un folto di rovi, una macchia di bambù oscillanti e scricchiolanti e un grigio e nodoso peepul che dava ombra a un tempietto indù sulla cui cupola sventolava una bandiera rossa sbrindellata. Il santone, che vi aveva avuto il suo luogo di ritiro estivo, l’aveva abbandonato da lungo tempo e le intemperie avevano sgretolato l’immagine del suo dio. I due uomini, con le gambe e gli occhi pesanti, inciamparono nelle ceneri di un focolare di mattoni e si lasciarono cadere al riparo dei rami, mentre pioggia e fiume ruggivano all’unisono. Gli steli mozzi dell’indaco crepitarono, si sentì odore di bestiame, mentre un enorme e gocciolante Toro braminico si apriva con le spalle la strada fin sotto l’albero. I lampi rivelavano il segno del tridente di Siva sul suo fianco, l’arroganza della sua testa e della gobba, i luminosi occhi da cervo, la fronte coronata da una ghirlanda di fiori di calendula inzuppati e la serica giogaia che quasi sfiorava il suolo. Dietro ad esso si udì il rumore di altre bestie che risalivano dal livello di piena attraverso la boscaglia, un rumore di piedi pesanti e un profondo ansimare. «Devono esserci altri, qui, oltre noi» disse Findlayson, con la testa appoggiata al tronco dell’albero, guardando attraverso le palpebre socchiuse, interamente a suo agio. «Davvero» disse Peroo con voce indistinta «e non sono da poco.» «Chi, dunque? Io non vedo bene.» «Gli Dèi. Chi altro? Guardate.» «Ah, è vero! Gli Dèi, certo, gli Dèi.» Findlayson sorrise, mentre la testa gli ricadeva sul petto. Peroo aveva perfettamente ragione. Dopo l’inondazione, chi doveva essere vivo nel paese salvo gli Dèi che lo avevano creato, gli Dèi che il suo villaggio invocava ogni notte, gli Dèi che erano sulle bocche di tutti gli uomini, sulle strade di tutti gli uomini? Egli non era in grado di alzare la

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testa o di muovere un dito per via del rapimento che lo aveva colto, e Peroo rivolgeva un vacuo sorriso ai lampi. Il Toro sostò al tempietto e la sua testa si abbassò al suolo umido. Fra i rami un Pappagallo verde si lisciò col becco le penne bagnate e strillò contro il tuono, mentre mobili ombre di animali riempivano lo spiazzo sotto l’albero. Dietro il Toro c’era un’Antilope nera, un maschio quale Findlayson nella sua remota vita terrestre forse aveva visto in sogno, un’Antilope con la testa regale, dorso di ebano, ventre argenteo e risplendenti corna diritte. Accanto ad essa col capo teso al suolo, con i verdi occhi che fiammeggiavano nelle orbite profonde, con la coda irrequieta che frustava l’erba secca, veniva una Tigre, dal ventre gonfio e dalla guancia cascante. Il Toro si accosciò accanto al tempietto, ed ecco balzar fuori dall’oscurità una mostruosa Scimmia grigia, che sedette in posa umana al posto del simulacro crollato; e le stille di pioggia le sgocciolavano come gemme dal pelame del collo e delle spalle. Altre ombre andavano e venivano, alle spalle del cerchio, e fra esse un uomo che brandiva un bordone e una fiasca. Poi un mugghio rauco eruppe da raso terra: «Già adesso la piena diminuisce» gridò. «Di ora in ora l’acqua cala, e il ponte è ancora su!» “Il mio ponte” disse Findlayson fra sé. “Dev’essere un’opera molto antica, ormai. Che c’entrano gli Dèi col mio ponte? ” I suoi occhi si volsero nel buio, guidati dal mugghio. Un Coccodrillo, il Mugger del Gange, dal muso smussato, frequentatore dei guadi, si trascinò fin davanti agli animali, e frustava furiosamente a destra e a sinistra con la coda. «L’hanno costruito troppo forte per me. In tutta questa notte non ho strappato che un pugno di tavole. I muraglioni sono in piedi. Le torri sono in piedi! Hanno imprigionato la mia corrente e il mio fiume non è più libero. O Celesti! Togliete questo giogo, datemi acqua libera fra riva e riva! Sono io, Mamma Gunga, che parlo. Giustizia degli Dèi! Mi appello alla Giustizia degli Dèi!» «Che cosa avevo detto io?» bisbigliò Peroo. «Questo è realmente un punchayet degli Dèi. Ora sappiamo che tutto il mondo è morto, meno voi ed io, sahib.» Di nuovo il Pappagallo stridette e sbatté le ali e la Tigre, con gli orecchi piatti sul cranio, ringhiò malvagiamente. In qualche luogo, nell’oscurità, una grande proboscide e balenanti zanne dondolarono, e un gorgoglio sommesso ruppe il silenzio che era seguito al ringhio. «Siamo qui» disse una voce profonda «noi, i Grandi. Uno solo e moltissimi. Shiv, mio padre, è qui, con Indra. Kali ha già parlato. Anche Hanuman ascolta.»

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«Kashi è senza il suo Kotwal, stanotte» gridò l’uomo dalla fiasca, scagliando il bordone al suolo, mentre l’isola risonava di latrati di cani da caccia. «Datele la Giustizia degli Dèi.» «Voi rimaneste immobili quando essi contaminarono le mie acque» urlò rabbioso il grande Coccodrillo. «Voi non faceste un solo gesto quando il mio fiume fu intrappolato fra i muraglioni. Non ebbi aiuto se non dalla mia forza, e non bastò, la forza di Mamma Gunga non bastò, davanti alle loro torri di guardia. Che cosa potevo fare? Ho fatto di tutto. Completerete ora voi, o Celesti?» «Io ho portato la morte; ho fatto galoppare da una capanna all’altra dei loro operai la malattia maculata, ed essi non smisero.» Un asino macilento, dal naso fesso, azzoppato, con le zampe storte, piagato, si fece innanzi claudicando. «Io ho soffiato su loro la morte dalle mie narici, ma essi non smisero.» Peroo si sarebbe alzato, ma l’oppio pesava su di lui. «Puah!» fece, sputando. «Ecco Sitala in persona… Mata, il vaiolo. Il sahib ha un fazzoletto, per metterselo sulla faccia?» «Aiuto da poco! Mi alimentarono per un mese di cadaveri, e io li scaraventai sulle mie barre di sabbia, ma il loro lavoro procedette. Demoni, sono, e figli di demoni! E voi avete lasciato sola Mamma Gunga a farsi schernire dai loro carri di fuoco. Giustizia degli Dèi sui costruttori di ponti!» Il Toro voltò in bocca il bolo e rispose lentamente: «Se la Giustizia degli Dèi colpisse tutti coloro che scherniscono le cose sacre, ci sarebbero molte are spente nel paese, madre». «Ma questo va oltre lo scherno» disse la Tigre, protendendo la zampa rapace. «Tu lo sai, Shiv, e voi anche, voi anche, Celesti; voi sapete che gli uomini hanno profanato Gunga. Questa cosa è certo di competenza del Distruttore. Giudichi Indra.» Senza il minimo movimento l’Antilope rispose: «Da quanto dura, il male?». «Tre anni, al modo in cui gli uomini contano gli anni» rispose il Mugger appiattito al suolo. «Madre Gunga muore dunque in un anno, che è tanto ansiosa di avere oggi stesso vendetta? Ancora ieri dove essa scorre c’era il mare, e nuovamente il mare la coprirà domani, secondo il modo che hanno gli Dèi di contare ciò che gli uomini chiamano tempo. Chi può dire che questo loro ponte duri sino a domani?» disse l’Antilope. Ci fu un lungo silenzio e, placatosi il temporale, la luna piena apparve alta sopra gli alberi stillanti. «Giudicate voi, dunque» disse torvo il Fiume. «Io ho detto la mia vergogna. La mia piena continua a calare. Io non posso fare di più.» «Per parte mia» parlava la grande Scimmia seduta nel tempietto «mi piace

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molto osservare codesti uomini, ricordando che anch’io costruii un ponte che non era da nulla, quando il mondo era giovane.» «Si dice, anche» ringhiò la Tigre «che codesti uomini provengano dalla rovina delle tue schiere, Hanuman, e che perciò tu hai aiutato…» «Essi faticano come le mie schiere faticarono a Lanka, e credono che la loro fatica durerà. Indra sta troppo in alto, ma tu, Shiv, sai come i loro carri di fuoco seguino tutto il paese.» «Sì, lo so» disse il Toro. «Su questo argomento i loro Dèi li istruiscono.» Una risata corse tutto intorno. «I loro Dèi! Che cosa vuoi che sappiano, i loro Dèi? Sono nati ieri e coloro che li crearono non sono ancora freddi» disse il Mugger. «Domani i loro Dèi saranno morti.» «Oh!» disse Peroo. «Madre Gunga parla bene. Io ho detto la stessa cosa al padre sahib che predicava sul Mombasa, e lui chiese al Burra Malum di mettermi ai ferri per grave insolenza.» «Ma se fanno queste cose è certo per piacere ai loro Dèi» riprese il Toro. «Niente affatto» asserì con enfasi l’Elefante. «È a profitto dei miei mahajum, dei miei grassi usurai che mi venerano ad ogni anno nuovo, quando disegnano la mia immagine in testa ai loro registri. Io, guardando da sopra la loro spalla alla luce della lampada, vedo che i nomi nei registri sono di persone in luoghi lontani. Ché tutte le città sono riunite dal carro di fuoco e il denaro viene e va rapidamente e i registri diventano grossi… come me. Ed io, che sono Ganesh della Buona Fortuna, io benedico le mie genti.» «Essi hanno mutato il volto del paese, che è il mio paese. Hanno ucciso e creato nuove città sulle mie rive» disse il Mugger. «Non è che lo spostamento di un po‘ di fango. Lasciate che il fango scavi nel fango, se così piace al fango» disse l’Elefante. «Ma poi?» disse la Tigre. «Poi essi vedranno che Mamma Gunga non può vendicare gli insulti e dapprima trascureranno lei e poi tutti noi, uno dopo l’altro. Alla fine, Ganesh, noi resteremo con gli altari nudi.» L’Uomo ubriaco si alzò barcollando, con un violento singulto in faccia all’assemblea degli Dèi. «Kali mentisce. Mia sorella mentisce. Questo mio bordone, inoltre, è il Kotwal di Kashi e le tacche segnate tengono conto dei miei pellegrini. Quando è tempo di venerare Bhairon (ed è sempre tempo) i carri di fuoco si muovono ad uno ad uno e ciascuno trasporta mille pellegrini. Questi non vengono più a piedi ma correndo sulle ruote, e la mia gloria è fatta più grande.» «Gunga, a Pryag io ho visto il tuo letto nero di pellegrini» disse la Scimmia, protendendosi «e se non fosse stato per il carro di fuoco sarebbero venuti più lentamente e meno numerosi. Ricorda.» «Essi vengono a me sempre» continuò Bhairon con voce impastata. «Mi prega

