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N° 1 30 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Un patrimonio dell’umanità Dario Nardella Non candideremo all’Unesco solo una manifestazione: insie- me al Calcio Storico, proporre- mo anche lo Scoppio del carro e la festa della Rificolona

Cultura Commestibile 130

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N° 130

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Un patrimoniodell’umanitàDario Nardella

Non candideremo all’Unesco solo una manifestazione: insie-me al Calcio Storico, proporre-mo anche lo Scoppio del carro e la festa della Rificolona

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mente tutta la loro postura. Una forma meditativa sul loro corpo. Quindi rintracciare, ritrovare tutto il senso di stare in un luo-go del genere che fa echeggiare una dimensione di intensità che si rivolge ad un corpo, ad un pensiero. Se vuoi, in un certo modo anche un senso del sacro. Quando si entra in questi luoghi c’è un immaginario, un percorso molto desueto rispetto al teatro o ad un ambiente industriale: di solito si passa da un cortile, da un giardino curato come a San Salvi o a Sant’Apollonia; è come se vi fosse un certo percorso di iniziazione per entrare dentro. Poi si entra in un formato che mi affascina: un grande paralle-lepipedo pregno di epoche pas-sate, di grande qualità di con-sapevolezza di concentrazione, e che si tornano a frequentare non intensità coreografiche, che significa per me dare un’oppor-tunità ad un gruppo di persone di riunirsi in comunità del gesto. Loro praticano per mesi qualco-sa che è molto lontano da quello che si potrebbe pensare come danza, che invece si richiama

ad un adagio, appunto. Vado a ricercare capacità di avvicinarsi all’altro con un’altra forma di consapevolezza, cercando di ritrovare un’origine diversa dello sguardo, appoggiare la mano sulla spalla di un altro e cercare di capire come tutto questo pos-sa avvenire. Va così a crearsi tut-ta una topografia di spostamenti che crea una coreografia molto legata a ciò che loro sono come presenze: ogni gesto scaturisce non da un’esperienza catottri-ca con me, io non mi metto davanti a loro dicendo “fai così”; scaturisce dal mio avvicinarmi a loro, pressarli, indicargli qual-cosa, ma poi sono loro a fare il movimento, ad appoggiarsi sull’altro e lì nasce la coreografia. A quel punto il nostro compito di assistenti è solo rammentargli quello che loro hanno fatto. Un percorso che non viene mai fatto di solito e quindi anche il gesto più semplice diventa denso, proprio perché consapevole, pensato. Questo è straordinario perché va a creare delle comu-nità che si riconoscono proprio per queste qualità.

Quest’anno hai scelto il tema dell’Esodo: d quale cattività moderna siamo usciti? Dove siamo incamminati? Questo esodo ci de-finisce, come accadde per il popolo eletto che lo diventa quando esce dall’Egitto per entrare nel deserto? C’è un evidente riferimento alle grandi migrazioni dei nostri gior-ni, ma non dovremmo essere tutti transumanti verso nuove terre?C’è un riferimento eclatante agli esodi e alle migrazioni di oggi. Ma c’è anche altro. Per me un esodo è anche come loro riesco-no durante questo percorso a fuoriuscire da qualcosa che li ha resi esseri patologici, bloccati, qualcosa di simile a come una prigione racchiude un corpo in una rigidezza estremamente ri-duttiva, dove la semplicità di un gesto non viene più assaporata per quello che è; e quindi il cor-po è diventato quello strumento rigido, pronto all’invecchiamen-to, che va ad offuscare tutte le capacità di fessurizzazione ne-cessarie al luogo. Quindi io uso l’esodo come metafora di questo viaggio reale di queste persone: insieme cerchiamo di intrapren-dere un viaggio. A dir la verità il territorio individuato lo si percepisce, ma non all’inizio: non abbiamo una meta definita, lo si percepisce strada facendo insieme, quando inizio a vedere volti che prendono luce. Ho visto dei volti che cambiavano: questo vuol dire che il gesto sta irrorando qualcosa non nel vaso sanguigno, ma qualcosa legato allo stupore di riconoscersi in un