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giorno e notte, la Gente Comune dei campi e delle strade. Chi è simile a Bhairon, oggi? Che cosa sono queste ciarle di credenze che cambiano? Il mio bastone è il Kotwal di Kashi per nulla? Esso tiene i conti e dice che non ci sono mai stati tanti altari quanti ce ne sono oggi e che il carro di fuoco li serve bene. Bhairon, io sono. Bhairon della Gente Comune e il supremo fra i Celesti di oggi. E dice inoltre, il mio bordone…» «Silenzio, tu!» muggì il Toro. «La venerazione delle scuole è mia, e vi si parla con grande dottrina, e ci si chiede se io sia uno o molti, secondo il desiderio della mia gente, e voi sapete che cosa io sia. Kali, moglie mia, anche tu lo sai.» «Sì, lo so» disse la Tigre, che abbassò il capo. «Io sono, anche, più grande di Gunga. Poiché voi sapete chi mosse l’animo degli uomini a ritenere Gunga un fiume sacro fra tutti. Chi muore in quell’acqua (voi sapete come dicono gli uomini) viene a noi senza punizione, e Gunga sa che il carro di fuoco ha portato a lei folle e folle di uomini ansiosi di questo; e Kali sa di avere solennizzato le sue più grandi feste in mezzo ai pellegrinaggi alimentati dai carri di fuoco. A Poree, sotto l’immagine che vi si trova, chi se ne falciò delle migliaia in un giorno e una notte e legò la malattia alle ruote dei carri di fuoco, affinché corresse da un capo all’altro del paese? Chi, se non Kali? Prima che ci fosse il carro di fuoco, questa era una gran fatica. I carri di fuoco ti hanno servito bene, Madre della Morte. Ma parlo per i miei altari, io, che non sono Bhairon della Gente Comune, ma Shiv. Gli uomini vanno e vengono, fabbricando parole e favoleggiando di strani Dèi, ed io ascolto. Credenza segue a credenza tra la mia gente delle scuole, ed io non me ne adonto; poiché, quando le parole sono state dette e la nuova favola è finita, gli uomini per ultimo tornano a Shiv.» «Vero. È vero» mormorò Hanuman. «A Shiv e agli altri, madre, essi tornano. Io mi propago di tempio in tempio, nel nord, dove essi venerano un Dio solo e il Suo Profeta; e la mia immagine non tarda ad essere la sola nei loro templi.» «C’è poco da ringraziarti» disse l’Antilope, volgendo lentamente il capo. «Io sono quell’Uno ed anche il Suo Profeta.» «Proprio così, padre» disse Hanuman. «E al sud vado io, che sono il più antico degli Dèi, secondo il modo in cui gli uomini conoscono gli Dèi, e tosto tocco gli altri della nuova fede e la Donna che noi conosciamo è scolpita con dodici braccia e ancora lo chiamano Maria.» «C’è poco da ringraziarti, fratello» disse la Tigre. «Io sono quella Donna.» «Proprio così, sorella; e vado ad ovest tra i carri di fuoco e mi presento ai costruttori di ponti in molte forme, e per me mutano le loro fedi e sono molto saggi. Ah! Ah! Io, in verità, sono il costruttore di ponti, ponti fra questo e quello, e ogni ponte porta inevitabilmente a Noi, per ultimo. Accontentati, Gunga. Né questi uomini, né quelli che li seguono ti scherniscono

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minimamente.» «Io sono sola, dunque, o Celesti? Ho da affrettarmi ad attenuare la mia piena che, per sventura, non mi capiti di trascinare via le loro muraglie? Indra intende inaridire le mie sorgenti tra i monti e farmi strisciare umilmente fra le loro scarpate? Debbo seppellirmi nella sabbia, prima ch’io rechi danno?» «E tutto ciò a causa di una sottile verga di ferro col carro di fuoco sopra. In verità, Mamma Gunga è sempre giovane!» disse Ganesh, l’Elefante. «Un bambino non avrebbe parlato più scioccamente. Lascia che il fango scavi il fango prima di tornar fango. Io so soltanto che la mia gente si arricchisce e mi loda. Shiv ha detto che gli uomini delle scuole non dimenticano; Bhairon è soddisfatto della sua Gente Comune; e Hanuman ride.» «Certo che rido» disse la Scimmia. «I miei altari sono pochi accanto a quelli di Ganesh o di Bhairon, ma i carri di fuoco mi portano nuovi adoratori che vengono di là dall’Acqua Nera: gli uomini che credono loro dio la fatica. Io corro davanti a loro facendo cenno, ed essi seguono Hanuman.» «Da‘ loro la fatica che desiderano, allora» disse il Fiume. «Forma una barra di sabbia attraverso la mia piena e respingi l’acqua addosso al ponte. Un tempo a Lanka tu fosti forte, Hanuman. Chinati e solleva il mio letto.» «Chi dà vita può togliere vita.» La Scimmia grattò nella mota col lungo indice. «Eppure, chi avrebbe vantaggio dallo sterminio? Sarebbero moltissimi a morire.» Dalla parte dell’acqua salì un frammento di canzone amorosa, una di quelle che i giovani cantano custodendo l’armento nelle calure meridiane della tarda primavera. Il Pappagallo gridò gioiosamente, spingendosi lateralmente lungo il ramo a testa bassa, via via che il canto si faceva più forte, e in una chiazza del chiar di luna apparve il giovane pastore, il beniamino dei Gopis, l’idolo delle fanciulle sognanti e delle madri in attesa di figli: Krishna, il Beneamato. Egli si curvò per annodare i suoi lunghi capelli umidi e il Pappagallo svolazzò fin sulla sua spalla. «Girovagare e cantare, cantare e girovagare» disse con un singulto Bhairon. «Questo ti fa giungere tardi al concilio, fratello.» «E allora?» disse Krishna, con una risata, gettando indietro il capo. «Poco potete fare senza di me o senza il nostro Karma.» Accarezzò il piumaggio del Pappagallo e rise di nuovo. «Perché siete qui adunati a parlare? Ho udito rumoreggiare nel buio Mamma Gunga e perciò mi sono affrettato a venire, da una capanna dove stavo nel tepore. E che cosa avete fatto a Karma che è così bagnato e silenzioso? E che cosa fa qui Mamma Gunga? Sono forse colmi i cieli, che dovete venire sguazzando nel fango come le bestie? Karma, che cosa stanno facendo?» «Gunga ha invocato vendetta sui costruttori di ponti, e Kali è dalla sua. Ora essa chiede a Hanuman di inghiottire il ponte, affinché il suo onore sia

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grande» strillò il Pappagallo. «Ho atteso qui, sapendo che saresti venuto, o mio signore!» «Ed i Celesti non hanno detto nulla? Gunga e la Madre dei Dolori li hanno ridotti al silenzio? Nessuno ha parlato in favore del mio popolo?» «Ma sì» disse Ganesh, appoggiandosi imbarazzato ora su un piede ora sull’altro; «io ho detto che si trattava soltanto di fango che gioca, perché dunque dovremmo calpestarlo e schiacciarlo?» «Io mi sono dichiarato contento di lasciarli faticare, molto contento» disse Hanuman. «Come c’entravo io con la collera di Gunga?» disse il Toro. «Io sono Bhairon della Gente Comune, e questo mio bastone è il Kotwal di tutta Kashi. Io ho parlato a favore della Gente Comune.» «Tu?» Gli occhi del giovane Dio lampeggiarono. «Non sono forse il primo fra gli Dèi, sulle loro labbra oggi?» ribatté Bhairon imperterrito. «Per amore della Gente Comune io ho detto… moltissime cose sagge che ora ho dimenticate… ma questo mio bordone…» Krishna si volse spazientito, scorse il Mugger ai suoi piedi, e inginocchiatosi gli passò un braccio intorno al collo diaccio. «Madre» disse con dolcezza «torna alla tua piena. Queste cose non sono per te. Qual danno potrebbe arrecare al tuo onore codesto fango vivente? Di anno in anno tu hai rinnovato i loro campi, e la tua piena li ha resi forti. Alla fine verranno tutti a te. Quale bisogno c’è di ucciderli ora? Abbi pietà, madre, per poco… è solo per poco.» «Se è solo per poco…» cominciò l’ottusa bestia. «Sono forse Dèi?» replicò Krishna con un riso e con gli occhi fissi negli occhi del fiume. «Sii certa che è solo per poco. I Celesti ti hanno ascoltata e presto giustizia sarà fatta. Ora, Madre, ritorna alla piena. Le acque sono fitte di uomini e bestiame, le rive crollano, i villaggi si sfasciano per opera tua.» «Ma il ponte, il ponte è in piedi.» Il Mugger strisciò grugnendo nel sottobosco, mentre Krishna si rialzava. «È finita» disse la Tigre, indispettita. «Non c’è più giustizia da parte dei Celesti. Avete fatto, di Gunga, vergogna e trastullo, eppure chiedeva appena qualche decina di vite…» «Della mia gente, che riposa sotto i tetti di foglie del villaggio laggiù; delle fanciulle, e dei giovani che cantano per le fanciulle nel buio; del bambino che nascerà il prossimo mese; di quello che è stato concepito stanotte» disse Krishna. «E quando tutto fosse fatto, qual pro? Il domani li rivedrà all’opera. Sì, spazzassimo pur via il ponte dall’una all’altra cima, ricomincerebbero di nuovo. Ascoltami! Bhairon è sempre ubriaco. Hanuman beffa la sua gente con i nuovi enigmi.» «Macché, sono antichissimi» disse la Scimmia ridendo. «Shiv ascolta i discorsi delle scuole e i sogni dei santoni; Ganesh non pensa che ai suoi grassi

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trafficanti; ma io… io vivo con questa mia gente, senza chiedere doni; e perciò ricevendone ad ogni ora.» «E sei pure molto tenero con la tua gente» disse la Tigre. «È mia. Le vecchie mi sognano, rigirandosi nel sonno; le ragazze spiano e porgono l’orecchio se mai io sia presente quando vanno a riempire i loro lotah al fiume. Io cammino fra i giovani che attendono fuori della porta al crepuscolo, e oltre la spalla mando una voce alle barche bianche. Voi sapete, o Celesti, che, fra tutti noi, io solo cammino di continuo sulla terra e i vostri cieli non hanno attrattive per me, finché qui spunta una foglia verde o nel crepuscolo ci sono due voci fra le messi ancora ritte. Voi siete saggi, ma vivete assai lontani, dimenticando donde proveniste. Così invece io non dimentico. I carri di fuoco alimentano i vostri templi, voi dite? I carri di fuoco portano mille pellegrini là dove in passato ne venivano solo dieci? Vero. Questo è vero, oggi.» «Ma domani saremo morti, fratello» disse Ganesh. «Silenzio!» disse il Toro, poiché Hanuman si protendeva di nuovo. «E domani, amato, che ne sarà del domani?» «Solo questo. Una parola nuova propagantesi lentamente di bocca in bocca fra la Gente Comune, una parola di cui né uomo né Dio può impadronirsi, una parola funesta, una indolente paroletta tra quelli della Gente Comune, e dirà (senza che alcuno sappia chi primo ha messo in giro la voce) che sono stanchi di voi, o Celesti.» Gli Dèi risero tutti insieme, piano. «E poi, amato?» dissero. «E per nascondere quella stanchezza, essi, la mia gente, dapprima porteranno a te, Shiv, e a te, Ganesh, offerte più grandi e un più alto clamore di venerazione. Ma la parola si sarà diffusa e, in seguito, pagheranno minori tributi ai vostri grassi bramini. Quindi dimenticheranno i vostri altari; però con tanta lentezza che nessuno saprà dire come sia cominciato il loro oblio.» «Lo sapevo, lo sapevo! Io ho detto le stesse cose, ma non hanno voluto darmi ascolto» disse la Tigre. «Avremmo dovuto uccidere, avremmo dovuto uccidere!» «È troppo tardi, adesso. In principio, avreste dovuto uccidere, prima che gli uomini venuti da oltre il mare insegnassero qualcosa ai nostri. Ora la mia gente vede l’opera loro e se ne va pensosa. Non pensa affatto ai Celesti. Pensa al carro di fuoco e alle altre cose fatte dai costruttori di ponti, e quando i vostri preti tendono la mano chiedendo oboli, la gente dà poco, di malavoglia. Questo è l’inizio, fra uno o due o cinque o dieci uomini… perché io che cammino in mezzo alla mia gente, so che cosa c’è nel suo cuore.» «E la fine, Canzonatore degli Dèi? Quale sarà la fine?» domandò Ganesh. «La fine sarà come il principio, o pigro figlio di Shiv! La fiamma si spegnerà sulle are e la preghiera sulle labbra, finché non diverrete piccoli Dèi di nuovo,

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Dèi della giungla, nomi sussurrati nella boscaglia e nelle caverne, dai cacciatori di topi e dagli accalappiacani: feticci, idoletti nel cavo dell’albero, insegna di villaggio, come eravate alle origini. Ecco la tua fine, Ganesh, e la tua, Bhairon… Bhairon della Gente Comune.» «È una cosa molto lontana» brontolò Bhairon. «Inoltre, è una bugia.» «Molte donne hanno baciato Krishna. Tutto ciò glielo hanno raccontato loro, per confortarsi il cuore all’arrivo dei capelli grigi, ed egli ha raccontato a noi la stessa favola» disse il Toro a mezza voce. «I loro Dèi sono venuti e li abbiamo trasformati. La Donna, l’ho presa e le ho dato dodici braccia. Così traviseremo tutti i loro Dèi» disse Hanuman. «I loro Dèi! Qui non si tratta dei loro Dèi, uno o trino, maschio o femmina. Si tratta della gente. Essa si muove, non gli Dèi portati dai costruttori di ponti» disse Krishna. «Così sia. A un uomo, io ho fatto rivolgere preghiere al carro di fuoco, fermo e fumante; e quell’uomo non sapeva di adorare me» disse Hanuman, la Scimmia. «Essi cambieranno un po‘ nome ai loro Dèi, solamente. Io guiderò i costruttori di ponti come sempre; Shiv sarà venerato nelle scuole da quelli che dubitano e disprezzano i propri simili; Ganesh avrà i suoi mahajun e Bhairon gli asinai, i pellegrini, i venditori di giocattoli. Beneamato, essi non faranno altro che cambiare i nomi; ed è cosa che abbiamo veduto mille volte.» «Certo non faranno altro che cambiare i nomi» fece eco Ganesh; «ma fra gli Dèi correva un moto di inquietudine.» «Cambieranno più che i nomi. Solo me non possono uccidere, finché la fanciulla e l’uomo si incontrano, finché la primavera segue alle piogge dell’inverno. Celesti, non per nulla ho camminato sulla terra. La mia gente non sa ancora ciò che sa; ma io, che vivo con essa, leggo nel suo cuore. Grandi Re, è già cominciato il principio della fine. I carri di fuoco gridano i nomi di nuovi Dèi, che non sono i vecchi sotto nomi nuovi. Ora, bevete e mangiate assai! Bagnate i vostri volti nel fumo delle are, prima che diventino fredde! Raccogliete i tributi e porgete orecchio ai cimbali e ai tamburi, Celesti, finché ci sono ancora fiori e canti. Nel modo in cui gli uomini misurano il tempo, la fine è ancora molto lontana; come sappiamo calcolarlo noi, la fine è oggi. Ho detto.» Il giovane Dio tacque, e a lungo i suoi fratelli rimasero a guardarsi l’un l’altro in silenzio. «Questa mi torna nuova» bisbigliò Peroo all’orecchio del suo compagno. «Però a volte, lubrificando le bronzine nella sala macchine del Goorkha, mi sono chiesto se i nostri preti fossero tanto sapienti… tanto sapienti. Viene giorno, sahib. Col mattino spariranno.» Una luce gialla si allargò nel cielo, e il timbro del fiume mutò col ritirarsi delle tenebre.

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D’improvviso l’Elefante strombazzò forte come se un uomo lo avesse pungolato. «Che Indra giudichi. Padre di tutti, parla tu! Che cosa ne pensi di quanto abbiamo udito? Krishna ha mentito realmente? Oppure…» «Voi sapete» disse l’Antilope alzandosi. «Voi sapete l’enigma degli Dèi. Quando Brahm cessa di sognare, i Cieli e gli Inferi e la Terra scompaiono. State tranquilli. Brahm sogna ancora. Krishna ha camminato troppo a lungo sulla terra, eppure lo amo ancora di più per la favola raccontata. Gli Dèi cambiano, beneamato, tutti, salvo Uno!» «Sì, tutti salvo uno che mette amore nel cuore degli uomini» disse Krishna, annodando la cintura. «Basta aspettare un poco, e saprete se ho mentito.» «Basta aspettare un poco, in verità, come tu dici, e noi tutti sapremo. Torna alle tue capanne, beneamato, e reca gioia ai giovani, perché Brahm sogna ancora. Andate, figli miei! Brahm sogna. E fino al Suo risveglio, gli Dèi non muoiono.» «Da dove se ne sono andati?» disse il lascar, sbalordito, rabbrividendo un poco per il freddo. «Lo sa Dio!» disse Findlayson. Ora il fiume e l’isola erano nella piena luce del giorno e non vi era impronta di zoccoli, o orma di belva, nella terra molle sotto il peepul. Soltanto un pappagallo strillava fra i rami, facendo cadere rovesci di gocce d’acqua nell’agitare le ali. «Su! Siamo intirizziti dal freddo! È passato l’effetto dell’oppio? Potete muovervi, sahib?» Findlayson si alzò barcollando e si scrollò. La testa gli vacillava e gli doleva, ma l’azione dell’oppio era cessata, ed essendosi bagnata la fronte in una pozza, l’ingegnere Capo del Ponte di Kashi si chiese come era arrivato all’isola, quali probabilità di ritorno recasse il giorno e, soprattutto, come stava la sua opera. «Peroo, ho dimenticato molte cose. Ero al piede della torre di guardia ad osservare il fiume; e poi… Ci ha travolti l’inondazione?» «No. Le barche hanno strappato gli ormeggi, sahib, e» (se il sahib aveva dimenticato l’oppio, Peroo era deciso a non ricordarglielo) «mentre si tentava di ormeggiarle di nuovo, mi è parso, ma era buio, che un cavo colpisse il sahib e lo rovesciasse in una barca. Dato che noi due, con Hitchcock sahib, abbiamo, si può dire, costruito il ponte, saltai anch’io nella barca, che è venuta di galoppo, si può dire, alla punta di quest’isolotto e, andando in pezzi, ci ha buttati a riva. Ho gridato forte quando la barca lasciò la banchina e senza dubbio Hitchcock sahib verrà a cercarci. Quanto al ponte, è morta tanta gente nel costruirlo, che non può cadere.» Un sole feroce, che estraeva tutto l’odore della terra acquitrinosa, era succeduto alla tempesta, e in quella luce chiara non c’era posto per ripensare

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ai sogni delle tenebre. Findlayson guardava fisso a monte, oltre l’abbaglio dell’acqua in movimento, fino a farsi dolere gli occhi. Non si scorgeva traccia delle sponde del Gange, e tanto meno della linea di un ponte. «Siamo scesi parecchio» disse. «È un miracolo che non siamo annegati cento volte.» «È la parte minore del miracolo, poiché nessuno muore prima del suo tempo. Io ho visto Sydney, ho visto Londra e venti grandi porti, ma» Peroo guardò il tempietto bagnato e stinto sotto il peepul «non v’è uomo che abbia visto ciò che qui abbiamo visto.» «Che cosa?» «Il sahib ha dimenticato, oppure soltanto noi neri vediamo gli Dèi?» «Avevo un accesso di febbre.» Findlayson continuava a spingere lo sguardo ansiosamente sulle acque. «Mi è parso che l’isola fosse piena di bestie e uomini che parlavano, ma non rammento. In quest’acqua, adesso, una barca può rimanere a galla, mi pare.» «Oh, oh! Allora è vero. Se Brahm cessa di sognare, gli Dèi muoiono! Adesso so, veramente, ciò che voleva dire. Una volta, anche, me lo aveva detto il guru; ma allora non capii. Adesso ho imparato.» «Che cosa?» disse Findlayson senza voltarsi. Peroo proseguì come parlando a se stesso: «Sei… sette… dieci monsoni fa, ero di guardia sul castello di prua del Rewah, la nave più importante della Kùmpani, e c’era un grande tufàn, l’acqua verde e nera ci sbatteva; ed io mi tenevo forte al passerino, boccheggiando sotto le ondate. Allora pensai agli Dèi, a Coloro che vedemmo stanotte» e scrutò con curiosità il dorso di Findlayson, ma il bianco spingeva lo sguardo sulla piena. «Sì, dico, a Coloro che vedemmo la scorsa notte, e Li invocai, che mi proteggessero. E mentre pregavo, sempre stando in vedetta, venne un maroso e mi scaraventò avanti sull’anello della grande ancora nera di prua, ed il Rewah salì, sempre più in su, facendo una sbandata a sinistra, e l’acqua si ritirò da sotto l’estrema prora, ed io rimasi steso sulla pancia, afferrato all’anello, e guardando giù in quelle grandi profondità. Allora pensai, di faccia alla morte stessa, che se mollavo morivo, e per me né il Rewah, né il mio posto accanto alla cambusa dove si cuoce il riso, né Bombay, né Calcutta, neppure Londra, sarebbero più esistiti per me. “Come posso essere certo” dissi “che gli Dèi ai quali rivolgo la mia preghiera se ne preoccuperanno minimamente?” Questo pensai, ed il Rewah si abbatté con l’estrema prora come cade un martello, e tutto il mare venne a bordo e mi trascinò all’indietro lungo il castello di prua e dall’alto di questo in coperta, e mi ammaccai malamente uno stinco contro la macchina del verricello: ma non sono morto ed ho visto degli Dèi. Sono buoni per i viventi, ma per i morti… L’hanno dichiarato Essi stessi. Perciò, quando arrivo al villaggio, picchierò il guru che va cantando enigmi che non sono enigmi.

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Quando Brahm smette di sognare, gli Dèi se ne vanno.» «Guarda a monte. La luce acceca. Non c’è un fumo, laggiù?» Peroo fece solecchio con le mani. «Che uomo accorto e pronto! Hitchcock sahib non si è fidato di una barca a remi. Si è fatto prestare la lancia a vapore del Rao sahib e viene a cercarci. Io ho sempre detto che in cantiere occorreva una lancia a vapore.» Il territorio del Rao di Baraon era a sedici chilometri dal ponte; buona parte dello scarso tempo libero, Findlayson e Hitchcock l’avevano trascorsa giocando a biliardo o andando a caccia di antilopi nere con il giovane principe. Questi era stato affidato per cinque o sei anni a un istitutore inglese di gusti sportivi, ed ora stava regalmente dilapidando le rendite accantonate durante la sua minore età dal Governo indiano. La sua lancia a vapore, con la battagliola argentata, la tenda di seta a strisce e i ponti di mogano, era un nuovo trastullo che Findlayson si era molto infastidito di avere fra i piedi allorché il Rao veniva in visita al cantiere. «Gran fortuna» mormorò Findlayson, ma era ugualmente pieno di paura, chiedendosi che nuove potessero esserci del ponte. Lo sgargiante fumaiolo bianco e azzurro si avvicinava a vista d’occhio scendendo la corrente. I due uomini videro Hitchcock a prua, armato di binocolo, col viso eccezionalmente pallido. Allora Peroo gettò un grido e la lancia fece prua sull’isolotto. Il Rao sahib, in tenuta da caccia di tweed e turbante di sette colori, agitò la sua regale mano, e Hitchcock gridò. Ma non ebbe bisogno di chiedere nulla, perché la prima domanda di Findlayson fu per il suo ponte. «Tutto bene! Dio. non speravo più di rivedervi, Findlayson. Siete sette koss12 a valle. Sì, non si è mossa una pietra, in nessun punto; ma come state? Mi sono fatto prestare la lancia dal Rao sahib, il quale ha avuto la bontà di venire con noi. Saltate a bordo.» «Ah, Finlinson, state proprio bene, eh? Era un flagello senza precedenti la notte scorsa, eh? Il mio palazzo reale, anche lui, fa un’acqua del diavolo, e pure il raccolto sarà scarso su tutto il mio territorio. Ora la ricondurrete indietro voi, Hitchcock. Io… io non m’intendo di macchine a vapore. Siete bagnato? Avete freddo, Finlinson? Ho delle cose da mangiare, qui, dovete bere un buon bicchiere di qualcosa.» «Vi sono immensamente grato, Rao sahib. Credo che mi abbiate salvato la vita. Come ha fatto Hitchcock…» «Oh, oh! Aveva i capelli ritti. Venne da me a cavallo nel mezzo della notte e mi tolse dalle braccia di Morfeo. Ero molto sinceramente preoccupato, Finlinson, è così sono venuto anch’io. Il sommo sacerdote in questo preciso istante è arrabbiatissimo. Bisogna che andiamo presto, signor Hitchcock. Per

12 Misura indiana di lunghezza variante fra i 2,5 e i 5 km (N.d.T.).

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le dodici e quarantacinque debbo essere al tempio di Stato, dove consacriamo non so quale nuovo idolo. Se non fosse per questo, vi avrei pregato di passare la giornata con me. Sono seccature maledette, queste cerimonie religiose, Finlinson, eh?» Peroo, ben noto all’equipaggio, si era impossessato della barra e governava abilmente contro corrente. Ma nel governare, mentalmente maneggiava mezzo metro di cavo metallico sfilacciato; e la schiena su cui picchiava era quella del suo guru.