inizia martedì 7 luglio e andrà avanti fino al 22 luglio la quinta edizione

dei “Cenacoli Fiorentini – Gran-de Adagio Popolare”, ideata da Virgilio Sieni che presenta sei azioni coreografiche in altret-tanti cenacoli fiorentini (Sant’A-pollonia, Ognissanti, Santa Croce, Santo Spirito, San Salvi San Marco). Luoghi straordi-nari, con opere di Domenico Ghirlandaio, Taddeo Gaddi, Andrea del Castagno, Andrea del Sarto, Andrea Orcagna, per lo più fuori dai grandi flussi turistici che invadono la città, nei quali Virgilio Sieni ha “appoggiato” coreografie leggere eppure intense, realizzate non da ballerini professionisti ma da persone “comuni”, che scoprono così capacità espressive del loro corpo inimmaginate. Virgilio Sieni spiega in questa intervista il senso di questo lavoro.Cosa evocano in te i cenacoli, tanto da farne luoghi di continuo ritorno da qualche anno per le tue coreografie? C’è forse l’idea di luoghi che hanno forse perso il loro senso primigenio di luoghi dove si condivideva il pane, cui tu cerchi – almeno per il tempo dell’azione scenica - di restituire un senso?L’ideale per me sarebbe rendere questi luoghi quotidianamente aperti ad una frequentazione continua; togliere questo senso museale che hanno adesso e la-sciare solo questo grande spazio vuoto, vacuo, con l’affresco in fondo a rammentare la presenza di un maestro, di una intensità. Dopo di che sono luoghi che si aprono immediatamente ad una caduta nel contemporaneo: io lo vedo dalle persone che stanno lì, praticano luoghi vivi. Io li ho sempre percepiti come una grande opportunità. Poi, invece, sono luoghi al momento ancora destinati ad essere osservati con questo distacco, secondo un per-corso a volte museale, con delle opere che non appartenevano a quel luogo e che vi sono state inserite successivamente e che perdono questo aspetto. Certo che dal primo momento che vi sono entrato, ho subito pensa-to all’idea del Grande Adagio Popolare: voglio portare dentro persone, non professionisti; per-sone che rinegoziano continua-

di Simone [email protected]

I cenacolidi Virgilio

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camminate avvengono le azioni coreografiche. Però c’è questa idea di includere nella geografia altri cenacoli, perché si tratta di un percorso in spazi che, nono-stante siano a portata di mano, non vengono frequentati.Cosa fa la danza in questa trage-dia umanitaria delle migrazioni contemporanee? A me dà l’idea che l’espressività del corpo possa sopperire all’afasia della parola, che rischia di farsi retorica o, peg-gio, copertura delle colpe dell’ina-zione della politica.A me piace pensare a queste persone come a degli eroi, che resistono, che raggiungono l’obiettivo. La danza ha questa funzione: mettere in opera il corpo attraverso la trasfigura-zione del quotidiano. Portare la mano verso la spalla di un altro anche se può sembrare un gesto quotidiano, il modo in cui ciò avviene, la cura della lentezza, delle fragilità, delle vibrazioni, l’attenzione che portano a tutto il movimento, è chiaro che li sospende in qualche modo. E tutto questo fa parte di un ciclo che rinnova la persona umana e che fa capire che non esiste il concetto di ripetizione morta: ogni istante che l’azione viene ri-percorsa, sopraggiunge un qual-cosa che la rinnova: è cogliere questo continuo cambiamento l’importante. E il cambiamento

è quasi invisibile. Tutta questa eclatanza che spesso il mondo dello spettacolo di porta, è il contrario di quello che i nostri “danzatori” stanno facendo. Le azioni quasi scompaiono. Addirittura alcuni gruppi agi-scono coreograficamente e non si percepisce quello che accade, perché avviene dietro e non si vede. E per questo che tutti i Cenacoli quest’anno si può camminare liberamente e quindi avvolgere l’azione, perché stando fermi molte cose si perdono. E anche questo “perdere” però è qualcosa di importante nell’azio-ne: “non importa vedere tutto”. Bisogna percepire che anche la coreografia sta donando qualco-sa e guardandone un dettaglio si può avere il senso del tutto, se quel dettaglio viene contestualiz-zato. In queste situazioni in cui propongo contemporaneamen-te 4-5 azioni sceniche è bello vedere che all’inizio il pubblico sembra impazzito e si muove continuamente per la paura di perdere qualcosa che sta avvenendo; poi dopo 10 minuti il movimento rallenta, si placa; dopo 20 minuti le persone iniziano a sedersi in terra op-pure fanno piccoli spostamenti. Questo è importante: anche il pubblico si adegua al ritmo naturale della coreografia e trova il suo equilibrio.