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Herbert George Wells

IL PAESE DEI CIECHI (The Country of the Blind, 1899)

H.G. Wells (1866-1946) è il più straordinario inventore di storie di quella straordinaria epoca della letteratura mondiale che si è svolta a cavallo dei due secoli. L’inventiva e l’esattezza della sua immaginazione (che ne hanno fatto tra l’altro uno dei padri della fantascienza) erano servite da una scrittura trasparente e scorrevole, e nutrite da una morale acuta e ferma e chiara. Molti dei suoi racconti possono figurare in primo piano in un’antologia dedicata al fantastico invisibile, mentale, che germoglia dalle immagini della vita quotidiana. Ma non mi è sembrato giusto rinunciare a un racconto che è invece tra i più “spettacolari” che egli scrisse, e certo uno dei suoi capolavori. Il paese dei ciechi è un grande apologo morale e politico, degno di stare vicino a Swift, una meditazione sulla diversità culturale e sulla relatività d’ogni pretesa d’essere superiore. Nelle Ande equatoriali, un villaggio di Indios è rimasto isolato dal resto del mondo per alcune generazioni. Sono tutti ciechi. I bambini nascono ciechi, gli ultimi vecchi che avevano goduto della vista sono morti; ormai tutti hanno perduto la memoria di cosa significa vedere; le case sono senza finestre, senza colori, senza luci. Dal mondo di fuori arriva un uomo; lo credono un menomato, che non è in grado di fare le cose che loro fanno, e dice cose senza senso. L’uomo pensa di diventare il loro re, come dice il proverbio dell’orbo al paese dei ciechi. Ma il proverbio sbaglia: al paese dei ciechi chi non ci vede è più forte di chi ci vede…

Nella parte più deserta e selvaggia delle Ande ecuadoriane, a oltre quattrocentocinquanta chilometri da Chimborazo, a centocinquanta dalle nevi del Cotopaxi, sta quella misteriosa valle montana che è il paese dei ciechi, completamente segregata dal mondo abitato. Molti e molti anni fa, la vallata era in comunicazione con il resto del mondo, almeno quel tanto che avrebbe potuto consentire agli uomini di raggiungerne, per gole spaventose e oltre valichi ghiacciati, i prati temperati; e infatti alcuni vi giunsero, una famiglia, o giù di lì, di meticci peruviani che fuggivano l’oppressione e l’ingordigia di un malvagio governante spagnolo. Poi ci fu la sbalorditiva eruzione del Mindobamba, quando Quito rimase immersa nelle tenebre per diciassette giorni, e a Yaguachi le acque bollirono, facendo venire a galla i pesci morti fino a Guayaquil. Ovunque, sul versante del Pacifico, ci furono frane sui pendìi, repentini disgeli, improvvise inondazioni, ed un intero fianco della vecchia cima dell’Arauca slittò e venne giù con rumore di tuono, chiudendo per sempre l’accesso del paese dei ciechi all’intraprendente piede

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dell’uomo. Nel momento del tremendo cataclisma, uno di quei coloni s’era per caso trovato di qua dalle gole; per forza di cose, dovette rinunciare a moglie, figli, amici, beni, lasciati lassù, e ricominciare una nuova vita nel mondo sottostante. La ricominciò; ma la malattia, cioè la cecità, lo colse e poi egli morì ai lavori minerari, ove scontava una pena. Però la storia che aveva raccontato fece nascere una leggenda che ancor oggi sopravvive lungo la cordigliera delle Ande. Egli spiegava perché si fosse avventurato a rifar la strada in senso inverso, allontanandosi da quella rocca fra i monti, nella quale era giunto la prima volta bambino, legato sul dorso di un lama dietro un’immensa balla di masserizie. C’era nella valle, egli diceva, tutto ciò che un uomo può desiderare di meglio: acqua dolce, pascoli, un clima uniforme, pendìi di terra scura e fertile, con macchioni di un arbusto che produceva un ottimo frutto; su un lato, incombevano grandi foreste di pini che tenevano lontane le valanghe. Molto in su, da tre lati, enormi strapiombi di roccia grigia erano incappucciati da alti nevai; ma il corso d’acqua che usciva dal ghiacciaio andava dall’altra parte, e solo di rado cadevano a valle enormi valanghe. Non pioveva né nevicava, nella vallata; ma le copiose sorgenti fornivano ricchi pascoli erbosi, che l’irrigazione poteva estendere a tutta l’area della valle. Gli immigrati vi si trovarono assai bene. Le loro bestie vi si trovarono bene, e si moltiplicarono. Una sola cosa offuscava la loro contentezza; ma bastava ad offuscarla gravemente. Un male strano li aveva assaliti, colpendo di cecità tutti i figli che avevano avuto lassù, ed anzi colpendo anche alcuni dei maggiori. Egli aveva ridisceso le gole, a prezzo di fatica, difficoltà e pericoli, appunto per cercare un antidoto o un talismano contro quella cecità. A quei tempi, in casi del genere, gli uomini non pensavano a bacilli e infezioni, bensì a peccati, e a lui era sembrato che il motivo di quella piaga dovesse risiedere nella negligenza di quegli immigrati senza prete, che non avevano costruito una cappelletta appena penetrati nella valle. Voleva che vi si costruisse una cappelletta, piccola, rudimentale, ma in piena regola; voleva reliquie ed altri strumenti di fede consimili e potenti, oggetti benedetti, medaglie misteriose, preghiere. Aveva nel borsellino una sbarra di argento grezzo, sulla quale non volle dare spiegazioni; insistette a dire che non vi era argento nella valle, con una insistenza un po‘ da bugiardo maldestro. Loro avevano riunito, diceva, tutto il denaro e tutti i monili, non avendone proprio bisogno lassù, per comperarsi l’ausilio del cielo contro il loro male. Mi par di vederlo, questo giovane montanaro debole di vista, bruciato da sole, scarno, ansioso, che stringe febbrilmente tra le mani la tesa del cappello, mentre, del tutto digiuno com’era degli usi del basso mondo, racconta tutto ciò a un prete attento, dall’occhio penetrante, prima del grande cataclisma; me lo raffiguro mentre subito se ne torna, con pii e infallibili rimedi contro il malanno, e immagino la

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sua infinita angoscia nel trovarsi di fronte l’immensità della frana là dove una volta sboccava la gola d’accesso. Ma la storia delle sue ulteriori sventure mi è ignota, salvo per quanto riguarda la sua brutta morte dopo parecchi anni. Povero sbandato di quelle lontananze! Il torrente che un tempo aveva formato la gola sgorga adesso da un antro di roccia, e la leggenda messa in circolazione dal suo racconto misero e stentato è diventata quella dell’esistenza di una razza di ciechi, da qualche parte “lassù”, che ancor oggi si ode raccontare. E tra la sparuta popolazione di quella valle ormai isolata e dimenticata, la malattia seguì il suo corso. I vecchi, diventati mezzo ciechi, andarono a tastoni, i giovani ci videro appena, e i figli che misero al mondo non ci videro affatto. Ma la vita era molto facile in quella conca orlata di nevi, ignota al mondo intero, priva di spine e rovi, senza insetti nocivi né animali all’infuori dei miti lama delle mandrie ch’essi avevano tirato, spinto, seguito su per il letto angusto dei corsi d’acqua, in fondo alle gole attraverso le quali eran saliti. A quelli che ci vedevano, la vista si era abbassata per gradi, tanto che quasi non si accorsero della perdita. Avevano guidato i ragazzi privi della vista, qua, là, ovunque, tanto che questi conobbero tutta la valle a meraviglia; e quando l’ultimo residuo di vista si spense, tra loro, la razza sopravvisse. Avevano persino fatto in tempo ad adattarsi per adoperare il fuoco alla cieca, accendendolo cautamente in forni di pietra. All’inizio erano una stirpe di gente semplice, analfabeta, appena sfiorata dalla civiltà spagnola, ma nella quale sussisteva ancora un poco la tradizione artistica e la filosofia perduta dell’antico Perù. Una generazione seguì all’altra. Essi dimenticarono parecchie cose, altre ne escogitarono. La tradizione dell’esistenza d’un più vasto mondo, dal quale erano venuti, si fece vaga, prese color di mito. Tranne che nella vista, erano, in tutto il resto, forti ed abili, e non tardò che, al caso delle nascite e dell'ereditarietà, comparve tra loro un individuo d’intelletto originale, dotato di parola persuasiva, poi un altro ancora. Anche dopo la morte di quei due ne restò il segno, e intanto la piccola comunità cresceva di numero e d’intelligenza, sistemava i problemi sociali ed economici man mano che si presentavano. A un certo punto nacque un bambino che aveva un salto di quindici generazioni tra sé e quell’avo ch’era uscito dalla valle con una sbarra d’argento per andare a procacciarsi l’aiuto di Dio, non facendo più ritorno. E allora accadde che, dal mondo esterno, un uomo capitò in seno alla comunità. Questa è la sua storia. Era un montanaro del territorio nei pressi di Quito, un uomo che era sceso fino al mare e aveva visto il mondo, che leggeva libri a suo modo: un uomo intraprendente, e di mente acuta. Una spedizione alpinistica inglese, venuta a scalar montagne nell’Ecuador, l’aveva assunto in sostituzione di una delle tre guide svizzere, che si era ammalata. Si arrampicò qua, si arrampicò là, e

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infine venne il tentativo di scalare il Parascotopetl, ch’è il Cervino delle Ande, nella qual occasione il mondo di fuori lo diede per disperso. Le relazioni scritte, sulla sciagura, furono una dozzina o più. La migliore è quella di Pointer. Racconta come la spedizione, superando numerose difficoltà, riuscì ad arrampicarsi quasi verticalmente proprio fino al piede dell’ultimo e maggiore strapiombo, e qui, su una piccola sporgenza di roccia, si preparò un bivacco per la notte. Racconta anche, non senza un tocco di vera potenza drammatica, come a un tratto si accorsero che Nuñez non era più con loro. Gridarono, e non ebbero risposta. Continuarono a gridare, a fischiare. Non dormirono per tutto il resto di quella notte. Al levar del giorno, videro le tracce della caduta. Non doveva avere avuto modo di pronunciar parola. Era scivolato ad est, sul versante sconosciuto del monte; molto più in basso era piombato su un ripido nevaio, sul quale aveva lasciato un solco, scendendo in mezzo a una slavina. La traccia giungeva diritta al ciglio di un pauroso precipizio; di là da quel punto, tutto restava nascosto alla vista. Essi scorsero in basso, laggiù, lontanissimi, nella foschia della distanza, alberi che crescevano in un’angusta valle chiusa da ogni lato: il perduto paese dei ciechi. Ma essi non sapevano ch’era il perduto paese dei ciechi, né fecero differenza con qualsiasi altra stretta striscia di pianoro. Persero coraggio, dopo questa sciagura, e nel pomeriggio rinunciarono all’impresa. Pointer fu richiamato per la guerra prima di ritentare l’ascensione. Ancor oggi, la vetta del Parascotopetl è inviolata, e il bivacco di Pointer, che nessuno raggiunge, si sgretola tra le nevi. Ma l’uomo che era precipitato, sopravvisse. Dal fondo del nevaio, dopo un volo di oltre trecento metri, andò a cadere, tra una nuvola di neve, sul pendio di un altro nevaio ancor più ripido. Ruzzolò giù, tramortito, inconscio, ma senza un solo osso rotto, giungendo infine su falde meno brusche; e finalmente rotolò di lato e giacque immobile, affondato nel mucchio della bianca massa che lo aveva accompagnato, attutendo la caduta e salvandolo. Rinvenne con la vaga impressione d’esser malato a letto; poi afferrò la situazione, con il suo cervello di montanaro, e fece in modo di liberarsi, finché, dopo un attimo di riposo, non uscì a rivedere le stelle. Per un po‘, restò disteso, appiattito sulla pancia, chiedendosi dove fosse e che cosa gli fosse capitato. Si tastò prudentemente le membra, si accorse di aver perso parecchi bottoni e che la pesante giacca gli si era rivoltata sopra la testa. Gli era sparito di tasca il coltello, aveva perduto il cappello, che pur si era legato sotto il mento. Ricordò che poco prima stava cercando pietre smosse, per alzare il suo tratto del muretto di riparo. Il suo piccone era scomparso. Ne concluse che doveva essere caduto, e guardando in su vide, ancor più grande nel lume spettrale della luna nascente, il volo tremendo che aveva fatto. Rimase steso per un bel po‘ a fissare, attonito, l’ampio dirupo

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torreggiante e pallido, che ad ogni istante pareva crescere, uscendo dalla marea calante del buio. Quella bellezza misteriosa, come un fantasma, assorbì per un po‘ la sua attenzione, poi lo colse un convulso di risa singhiozzanti… Solo dopo un notevole intervallo, si rese conto ch’era vicino al limite inferiore delle nevi. Sotto a questo, vide, su un pendio praticabile e rischiarato dalla luna, terreno erboso cosparso di massi. Si alzò faticosamente in piedi, con le giunture e le membra indolenzite, scese con difficoltà dalla neve ammucchiata intorno a lui, continuò a scendere fino a quando non fu sul terreno erboso, e allora si stese, o meglio si lasciò cadere, accanto a un macigno, fece una bevuta dalla borraccia che aveva nella tasca interna, e s’addormentò di colpo… Lo destò il canto degli uccelli, nei lontani alberi, in basso. Egli si levò a sedere e constatò che si trovava su un piccolo ripiano ai piedi di un immenso strapiombo interrotto dal canalone lungo il quale eran venuti giù, lui e la sua neve. Dall’altra parte, dirimpetto a lui, un’altra muraglia di roccia si ergeva contro il cielo. Tra questi due dirupi correva la gola, orientata da est ad ovest, invasa dal primo sole del mattino, da cui era illuminata, in fondo, ad ovest, la massa di montagna franata che ne chiudeva la discesa. Sotto di lui pareva esserci un precipizio altrettanto dirupato, ma dietro la neve del canalone egli trovò una spaccatura, una specie di camino, gocciolante d’acqua, giù per il quale un temerario poteva tentare di calarsi. Trovò ch’era più facile di quanto non sembrasse, e giunse infine a un altro ripiano deserto; poi, scalando rocce senza particolari difficoltà, a un ripido pendio coperto d’alberi. Provvide ad orientarsi, e si rivolse a monte della gola, vedendo che questa si apriva, da quella parte, su prati verdi tra i quali egli poté ora scorgere molto distintamente un gruppo di casupole di pietra, piuttosto strane come forma. Fu costretto, in certi punti, ad avanzare come se si arrampicasse sulla superficie di un muro, e dopo qualche tempo il sole, salendo e spostandosi, smise di mandare i suoi raggi nella gola, il canto degli uccelli s’interruppe, e intorno a lui l’aria si fece fredda e scura. Ma la valle lontana, con le sue case, risultò ancor più luminosa. Egli non tardò a giungere ad una scarpata, e tra le rocce notò (poiché aveva il dono dell’osservazione) una specie a lui ignota di felce, che pareva protendere artigli d’un verde intenso fuor dei crepacci. Ne spiccò qualche fronda, ne masticò il gambo, e n’ebbe qualche ristoro. Raggiunse sul mezzogiorno l’imboccatura della gola, uscendo sull’altipiano, in pieno sole. Era stanco e indolenzito. Sedette all’ombra di una roccia, riempì d’acqua la borraccia a una sorgente e bevette, sostando a riposarsi un poco prima di proseguire verso le case. Queste avevano qualcosa di molto strano, ai suoi occhi, ed anzi, guardando meglio, gli sembrò che tutta la valle avesse un aspetto bizzarro, insolito. La

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coprivano, in massima parte, lussureggianti prati verdi, costellati in abbondanza di bei fiori, accuratamente irrigati, che mostravano chiaramente di venire falciati appezzamento per appezzamento. Molto in alto un muro circondava la valle come un anello, che accompagnava tutto intorno una specie di acquedotto, da cui venivano i rivoletti d’acqua che alimentavano la vegetazione dei prati; e più in alto ancora, sui pendìi, greggi di lama brucavano l’erba rada. Qua e là si vedevano, addossate al muro di cinta, certe tettoie che dovevano servire da riparo, forse da stalla, ai lama. Le acque d’irrigazione affluivano tutte a un canale principale, che scendeva per il mezzo della valle, arginato, su entrambi i lati, da un muricciolo alto fino al petto. Tutto ciò conferiva, a quel luogo isolato, un’aria singolarmente cittadina, aria che risultava accentuata dal fatto che vari sentieri, pavimentati di pietre nere e bianche, tutti fiancheggiati da un curioso cordone, come di marciapiede, si diramavano ordinatamente nelle diverse direzioni. Nel villaggio al centro, le case erano molto dissimili da quelle agglomerazioni casuali, alla rinfusa, proprie ai villaggi di montagna ch’egli conosceva; erano allineate senza interruzioni, dalle due parti, lungo una strada centrale di una pulizia stupefacente; nelle facciate, lisce e a più colori, qua e là s’apriva una porta, ma non una sola finestra. Erano variegate con straordinaria irregolarità, intonacate con una materia qua grigia, là giallastra, altrove color dell’ardesia oppure marrone scuro. Proprio la vista di quell’intonaco pazzesco fece venire in mente per la prima volta, all’esploratore, la parola “cieco”. Pensò: “Il brav’uomo che ha fatto una cosa simile doveva essere cieco come una talpa”. Si calò da un punto scosceso, e giunse così al muro e al canale che circondavano la valle; vi giunse là dove il secondo riversava il soprappiù nelle profondità della gola, formando una cascata con un filo d’acqua, sottile e ondeggiante. Egli ora vedeva lontano, nei prati, alcuni uomini e donne che si riposavano su mucchi di fieno, come se facessero la siesta; nei pressi del paese, alcuni bambini sdraiati; e infine, più vicini a lui, tre uomini che, con gioghi d’acquaiolo, portavano secchi percorrendo un sentiero che andava dal muro di cinta verso le case. Questi ultimi indossavano abiti di stoffa fatta con il pelo di lama, scarpe e cinture di cuoio, berretti di stoffa con lembi che coprivano le orecchie e la nuca. Procedevano l’uno dietro l’altro, in fila indiana, camminando adagio e sbadigliando nel camminare, come chi abbia passato la notte in piedi. Il loro comportamento aveva un’aria rassicurante di prosperità, di rispettabilità e perciò Nuñez, dopo un attimo di esitazione, si fece avanti, mettendosi in vista come meglio poteva sulla sua roccia, ed emise un potente grido di richiamo, che echeggiò per tutta la valle. I tre uomini si fermarono, e mossero il capo, come guardandosi attorno. Girarono il viso di qua e di là, e Nuñez gesticolò a tutto andare. Ma, con tutto

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il suo agitar di braccia, non parvero vederlo, e dopo un poco, rivolti verso le lontane montagne sulla destra, gridarono come per rispondere. Nuñez cacciò fuori un altro urlaccio, e allora, nuovamente, nel fare i suoi inutili gesti, la parola “cieco” s’impose alla sua mente. “Quegli sciocchi devono essere ciechi” si disse. Alla fine Nuñez, essendosi sgolato e arrabbiato più che a sufficienza, attraversò l’acqua su un ponticello, passò da una porta nel muro, si avvicinò a quegli uomini. Ebbe allora la certezza ch’erano ciechi. Fu certo che quello era il paese dei ciechi di cui parlavano le leggende. Questa convinzione lo riempì di un senso di grande, di invidiabile avventura. I tre si tenevano vicini l’uno all’altro, e rivolgevano verso di lui non gli occhi, ma l’orecchio, giudicandolo attraverso il rumore non familiare dei suoi passi. Stavano stretti, come un poco impauriti, ed egli vide che avevano le palpebre chiuse e affossate, come se le pupille si fossero rattrappite fino a scomparire. Avevano in viso un’espressione quasi di sbigottimento. «Un uomo» diceva l’uno, parlando uno spagnolo quasi irriconoscibile; «è un uomo, un uomo o uno spirito, quello che scende dalle rocce.» Ma Nuñez avanzava col passo fiducioso del giovane che va incontro alla vita. Si era rammentato di tutte quelle antiche storie sulla valle perduta e sul paese dei ciechi, e come un ritornello gli girava e rigirava per la mente un vecchio proverbio: “Tra i ciechi l’orbo d’un occhio è re, tra i ciechi l’orbo d’un occhio è re”. Li salutò con molta cortesia. E usava gli occhi, mentre parlava. Uno chiese: «Fratello Pedro, di dove arriva?». «È uscito e sceso dalle rocce.» «Vengo da oltre i monti» disse Nuñez. «Sono uscito dal paese che sta di là, un paese dove gli uomini vedono. Dai pressi di Bogotà, dove abitano centinaia di migliaia di persone e la città si estende fuor di vista.» «Vista?» mormorò Pedro. «Vista?» «È uscito dalle rocce» disse il secondo cieco. Nuñez vide che la stoffa dei loro cappotti era cucita in modo curioso, con punti di un tipo diverso dall’uno all’altro. Lo fecero sobbalzare compiendo simultaneamente un movimento verso di lui, a mano protesa. Egli arretrò, dinanzi all’avanzata di quelle dita aperte. «Vieni qua» disse il terzo cieco, accompagnando il suo movimento e agguantandolo bellamente. Tennero Nuñez e lo tastarono, senza dir altro. «Piano!» esclamò egli, avendo un dito in un occhio. E capì che costoro ritenevano in lui una stranezza, quell’organo dalle palpebre che sbattevano. Insistettero ancora a tastarlo. «Una strana creatura, Correa» disse colui che chiamavano Pedro. «Senti un

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po‘ che pelo ruvido ha. Come quello del lama.» «È rude come le rocce che l’hanno partorito» disse Correa, esplorando il mento non rasato di Nuñez, con mano morbida e leggermente umida. «Forse si raffinerà.» Nuñez, sotto quel contatto indagatore, si dibatteva un poco, ma essi lo tenevano saldamente. «Piano!» ripeté. «Parla» disse il terzo. «È certamente un uomo.» «Uh!» fece Pedro, sentendo com’era grossolano il suo cappotto. «E così, sei venuto al mondo?» chiese Pedro. «Dal mondo! Di là da montagne e ghiacciai; proprio di là, oltre quel punto, a metà strada dal sole. Vengo dal mondo grande e vasto, che scende giù, per dodici giorni di cammino, fino al mare.» Non sembravano quasi dargli retta. «I nostri antenati dicevano che gli uomini possono essere creati dalle forze della natura» disse Correa. «Dal calore delle cose, e dall’umidità, e dall’imputridimento… dall’imputridimento.» «Portiamolo agli anziani» disse Pedro. «Ma prima manda un grido» disse Correa «che i bambini non abbiano a spaventarsi. Questo è un caso portentoso.» Infatti gridarono, e Pedro si avviò per primo, prendendo Nuñez per mano con l’intenzione di guidarlo verso le case. Egli tirò via la mano. «Io ci vedo» disse. «Vedi?» disse Correa. «Vedo, sì» disse Nuñez voltandosi verso di lui e inciampando, così, nel secchio di Pedro. «Hai i sensi ancora imperfetti» disse il terzo cieco. «Inciampa, dice parole senza significato. Conducilo per mano.» «Come volete» disse Nuñez, e si lasciò condurre, ridendo. La vista, quelli, parevano non sapere neanche che cosa fosse. Ebbene, glielo avrebbe insegnato lui, a tempo e luogo. Udì gente gridare, e vide che parecchie figure si stavano assembrando sulla via che passava in mezzo al villaggio. Egli si rese conto che gli ci voleva più coraggio e pazienza del previsto, per quella prima presa di contatto con la popolazione del paese dei ciechi. Da vicino, il villaggio pareva più vasto, e quegli intonaci parevano più bizzarri; inoltre una folla di bambini, di uomini, di donne (notò con piacere che donne e ragazze, o almeno alcune tra loro, avevano volti assai avvenenti, a dispetto degli occhi chiusi e affossati) li circondò, attaccandosi a lui, toccandolo con mani morbide e sensibili, fiutandolo, ascoltando ogni parola che pronunciava. C’erano tuttavia fanciulle e bambini che si tenevano alla larga, come impauriti, e infatti la sua voce sonava aspra e volgare a paragone delle loro intonazioni più sommesse. Fu preso d’assalto. Le sue tre guide gli si