CanGo e la tua compagnia hanno ricevuto di recente un importante riconoscimento dal Ministero per i beni e le Attività Culturali, quello di Centro di Produzione della Danza per il triennio 2015-2017: cosa significa per te?Quando siamo nati come CanGo questo era uno degli scopi: far intuire ad un livello ministeriale che c’era bisogno di qualcosa identificato come un centro di produzione a livello nazionale. Il percorso è stato lungo, però se non altro qualcosa ora si vede. Non vorrei parlare di “premio”, però spero che questo serva come “segno” anche per altri per lavorare nel territorio in un certo modo: più che pensare all’aspetto produttivo tout-court, cercare chi ha le capacità e le vocazioni, individuare i luoghi, trovare i giusti dialoghi con chi può darti questa possibilità e iniziare a sedimentare nei territori un discorso più legato alla conti-nuità delle pratiche, all’apertura delle porte. Stiamo parlando di contemporaneo: discorso deli-cato, ma il contemporaneo deve aprirsi a questa frequentazione. Con queste comunità di persone con cui costruisco le coreografie, molti arrivano qui incuriositi, perché qualche amico gli ha detto che lì si fanno delle cose strane o delle cose belle, però dopo pochi incontri queste per-sone diventano dei fanatici del corpo e dei conoscitori del con-temporaneo; sono persone che poi ragionano e discutono sulla qualità del passo, sull’equilibrio, usando una terminologia che fa sì che quando poi partecipano agli spettacoli hanno maniera diversa di decodificare l’azione. Non si chiedono più “che vuol dire?; vogliono partecipare per apprendere di più. Si tratta di persone normali. Questo penso che sia importante per un terri-torio: accompagnare le persone ad un percorso aperto, non al professionismo che oggi si è molto chiuso. Bisogna rovesciare anche il concetto del danzatore professionista che oggi deve essere in grado di collaborare a questo percorso: in grado di muovere l’altro, riconoscere e indicargli le fragilità, sapere come spostarlo, diventare lui stesso maestro. Questo sarebbe il percorso da fare adesso.

qualcosa di inaspettato. Molti mi dicono “non me l’aspettavo” e io dico sempre la poesia di Ca-proni: “Non c’ero mai stato, mi accorgo di esserci nato”. E’ come se dicessero: “Ma come, io tutto questo? E non solo quello?”.Negli anni precedenti tu avevi scelto cenacoli poco conosciuti, qualcuno anche negletto, come quello di San Salvi che è bellissi-mo ma sta in un mondo – quello dell’ex ospedale psichiatrico – che la città ha rifiutato e non ricono-sce. Quest’anno hai aggiunto an-che i cenacoli più celebrati (Santa Croce, San Marco, Santo Spirito): perché? Io ho un po’ il sospetto che forse proprio il loro essere “celebra-ti” e toccati sull’altare del turismo di massa, li renda in qualche modo più bloccati e bisognosi di vita. O no?Sì, come sai la mia teoria è quel-la di appendere dei manifesti bianchi, così da togliere spazio ad altre azioni più invasive e improprie in questi luoghi. In questo caso, dopo quattro anni, avevo voglia di dare ancora più possibilità di visione. La mani-festazione va a creare un’onda di persone che si immergono in questo mini-ciclo. Mi piace molto questa migrazione che si svolge giorno dopo gior-no; trovare persone che erano presenti alla stazione precedente. Così volevo ampliare questo ciclo. Santa Croce mi permette di includere tre esodi, tre azioni coreografiche contemporane-amente. C’è questo tema che vado indagando recentemente della folla: abbiamo iniziato in cenacoli piccoli, minimi e ades-so, da diverso tempo, lavoro con gruppi più numerosi, appunto delle comunità. Per cui in Santa Croce saranno una cinquantina le persone coinvolte contem-poraneamente; c’è l’idea di una comunità organizzata che solo in questa situazione può essere percepita. Ho poi incluso anche un luogo non propriamente ce-nacolo: dal cenacolo di S.Marco dipinto dal Ghirlandaio, infatti, passiamo ma poi andiamo alla biblioteca del Michelozzo e lì entriamo nel tema dell’esodo di quest’anno: è una navata molto lunga (più di 30 metri e larga 4), per cui si entra in questa trincea, visto che gli esodi si svolgono come dei passaggi da un lato all’altro e durante queste