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tenevano appiccicate addosso, con una certa aria di proprietà, continuando a ripetere: «Un selvaggio, uscito dalle rocce». «Da Bogotà» diceva lui. «Bogotà, di là dalla cima dei monti». «Un selvaggio, che adopera parole selvagge» disse Pedro. «L’avete sentito? Bogotà. Non ha ancora l’intelletto sviluppato. Possiede solo i rudimenti del linguaggio.» Un bambinello gli diede un pizzicotto sulla mano. «Bogotà!» fece, dandogli la baia. «Proprio così! Una città, mentre il vostro è un villaggio. Vengo dal grande mondo. Dove gli uomini hanno occhi per vedere.» «Si chiama Bogota» dicevano quelli. «Ha inciampato» disse Correa. «Ha inciampato due volte, nel venire qua.» «Portatelo dagli anziani.» E ad un tratto, con uno spintone, gli fecero infilare una porta. Nella stanza c’era buio pesto, tranne, in fondo, un tenue bagliore di fuoco acceso; la folla accalcandosi alle sue spalle lasciava filtrare da fuori appena un barlume del giorno. Sullo slancio, prima di riuscire a fermarsi, egli cadde lungo disteso oltre i piedi di un uomo seduto; nel cadere, allungando di scatto un braccio, ne colpì in viso un altro, sentì il contatto di molli lineamenti, udì un grido di collera, e per un momento si dibatté nella morsa di parecchie mani. Lotta impari. Ma, in un lampo d’intuizione, si rese conto di come stavano le cose e rimase immobile. «Sono caduto» spiegò. «In questo buio pesto non vedevo niente.» Cadde in silenzio, come se le persone che lo attorniavano cercassero di capire le sue parole. Poi la voce di Correa disse: «È formato da poco. Quando cammina, inciampa. Quando parla, mescola parole che non vogliono dire nulla». Anche altri espressero sul suo conto i loro pareri, ch’egli udì o capì imperfettamente. «Posso mettermi a sedere?» chiese in un intervallo di silenzio. «Non mi agiterò più contro di voi.» Dopo essersi consultati, gli permisero di alzarsi. La voce di un vecchio cominciò a interrogarlo, e Nuñez fu costretto a cercar di spiegare il vasto mondo dal quale era piombato giù, il cielo, i monti, la vista e simili prodigi, a quegli anziani che sedevano immersi nelle tenebre, nel paese dei ciechi. Ma non capivano, non credevano a quello che diceva; e questo non se l’era davvero aspettato. Non riuscivano a capire molte sue parole. Erano ciechi da quattordici generazioni, completamente segregati dal mondo dotato di vista, e il nome di ogni cosa attinente al senso ottico si era cancellato o trasformato, la storia del mondo esterno si era cancellata, trasformata in una fiaba, ed essi avevano perso ogni interesse per tutto ciò

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che stava di là dei pendìi rocciosi, incombenti sul loro muro di cinta. Erano sorti, tra loro, ciechi geniali, che avevano messo in discussione gli ultimi brandelli delle credenze e delle tradizioni di un tempo in cui possedevano ancora la vista, negandole come vane bubbole e sostituendole con altre e più assennate spiegazioni. Buona parte della loro immaginazione si era disseccata come i loro occhi, ed essi si erano procurati altre immaginazioni in base alla sensibilità sempre maggiore delle loro orecchie e dei loro polpastrelli. Pian piano, Nuñez finì con il rendersene conto. Capì che, contrariamente alle sue speranze, non avrebbe ottenuto stupore e reverenza per la sua origine e le sue facoltà; e dopo che costoro ebbero mostrato di non tenere in nessuna considerazione i suoi miseri sforzi di spiegar loro la vista, considerandoli balbettamenti di un essere appena formato che descriveva come portenti le sue sensazioni slegate, egli si rassegnò, un poco mortificato, ad ascoltare le loro istruzioni. Il più anziano dei ciechi gli spiegò la vita, la filosofia, la religione; gli disse che il mondo (cioè la loro valle) era stato dapprima un buco vuoto tra le rocce, e poi erano venute cose senz’anima e senza il dono del tatto, poi i lama e alcune altre creature di scarso intelletto, poi ancora gli uomini, e infine gli angeli, che si udivano cantare e far rumori, che battevano dolcemente l’aria, ma che non si riusciva mai a toccare. Ciò lasciò Nuñez molto perplesso, finché non pensò agli uccelli. L’anziano disse ancora a Nuñez che il tempo era stato diviso in caldo e freddo, cioè l’equivalente del giorno e della notte, per i ciechi; che durante il caldo era bene dormire e durante il freddo lavorare, cosicché in quel momento, se non fosse arrivato lui, tutta la città dei ciechi sarebbe stata immersa nel sonno. Asserì che Nuñez doveva essere stato creato apposta per imparare e per servire la saggezza ch’essi avevano conquistato, e che nonostante la sua incoerenza mentale e il suo incespicare doveva farsi coraggio e far del suo meglio per imparare: a queste parole, un mormorio d’incoraggiamento corse tra la gente accalcata sulla soglia. L’anziano allora disse che la notte (poiché i ciechi chiamavano notte il giorno) era già molto inoltrata. Conveniva dunque che tutti tornassero a dormire. Chiese a Nuñez se sapeva come si fa a dormire, e Nuñez rispose di sì, ma che prima aveva bisogno di mangiare. Gli portarono da mangiare (latte di lama in una ciotola, e pan nero salato), e lo condussero in un luogo appartato a mangiar fuori di portata del loro udito, poi a dormire fino all’ora in cui il freddo, con il calare della sera sui monti, li avrebbe fatti alzare per riprendere la loro giornata. Ma Nuñez non dormì né punto né poco. Rimase invece, là dove lo avevano lasciato, a riposarsi le membra in posizione seduta, pensando e ripensando alle circostanze inattese che avevano accolto il suo arrivo.

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Ogni tanto gli veniva da ridere, divertito oppure indignato. “Mente malformata!” diceva. “Non ancora provveduto pienamente di sensi! Non sospettano, quelli, di avere oltraggiato il re, mandato a loro dal cielo come signore e padrone. Debbo ridurli alla ragione. Ho da pensarci, da pensare…” Pensava ancora al tramontar del sole. Nuñez aveva una pronta percezione di ciò ch’è bello, e gli parve che il rosso bagliore dei riflessi sui campi di neve e ghiacciai che da ogni parte dominavano la valle fosse ciò che di più bello avesse mai veduto. Da quello splendore inaccessibile, i suoi occhi si spostarono in basso sul villaggio e i campi irrigati, che rapidamente venivano sommersi dall’oscurità e dal più profondo del cuore ringraziò Dio di avergli concesso il dono della vista. Si sentì chiamare da una voce che veniva dal villaggio. «Ohilà! Tu, Bogota! Vieni da questa parte!» Egli si alzò in piedi, sorridendo. Una volta e per tutte, avrebbe dimostrato a quella gente ciò che un uomo può fare grazie alla vista. L’avrebbero cercato, senza riuscire a trovarlo. «Non muoverti, Bogota» disse la voce. Egli rise silenziosamente e fece di lato due passi furtivi fuori del sentiero. «Non calpestare l’erba, Bogota; è proibito.» Nuñez stesso aveva appena udito il rumore che aveva fatto. Si fermò, stupito. L’uomo che aveva parlato, stava arrivando di corsa su per il sentiero pezzato. Egli disse, riportandosi sul sentiero: «Sono qui». E il cieco: «Perché non vieni, quando ti si chiama? Bisogna forse prenderti per mano come un bambino? Non senti il sentiero quando cammini?» Nuñez rise. «Io lo vedo» disse. «La parola vedo non esiste» disse il cieco, dopo un attimo di silenzio. «Piantala, con queste sciocchezze, e segui il rumore dei miei passi.» Un poco seccato, Nuñez gli tenne dietro. «Verrà il mio momento» disse. «Imparerai» rispose il cieco. «C’è tanto da imparare al mondo.» «Nessuno ti ha mai detto che “tra i ciechi l’orbo d’un occhio è re”?» «Ciechi? che cosa vuol dire?» domandò con indifferenza il cieco senza quasi girare la testa. Quattro giorni trascorsero, e il quinto trovò il re dei ciechi ancora in incognito tra i suoi sudditi, che lo consideravano semplicemente uno straniero goffo e inetto. Proclamare la sua identità risultava, com’egli ben vedeva, più difficile di quanto non avesse supposto, e intanto, mentre meditava il suo coup d’état, badava a fare ciò che gli dicevano ed imparava gli usi e costumi del paese dei ciechi. Soprattutto fastidioso gli parve il fatto di lavorare e andare in giro di

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notte, e decise che la sua prima riforma sarebbe stata quella. La popolazione, peraltro, conduceva una vita semplice e laboriosa, con tutte le caratteristiche della virtù e della felicità, quali l’uomo le intende. Lavoravano, ma non in modo opprimente. Disponevano di cibo e vesti in quantità sufficiente ai loro bisogni. Avevano giorni e periodi dedicati al riposo. Tenevano in grande onore la musica e il canto. Conoscevano l’amore. E avevano pochi bambini. Era stupefacente con quanta sicurezza e precisione circolavano nel loro mondo bene ordinato. Capite, tutto era predisposto a misura delle loro necessità: ogni sentiero della rete che serviva tutta l’area della valle si dipartiva dagli altri ad angoli costanti ed era contraddistinto da una tacca speciale nella cordonatura che lo fiancheggiava; tutti gli ostacoli e le irregolarità erano stati eliminati già molto tempo prima dai sentieri e dai prati, e tutti i loro sistemi e criteri erano sorti in modo naturale dalle loro particolari necessità. I loro sensi avevano acquistato un’acutezza meravigliosa: erano in grado di udire e valutare il minimo gesto d’un uomo da dodici passi di distanza; di sentirne persino il battito del cuore. Da un pezzo, per loro, le intonazioni della voce avevano sostituito le espressioni del viso, il tatto aveva sostituito i gesti; e lavoravan di zappa, vanga o forcone con la stessa facilità e sicurezza che se si fosse trattato di giardinaggio. Possedevano un senso dell’odorato finissimo, straordinario, tale da poter distinguere prontamente le diversità individuali, come fanno i cani. E badavano al bestiame (i lama, che vivevano tra le rocce in alto e venivano a cercar cibo e ricovero presso il muro) con disinvoltura e tranquillità. Quanto fosse agevole e sicura la loro capacità di movimento, Nuñez lo scoprì quando cercò d’imporsi. Si ribellò solamente dopo avere tentato la via della persuasione. A più riprese aveva cercato di parlare con loro della vista. «Gente!» diceva. «Datemi un po‘ retta. Ci sono in me cose che voi non capite.» Un paio di volte, uno o due di loro stettero a sentirlo; se ne rimasero seduti, con i volti chini, porgendo l’orecchio con intelligenza verso di lui, che faceva del suo meglio per spiegare che cosa significasse “vedere”. C’era, tra gli ascoltatori, una ragazza, dagli occhi meno infiammati e affossati di quelli degli altri. Si sarebbe quasi creduto che tenesse timidamente abbassato lo sguardo. Ed egli desiderava in modo particolare di riuscire a convincerla. Descrisse le bellezze della vista, lo spettacolo dei monti, il cielo e l’alba; ma quelli stettero ad ascoltarlo, increduli e divertiti, passando ben presto alla disapprovazione. Gli dichiararono che invece i monti non esistevano affatto, e che, là dove terminavano le rocce tra cui brucavano i lama, finiva il mondo; da quel punto sorgeva la copertura cavernosa dell’universo, dalla quale cadevano la rugiada e le valanghe; e quando egli si ostinò a sostenere che,

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contrariamente a quanto supponevano, il mondo non aveva fine né tetto, gli dissero che i suoi pensieri erano perversi. Il cielo, le nuvole, le stelle ch’egli si sforzava di descrivere come meglio poteva, a loro facevano l’impressione di un orrendo vuoto, di un terribile nulla in luogo del liscio tetto delle cose, in cui essi credevano: era articolo di fede che il tetto di quella caverna fosse deliziosamente liscio al tatto. Egli si accorse che riusciva solo a scandalizzarli e, abbandonando completamente quell’aspetto della faccenda, cercò di dimostrar loro i pregi pratici della vista. Una mattina, vedendo Pedro sul sentiero chiamato Diciassette, che si dirigeva alle case del centro, ma ancora troppo lontano per l’odorato o l’udito, li informò di questa circostanza. «Tra poco» predisse «Pedro sarà qui.» Un vecchio commentò che Pedro non aveva motivo di trovarsi sul sentiero Diciassette, e infatti, come a confermarlo, costui svoltò in una traversa, il sentiero Dieci, avviandosi a passi felpati verso il muro esterno. Poiché Pedro non arrivava, presero in giro Nuñez e in seguito, quando egli, per giustificarsi, interrogò direttamente Pedro, questi negò, tenendogli testa arditamente, e da allora gli si dimostrò ostile. Poi egli li persuase a farlo andare molto in alto, sui pendìi erbosi, verso il muro, in compagnia di un individuo compiacente, promettendo di descrivere a quest’ultimo tutto ciò che accadeva tra le case. Osservò l’andare e venire di alcuni; ma le cose che realmente parevano avere importanza per quella gente, le uniche di cui avessero tenuto nota per metterlo alla prova, accadevano all’interno o dietro le case senza finestre, ed egli non poteva saperne né dirne nulla. Appunto dopo l’insuccesso del suo tentativo, e l’ilarità ch’essi non seppero nascondere, egli fece ricorso alla forza. Pensò bene di dar di piglio ad una vanga e abbattere all’improvviso un paio di loro, dimostrando così, in campo aperto, il vantaggio di avere occhi. Attuò tale decisione, giungendo fino ad impugnare la vanga; ma allora dovette accorgersi di una novità, a proprio proposito, cioè che non era assolutamente in grado di colpire un cieco a sangue freddo. Esitò, e poi constatò che tutti sapevano che aveva impugnato una vanga. Stavano all’erta, con la testa piegata di fianco, tendendo l’orecchio nella sua direzione, aspettando la sua mossa successiva. «Metti giù quella vanga» disse uno, ed egli provò una specie di orrore senza scampo. Fu quasi sul punto di obbedire. Poi ne respinse violentemente uno contro il muro di una casa, e oltrepassandolo fuggì fuori del villaggio. Passò attraverso uno dei loro campi, lasciandosi dietro ai piedi una pista di erba calpestata, e si mise seduto di lato ad uno dei loro camminamenti. Provava un po‘ quella baldanza che s’impadronisce di ogni uomo all’inizio di una lotta; ma l’incertezza era maggiore. Cominciava a rendersi conto ch’è impossibile persino combattere con piacere creature che si appoggiano a basi