Virgilio Sieni spiega il “Grande adagio popolare” dei Cenacoli fiorentini

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Le vostre Sorelle sono entrate in possesso di un documento sonoro esclusivo, che non ha eguali per importanza nella storia di Fio-renza, che attesta come i grandi fatti della storia possono na-scere da colloqui estemporanei, purché siano grandi uomini a farli. E i nostri Dario Nardella e Eugenio Giani lo sono senza dubbio alcuno.“Pronto Dario? Senti, io avrei un’ideuzza che mi frulla per il capo da diversi anni ma, capi-rai, prima quel serioso di Dome-nici e poi quella prima donna di Renzi (si fa per scherzare, eh, Matteo) mi hanno strozzato il bambino nella culla e non se n’è fatto di nulla. Ma ora che ci sei tu la musica cambia. Io vorrei proporre di far riconoscere il Calcio Storico bene patrimonio-mondiale dell’umanità UNE-SCO. Che ne dici?”“Caspita Eugenio, sei un vulcano: ma come ti vengono queste idee così geniali? Bisogna però dire a quei ragazzoni dei quattro colori di andarci un po’ più leggeri con la violenza. Però, si può fare”“Ma pensa, Dario, potremmo mettere su una linea di mer-chandising favolosa: le magliette

finto sudate e strappate, le vu-vuzela formato chiarine, i lobi di orecchie mozzate dei calcian-ti vecchie glorie, i gagliardetti dei quattro colori. E poi fac-ciamo un bel museo del Calcio Storico, di cui ovviamente mi onorerò di essere presidente”“Ma certo, Eugenio, figurati se ti nego la soddisfazione della tua nona presidenza di qualco-sa. Piuttosto, io alla tua idea ne

aggiungerei una mia: facciamo un bel pacchetto e presentiamo all’UNESCO anche la candi-datura della Festa della Rifico-lona e dello Scoppio del Carro. A proposito come si traduce in inglese Rificolona? Boh. Pre-sentiamo la candidatura con la canzoncina... come fa? Ona-o-na-ona la più bella rificolona... la mia l’è co’ fiocchi, la tua l’è co’ pidocchi. Forte, eh?”

“Già, ma allora, già che ci siamo, mettiamo dentro anche la Festa del Grillo delle Cascine, la Festa della Gnoccata di Ser-piolle e la Sagra del Crostino di S.Brigida. Così sai come riman-gono di stucco quei professoroni dell’UNESCO?”“No, Eugenio, la Festa del Gril-lo non si può ché si incazzano gli animalisti; la Gnoccata la prendono per un parolaccia e S.Brigida è fuori comune”“Va beh, Dario, ma io son presidente del Consiglio Re-gionale e devo allargare i miei orizzonti. Ma stai tranquillo, mai fino al Gioco del Ponte di quei pisanacci. Va bene che ho detto basta con i campanilismi, ma fino ai pisani non si può arrivare!”“Allora Eugenio, facciamo una cosa: si fa come gli americani e tutte le mattine si fa l’alza-bandiera davanti a Palazzo Vecchio, con i figuranti del Calcio Storico e le chiarine. Così vengono tutti i turisti e noi poi si portano al tuo museo!”“Ganzo, Dario, sei il mio degno erede! Ah,e poi non dimenti-carti di intitolare una strada al Calcio Storico”.

riunione

difamiglia

Pare che l’amato leader Kim Jong Un non abbia apprezzato l’architettura del nuovo aeropor-to di Piongjang. Il che per gli standard qualitativi dell’archi-tettura nord coreana deve voler dire che doveva essere proprio una ciofeca, visto che vengono considerati magnifici imponenti mausolei squadrati o una masto-dontica quanto inutile piramide in cemento armato che sarebbe dovuta diventare il miglior

albergo della capitale. Cosa fare in questi casi? Ma far fuori l’ar-chitetto realizzatore del progetto, in ossequio al caro amico del nonno di Kim, baffone Stalin, che proclamava: “il problema è l’uomo. Elimini l’uomo elimini il problema”. Una soluzione un po’ estrema che però, di fronte a molte realizzazione di architetti anche nostrani non ci sentiamo di escludere a priori nel novero delle possibilità.

Pippo Civati ha sempre avuto problemi nelle scelte. Ogni voto, ogni dichiarazione di uscita dal Pd, ogni panino comprato alla Buvette ha messo in difficoltà Pippo che fino all’ultimo ha sem-pre lasciato aperto una seconda chance. Non stupisce quindi che

il suo nuove partito si chiami Possibile (e mi raccomando non “è possibile” che poi c’è il rischio che qualcosa si realizzi…). Come nello stesso modo è da considerare il simbolo del partito, un cerchio né rosso, né rosa, con due righe orizzontali (e non tre come Emer-

gency, né una come il divieto d’ac-cesso). Un manifesto ideologico del civitatismo, un po’ riformista e un po’ comunista, un po’ uomo e un po’ donna, un po’ in Europa e un po’ nel Mediterraneo, un po’ carne e un po’ pesce. Ma in fondo è Pippo, Pippo per sempre.

Dopo la Banca di Fassino non mi stupirei, tra qualche anno, se comparisse un’intercettazio-ne tra Erasmo de Angelis, neo direttore de l’Unità e Francesco Bonifazi, tesoriere del PD. Perché la conquista de l’Unità da parte dei renziani (accla-mati salvatori di un giornale che loro stessi avevano chiuso) è manifesta e rivendicata a partire dall’editoriale del neo direttore nel primo numero.

Due gli obiettivi dichiarati del giornale: essere la voce del ren-zismo e non fare prigionieri a sinistra del PD. Il primo è, per la testata fondata da Antonio Gramsci, una novità assolu-ta; mentre il secondo è più in linea con la tradizione storica del giornale che fu organo del PCI. Peccato che a interpretare tale linea sia un giornalista che, una vita fa, scriveva sul il Manifesto.

le Sorelle marx

lo Zio di TroTZkyi Cugini engelS

il FraTello di maleviC

Patrimoni che tutti ci invidiano

C’avemo er giornale

Un altro Pippo è sempre possibile

L’architetto coreano

BoBo

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BAUA distanza di tredici anni dalla presentazione del primo progetto, l’Asso-

ciazione culturale BAU torna a far riflettere sull’importanza dell’Arte come espressione cultu-rale e strumento inesauribile di possibilità, con un nuovo nume-ro della rivista d’autore «BAU. Contenitore di Cultura Contem-poranea», dedicato al mito e alla contemporaneità di Leonardo da Vinci. BAU Dodici coniuga funzionalità e immaginazione, invettiva e creatività, riportando alla memoria l’attualità del genio vinciano, attraverso il tema este-tico della “macchina” e mettendo in luce quella fascinazione inin-terrotta divenuta oramai un vero e proprio fatto di cultura, un fenomeno ideologico, artistico, interdisciplinare e poliedrico, un mito che ha permesso di mettere insieme intelligenza, sentimen-to e ragione, convogliate nella direzione dell’universalità, come amore per il sapere, la creatività e l’ingegno, come inarrestabile tendenza alla creazione e alla necessità di trasformazione e in-novazione, la cui testimonianza si concretizza perfettamente nella collezione di leonardismi del Museo Ideale Leonardo da Vinci di Vinci e dalle collezioni temati-che dell’Archivio Carlo Palli. Di fatti, grazie a tali collaborazione e contemporaneamente alla presentazione del nuovo numero della rivista, l’Associazione BAU ha fatto coincidere l’esplicativa ed esaustiva mostra – inaugu-

di laura [email protected]

rata domenica 28 giugno alla GAMC di Viareggio – dal titolo Leo Ex Machina, per omaggiare

e riflettere in sintonia concet-tuale la culturalità che il genio rinascimentale di Leonardo da