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morali diverse. Vide in lontananza parecchi uomini, armati di vanghe e bastoni, che uscivano dalla strada dell’abitato, e avanzavano verso di lui, su una linea che si allargava lungo i vari sentieri. Avanzavano lentamente, interpellandosi spesso l’uno con l’altro, ed ogni poco l’intero cordone d’uomini sostava, fiutando l’aria, ascoltando. La prima volta che fecero questo, Nuñez rise. Ma poi non rise più. Uno s’imbatté nella traccia ch’egli aveva lasciato nell’erba, e si avvicinò, chino, tastando con la mano per riconoscere quella pista. Egli rimase per cinque minuti ad osservare il lento estendersi del cordone; poi, la voglia di fare senza indugio qualcosa, da vaga divenne frenetica. Si alzò in piedi, fece un paio di passi verso il muro di cinta, girò su se stesso e tornò un poco indietro. Stavano tutti là, a semicerchio, fermi e con l’orecchio teso. Anch’egli stava fermo, impugnando ben salda la sua vanga, a due mani. Partire alla carica contro di loro? Si sentiva pulsare il sangue nelle orecchie, al ritmo di “Tra i ciechi l’orbo d’un occhio è re!”. Partire alla carica? «Bogota!» gridò uno. «Bogota! Dove sei?» Strinse con forza ancora maggiore la vanga, e avanzò giù per i prati, in direzione dell’abitato, e non appena si mosse quelli conversero su di lui. “Se mi toccano, li colpisco!” imprecò. “Perdio, lo farò! Colpirò.” Gridò forte: «State a sentire. In questa valle, farò quel che mi pare. Avete udito? Farò quel che mi pare e andrò dove mi pare!». Voltò un attimo la testa a guardare, alle sue spalle, l’alto muro invalicabile: un muro sul quale, dato l’intonaco levigato, era impossibile arrampicarsi, ma nel quale erano praticate numerose porticine. Guardò poi la linea, sempre più vicina, di quelli che lo cercavano. Dietro a questi, ora, altri ne venivano, dalla strada tra le case. Partire alla carica? Si stavano avvicinando velocemente, a tentoni, eppure con moto rapido. Era come giocare a mosca cieca, però con tutti i giocatori bendati ed uno solo no. «Acchiappatelo!» gridò uno di loro. Si trovò ad essere dentro l’arco di una curva scaglionata di inseguitori. Ritenne ad un tratto di dover agire e mostrarsi deciso. «Voi non capite» gridò con voce che, nella sua intenzione, doveva sonare forte e risoluta, e che invece gli tremò. «Siete ciechi, e io ci vedo. Lasciatemi in pace!» «Metti giù quella vanga, Bogota! E vieni via dall’erba!» Quest’ultimo ordine, che in modo grottesco echeggiava ben noti divieti civici, provocò uno scoppio di collera.

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«Vi farò male» disse egli, quasi singhiozzando per l’emozione. «Perdio! vi farò male. Lasciatemi in pace.» Spiccò la corsa senza ben sapere dove corresse. Scappò via dal cieco più vicino, perché inorridiva all’idea di colpirlo. Si fermò, poi si slanciò per sottrarsi allo stringersi dei ranghi. Puntò su un largo interstizio; ma, con pronta percezione dei suoi passi che si avvicinavano, l’uomo dell’una e quello dell’altra parte corsero l’un verso l’altro. Egli balzò avanti, vide che stavano per prenderlo, e vlan!, aveva calato la vanga e menato il colpo. Avvertì il sordo rumore prodotto dalla mano e dal braccio, e l’uomo già cadeva con un urlo di dolore. Egli era passato. Passato! Si ritrovava nei pressi della strada fra le case, e c’erano ciechi che, con una specie di precipitazione ragionata, correvano qua e là roteando vanghe e bastoni. Udì appena in tempo un rumore di passi alle sue spalle, accorgendosi così di un uomo alto che scattava avanti menando un colpo sulla sua presenza sonora. Perdette la testa, scagliò la sua vanga contro l’antagonista, mancandolo di un metro, girò su se stesso e fuggì, gettando proprio un urlo nello scansarne un altro. Lo aveva colto il panico. Corse alla disperata avanti e indietro, scartando quando non ve n’era motivo e (tanto era ansioso di guardare contemporaneamente da tutte le parti) incespicando. Cadde un attimo a terra e quelli lo udirono. Molto lontano, nel muro della cinta, una porticina parve paradisiaca, ed egli vi si diresse con folle impeto. Non si curò nemmeno di guardare, intorno a sé, gli inseguitori, finché non l’ebbe raggiunta, finché non ebbe superato barcollando un ponticello, risalito un po‘ il pendio tra le rocce, con grande sorpresa e angoscia di un giovane lama che sparì a balzi precipitosi. Infine, si gettò a terra, respirando con affanno. Questa fu la conclusione del suo coup d’état. Rimase all’esterno del muro della vallata dei ciechi per due notti e due giorni, senza cibo né riparo, riflettendo a quegli sviluppi inaspettati. Nel corso di tali meditazioni, gli accadde spesso di ripetere, su un tono di derisione sempre più profonda, l’adagio ormai screditato: “Tra i ciechi l’orbo d’un occhio è re”. Pensava soprattutto ai possibili modi di combattere e sconfiggere quella gente, e gli divenne chiaro che non ne aveva modo. Era senz’armi, ed ora sarebbe stato difficile procurarsene una. Anche se era un uomo di Bogota, l’influenza corruttrice della civiltà lo aveva raggiunto, e non se la sentiva di scendere ad ammazzare un cieco… Certo, se lo avesse fatto, avrebbe potuto dettar condizioni, con la minaccia di ammazzarli tutti. Ma, presto o tardi, doveva pure dormire! Cercò anche di procurarsi tra i pini qualcosa da mangiare, di proteggersi con rami di pino dalla brina notturna, ed anche (senza sperarci troppo)

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d’ingegnarsi a catturare un lama, per ucciderlo, forse martellandolo con un sasso, e finalmente mangiarne un pezzo. Ma i lama lo tenevano in sospetto. Lo guardavano con occhi bruni e diffidenti, e schizzavano saliva quando si avvicinava. Finì per trascinarsi giù, fino al muro del paese dei ciechi, per cercare di intavolare trattative. Strisciò lungo il corso dell’acqua, lanciando grida, e finalmente due ciechi vennero sulla porta a parlargli. «Ero impazzito» disse. «Ma ero venuto al mondo solo da poco.» Quelli dissero che così andava già meglio. Li informò che adesso aveva maggior senno, e si pentiva di tutto ciò che aveva fatto. A questo punto, senza volerlo, si mise a piangere, perché era ormai debole e malandato; ma a quelli parve un buon segno. Gli chiesero se ancora credeva di vedere. «No» rispose lui. «Era pura pazzia. È una parola che non vuol dire niente: men che niente.» Gli chiesero che cosa c’era in alto, sulle teste. «A circa dieci volte l’altezza di un uomo, c’è un tetto sul mondo; fatto di roccia; e molto, molto liscio…» Scoppiò nuovamente in un pianto isterico. «Prima di farmi altre domande, datemi qualcosa da mangiare, o morirò.» Si aspettava duri castighi, ma quei ciechi conoscevano la tolleranza. Considerarono la sua ribellione semplicemente come un’ulteriore prova della sua generica idiozia e inferiorità; e dopo averlo frustato lo adibirono ai lavori più semplici e pesanti che ci fossero da fare. Non vedendo altro modo per vivere, egli si sottomise a fare ciò che gli dicevano. Fu ammalato per alcuni giorni, e quelli lo curarono con bontà. Ciò contribuì a perfezionare la sua sottomissione. Ma vollero assolutamente che stesse steso al buio, cosa estremamente spiacevole. Ciechi filosofi vennero a parlargli della perversa leggerezza del suo intelletto, e stigmatizzarono con tanta efficacia i suoi dubbi circa l’esistenza del coperchio di roccia che copriva la loro casseruola cosmica, da indurlo quasi a dubitare d’esser vittima di un’allucinazione nel fatto di non vederselo sul capo. In tal modo Nuñez divenne cittadino del paese dei ciechi. Cessò di vedere quella gente nel suo insieme, come popolazione, e i singoli individui gli divennero familiari, mentre il mondo che stava di là dai monti gli appariva sempre più lontano e irreale. C’era il suo padrone, Yacob, un uomo cordiale, quando non era arrabbiato. C’era Pedro, nipote di Yacob. E c’era Medina-saroté, la più giovane figlia di Yacob. Non era molto apprezzata, nel mondo dei ciechi, perché aveva un volto dai lineamenti netti, privo della debita, untuosa uniformità, ch’è l’ideale di bellezza femminile per l’uomo cieco; ma Nuñez la trovò bella in un primo momento, e poi la cosa più bella di tutto il creato. I suoi occhi chiusi, meno fondi e infiammati di quanto non lo fossero

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di solito nella valle, parevano potersi riaprire da un momento all’altro, ed avevano lunghe ciglia, che là venivano considerate deturpanti. Anche la voce, forte, non corrispondeva ai requisiti dell’acuto udito dei valligiani. Ella perciò non aveva nessun innamorato. Venne un momento in cui Nuñez pensò che, se poteva averla per sé, si sarebbe rassegnato a vivere nella valle per il resto dei suoi giorni. La osservava, coglieva ogni occasione per renderle piccoli servigi, e non tardò ad accorgersi che anche lei lo notava. Una volta, a una riunione di un giorno di vacanza, si trovarono seduti fianco a fianco nel debole lume delle stelle, e c’era una dolce musica. Gli capitò di mettere la mano sulla sua, e osò stringerla. Ella, timidamente, restituì la stretta. E un giorno, mentre pranzavano come sempre al buio, sentì che la mano di lei lo cercava dolcemente; per caso, in quel momento, il fuoco arse più forte, ed egli le scorse in viso l’espressione della tenerezza. Cercò l’occasione per parlarle. Un giorno si accostò a lei che stava seduta nel chiar di luna estivo, intenta a filare. Quel chiarore la rendeva argentea, misteriosa. Egli sedette ai suoi piedi e le disse che l’amava, le disse quanto la trovava bella. Aveva la voce dell’innamorato, parlava con tenero rispetto, quasi con devota reverenza, ed ella non era mai stata sfiorata, prima di allora, dall’adorazione. Non gli diede una risposta precisa, ma era chiaro che le sue parole le eran piaciute. Da allora, approfittò di ogni occasione per parlarle. La Valle divenne, per lui, il mondo; e il mondo di là dai monti, ove gli uomini vivono alla luce del sole, finì per sembrargli una fiaba, che un giorno o l’altro avrebbe sussurrato all’orecchio di lei. Con grande cautela, molto timidamente, le parlò della vista. A lei, quella faccenda della vista, parve un’invenzione molto poetica, e stette ad ascoltare la descrizione delle stelle, dei monti, della sua stessa dolce bellezza rischiarata dalla luna, come cedendo ad una colpevole debolezza. Non ci credeva, anzi capiva solo in parte; ma ne era misteriosamente deliziata, ed egli poté credere ch’ella avesse capito tutto. Il suo amore perse la trepida timidezza, si fece ardito. Egli volle chiederla in sposa, a Yacob e agli anziani; ma fu lei ad impaurirsi e a temporeggiare. Yacob venne a sapere che Medina-saroté e Nuñez erano innamorati, perché glielo disse una delle figlie maggiori. Il matrimonio di Nuñez con Medina-saroté incontrò subito fiera opposizione, non tanto per il conto che facevano di lei, quanto perché giudicavano proprio lui un essere fatto a modo suo, un mezzo scemo, incapace, inferiore anche al più basso livello tollerabile in un uomo. Le sorelle della ragazza si opposero accanitamente al matrimonio perché avrebbe gettato discredito su tutte loro; e il vecchio Yacob, benché avesse maturato una specie di affetto per il suo

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tardo e obbediente servo della gleba, scrollò il capo e disse che la cosa non era fattibile. I giovani erano tutti in collera all’idea di quell’inquinamento della razza, ed uno giunse fino a insultare e picchiare Nuñez. Egli reagì. Fu la prima volta che il fatto di vederci, sia pure in quella semioscurità, risultò un vantaggio, e dopo la conclusione di quella zuffa, nessuno si azzardò più a mettergli le mani addosso. Ma continuarono a ritenere impossibile il suo matrimonio. Il vecchio Yacob aveva un debole per quella figlia, ch’era la più piccina, e quando ella andava a piangere da lui, gli dispiaceva. «Ma capisci, cara, è deficiente. Soffre di allucinazioni, non sa far nulla nel modo voluto.» «Lo so» singhiozzava Medina-saroté. «Ma adesso va meglio di prima. Migliora. Ed è forte, mio caro padre; è gentile. Più forte e più gentile di qualsiasi uomo al mondo. E mi ama, e… Padre, lo amo.» Non vederla così sconsolata, il vecchio Yacob ne fu afflitto, tanto più che, per molti motivi, aveva simpatia per Nuñez. Perciò andò nella sala del consiglio priva di finestre, sedette con gli altri anziani, seguì la china dei discorsi e, al momento opportuno, disse: «Va meglio di prima. È probabile che un giorno o l’altro ci accorgeremo ch’è sano di mente quanto noi». In seguito, poi, uno degli anziani, gran pensatore, ebbe un’idea. Tra quella gente egli era il gran dottore, il loro medico. Possedeva in alto grado l’attitudine filosofica e inventiva. L’idea di guarire Nuñez delle sue stranezze lo attraeva. Un giorno, presente Yacob, tornò sull’argomento Nuñez. «Ho visitato Bogota» disse «e il suo caso mi risulta più chiaro. Credo che, con ogni probabilità, lo si possa guarire.» «L’ho sempre sperato» disse il vecchio Yacob. «Ha il cervello un po‘ disturbato» disse il medico cieco. Corse tra gli anziani un mormorio di assenso. «Ebbene, che cosa lo disturba?» «Ah!» fece il vecchio Yacob. «Questo» disse il medico, rispondendosi da sé. «Queste strane cose chiamate occhi, che esistono per formare nel volto una lieve e piacevole depressione, in Bogota sono malate di modo che gli disturbano il cervello. Sono molto dilatate, hanno le ciglia, con palpebre che si muovono; di conseguenza, il suo cervello è in uno stato costante d’irritazione e di distruzione.» «E allora?» disse il vecchio Yacob. «Allora?» «Io credo di poter dire con ragionevole certezza che, per guarirlo completamente, non abbiamo da fare altro che una piccola operazione chirurgica, facile e semplice, cioè rimuovere questi elementi irritanti.» «Poi sarà sano di mente?» «Poi sarà perfettamente sano di mente, e un cittadino del tutto ammirevole.»

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«Sia ringraziato il cielo per averci dato la scienza!» disse il vecchio Yacob, e se ne andò subito da Nuñez ad informarlo delle sue liete speranze. Ma gli parve proprio, con sua sorpresa, che Nuñez ricevesse la buona notizia con una freddezza molto deludente. Perciò gli disse: «Si potrebbe quasi credere, dal modo in cui parli, che di mia figlia non t’importi nulla». Fu Medina-saroté a convincere Nuñez ad affrontare i chirurghi ciechi. Egli le disse: «Non vorrai, proprio tu, ch’io perda il mio dono della vista?». Ella scosse la testa. «La vista è il mio mondo.» Ella chinò ancor più la testa. «Ci sono le belle cose, piccole cose bellissime: i fiori, i licheni tra le rocce, la morbida lucentezza di una pelliccia, il cielo lontano con le nuvole che passano scivolando, i tramonti, le stelle. E ci sei tu. Solo per te è bello avere la vista, per vedere il tuo viso dolce e sereno, le tue labbra affettuose, le tue mani care e belle congiunte insieme… Questi miei occhi che tu hai conquistato, questi occhi che mi legano a te, quegli idioti me li vogliono togliere. Dovrei invece toccarti, sentirti, e non rivederti mai più. Dovrei anch’io venire sotto il tetto di roccia, di pietra, di tenebra, quell’orribile tetto sotto il quale si curva la vostra immaginazione… No! Non vorrai ch’io faccia una cosa simile?» Lo aveva assalito uno spiacevole dubbio. Si fermò, e lasciò l’interrogativo senza risposta. «Io vorrei» ella disse «a volte…» e s’interruppe. «Ebbene?» diss’egli, un poco in ansia. «Vorrei a volte… che tu non parlassi così.» «Così, come?» «So che è grazioso. È la tua fantasia. Mi piace tanto, però…» Egli si sentì gelare. «Però?» fece, fievolmente. Ella rimase muta. «Tu vuoi dire… tu credi… ch’io starei meglio, starei meglio forse…» Stava rendendosi conto molto rapidamente. Provò ira, effettivamente; ira contro la stupidità della sorte. Ma anche un’affettuosa comprensione, per l’incapacità di lei a capire: una comprensione ch’era parente stretta della compassione. «Cara» le disse. E vide dal suo pallore quanto il suo spirito fosse oppresso dalle cose che non poteva dire. Egli l’abbracciò, le baciò l’orecchio, e per un certo tempo rimasero seduti in silenzio. «E se io acconsentissi?» disse egli alla fine, con voce molto sommessa. Ella gli gettò le braccia al collo, piangendo a dirotto. «Oh, se tu lo facessi!» singhiozzava «se tu lo facessi!»

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Per tutta la settimana precedente all’operazione che dal suo stato inferiore e servile doveva elevarlo al rango di un cittadino cieco, Nuñez non conobbe il sonno, e durante tutte le ore calde, rischiarate dal sole, mentre gli altri felicemente dormivano, egli se ne rimase seduto a rimuginare, o vagò senza meta, cercando di condurre la sua mente a risolvere il dilemma. Aveva dato la risposta, aveva dato il consenso; ma non era ancora sicuro. E infine la giornata lavorativa terminò, il sole sorse in tutto il suo splendore sopra le cime dorate, e per lui cominciò l’ultimo giorno dotato di vista. Trascorse alcuni minuti con Medina-saroté, prima ch’ella si ritirasse a dormire. «Domani» disse «non vedrò più.» «Tesoro!» disse lei, e gli strinse le mani forte forte. «Ti faranno soltanto un pochino di male» gli disse ancora «e questo male, questa sofferenza, tu li sopporterai, mio amato, per me… Caro, se una vita e un cuore di donna possono bastare a tanto, io ti ripagherò. Mio amatissimo, mio amato dalla tenera voce, io ti ripagherò.» La compassione, per lei e per se stesso, lo permeava fino al midollo. Se la tenne tra le braccia, premette le labbra sulle sue, e la guardò bene in viso per l’ultima volta. «Addio!» sussurrò a quell’amato aspetto «addio!» Poi, in silenzio, si volse e se ne andò. Ella udì i passi che si allontanavano, e nel loro ritmo sentì qualcosa che la gettò in un convulso di pianto. Egli aveva avuto la ferma intenzione di recarsi in un posto solitario dove il narciso bianco abbelliva i prati, e di rimanervi fino all’ora del suo sacrificio; ma, nell’andare, alzò gli occhi, e vide il mattino, il mattino simile a un angelo dalla corazza d’oro, che scendeva fieramente sui pendìi… Gli parve che di fronte a tale splendore lui, e quel mondo cieco nella valle, ed il suo amore, e tutto, altro non fossero che un pozzo di peccato senza fondo. Non piegò su un lato, come ne aveva avuto l’intenzione; proseguì, invece, passò attraverso il cerchio del muro, uscì fuori, su per le rocce, e i suoi occhi non si staccavano dal ghiaccio e dalla neve illuminati dal sole. Ne vedeva l’infinita bellezza, e la sua immaginazione s’innalzò fino alle cose, oltre le cime, che ora avrebbe ripudiato per sempre. Pensò a quel mondo grande e libero dal quale era separato, un mondo ch’era il suo, e gli parve di vedere quegli altri pendii, quelle lontananze che seguono lontananze, e, a media distanza, Bogota, luogo di bellezze multiformi e commoventi, uno splendore di giorno, un mistero luminoso di notte, un luogo pieno di palazzi, fontane, statue, case bianche. Pensò come fosse possibile, in un giorno o due, calare attraverso i valichi, giungere più vicino alle strade affollate e affaccendate della città. Pensò al viaggio sul fiume, per tanti giorni l’uno dopo l’altro, dalla grande Bogota verso il mondo ancora più vasto che stava più oltre, passando per città, villaggi, foreste e luoghi deserti;

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un giorno dopo l’altro sul gran fiume, finché le sponde si allontanavano e i grandi piroscafi passavano rimescolando l’acqua e si giungeva al mare, il mare sconfinato, con migliaia di isole e navi intraviste lontano nel loro incessante viaggiare in giro per il mondo, attorno al grande mondo. E là si vedeva, non ostacolato da montagne, il cielo, il cielo! Non un disco, come lo si vedeva qui, ma un arco incommensurabile d’azzurro, somma profondità in cui galleggiano nel loro moto ciclico le stelle… I suoi occhi esaminavano con più acuta attenzione la grande cortina di montagne. Per esempio, ad andare così, su per quel canalone e poi per quel cammino, sarebbe stato possibile uscire, là in alto, tra quei pini che crescevano stentati intorno a una specie di sporgenza delle rocce e salivano sempre più in su accompagnandola oltre la gola. E poi? Quella scarpata era superabile. Di là, forse, si poteva trovare una via di ascensione lungo lo strapiombo che finiva ai piedi delle nevi; e se quel cammino non rispondeva allo scopo, allora un altro, più ad est, poteva risultare migliore. E poi? Poi uno si sarebbe trovato all’aperto, là, sulla neve che nella luce pareva color d’ambra; si sarebbe trovato a metà strada dalla vetta di quelle belle solitudini. Gettò un’occhiata, dietro di sé, al villaggio, poi girò completamente su se stesso per guardarlo fisso. Pensò a Medina-saroté. Era divenuta piccola, remota. Tornò a volgersi verso il muro montano, dal quale gli era sceso incontro il giorno. E, con grande cautela, cominciò ad arrampicarsi. Al tramonto, non stava più arrampicandosi; ma era lontano, e in alto. Era stato più in alto, ma era nondimeno molto in su. Aveva gli abiti laceri, le membra insanguinate; era contuso in molti punti. Ma stava steso come se stesse benissimo, e il suo volto sorrideva. Dal punto in cui si trovava, la valle pareva stare in un pozzo, oltre millecinquecento metri più in basso. La foschia già la oscurava, benché le vette montane intorno a lui fossero tutta luce, tutto fuoco. Le vette erano tutta luce, tutto fuoco, e i particolari delle rocce più vicine erano impregnati di bellezza: una venatura verde che tagliava il grigio, qua e là il balenio di sfaccettature cristalline, un minuscolo lichene arancione, di una minuscola bellezza, proprio accanto al suo volto. Nella gola stavano ombre misteriose, un turchino che s’incupiva fino al violetto, un violetto che diventava tenebra luminosa; e, in alto il cielo, in tutta la sua vastità sconfinata. Ma non badò più a tutto ciò; giacque, invece, del tutto inerte, sorridente, come se fosse contento per il solo fatto di essere sfuggito alla valle dei ciechi, in cui aveva pensato di diventare re. Il bagliore del tramonto svanì, venne la notte, ed egli giaceva ancora,

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soddisfatto, in pace, sotto le fredde stelle.