Vinci incarna e che da sempre è stato oggetto d’ispirazione e venerazione, non solo per la sua opera pittorica, ma anche per la grande inventiva e humanitas, che ha fatto di lui una leggenda misteriosa e immortale in ogni campo del sapere e che inevita-bilmente gli artisti hanno sentito e sentono vicino alla propria personale ricerca. Per l’occasione sono intervenuti artisti italiani e internazionali con performances e azioni e poetiche che hanno posto l’accento sul tema della creazione e del lavorio mentale, come Paolo Albani, Ingegneria fantastica; Leonardo Bossio, No Army; Antonino Bove con Ida Terracciano, La borsa di Mnemosine; Jakob De Chirico, Marcel Duchamp, Joseph Beuys, Pablo Picasso, figli di Leonardo da Vinci, emigrati ad Amboise; ForA, P.O.M.A.; Kiki Franceschi, Hol-low Men (Omaggio a T.S. Eliot); I Santini Del Prete con Massi-mo Gentili, I Santini Del Prete sub machina; Roberto Rossini, Sandroing - azione estetico rituale; Giacomo Verde, Dimostrazione del Marchingegno Elettronico EPAD. Una serie di azioni in progress corredate da video proiezioni di Maurizio Cesarini, The White Shadow; Glauco Di Sacco, Simmetrie infrante; Dani-lo Sergiampietri, Una macchina che non fa un tubo; Emiliano Zucchini, Capturing Memories, che hanno fatto da sfondo a un pomeriggio inebriato di arte e cultura, secondo un punto di vista dialogico, universale e totale veramente inedito e stimolante.

12Leo Ex Machina

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Fra le cose più imbarazzanti che un genitore può lasciare ad un figlio, vi è certamente

un cognome importante. Spe-cialmente quando il figlio decide, per un motivo o per un altro, di esercitare la stessa professione del genitore. Un cognome famoso in molti casi può aiutare, ma molto più spesso porta a dei confronti che sono difficili da affrontare e supe-rare. Amy Arbus ha solo diciassette anni nel 1971, quando la madre Diane Arbus si uccide, ed all’epoca non pensa affatto di diventare una fotografa. La sua prima immagine, scattata all’età di quattordici anni, ha avuto su di lei un impatto tale da spaventarla, e fino all’età di ventuno anni non prende più in mano una fotocamera. In realtà preferisce studiare musica presso il Berklee College di Boston, ed è solo dietro le insistenze di un amico che un giorno, in un parco, rimette l’occhio nel mirino e rimane affascinata dall’immagine inquadrata, rimanendo ugualmente affascinata dai successivi processi di sviluppo e stampa, un mondo che aveva fino ad allora ignorato, pur avendo vissuto in una casa piena di immagini. Viene conquistata dalla magia dell’immagine fotografica, dalla capacità di vedere il mondo come nessuna altra persona, e nello stesso tempo dalla impre-vedibilità di un processo che ella vorrebbe dominare, ma che si rivela denso di casualità e di elementi imponderabili. Inizia nel 1980 a scattare per “The Village Voice” delle immagini alle persone che incontra per strada, persone famose ma anche persone comuni, allo scopo di individuare il loro “stile”, il modo in cui si confrontano con i dettami della moda del momento, ed il modo in cui la personalità di ciascuno finisce per determinare uno stile personale di abbigliarsi, ma anche di essere. Nel corso di questo lavoro Amy sviluppa un nuovo modo di relazionarsi con le persone, e sviluppa la convinzione che appropriarsi dell’immagine di qualcosa o di qualcuno è come ap-propriarsi di una parte di quell’og-getto o di quella persona. Nel 1991 per la stessa rivista realizza un ser-vizio sulle prostitute, con un taglio analogo ad un servizio sulla moda, e nel 1992 partecipa ad un master sul ritratto con Richard Avedon, nella veste di maestro, ma anche di

di danilo [email protected] amico di famiglia. Lavorando sulla

propria immagine comprende il potere della fotografia di registrare i sentimenti, al di là dei volti, rea-lizzando per la prima volta il peso e l’importanza della figura mater-na. Lo stesso Avedon riconosce l’influenza della personalità della madre sul lavoro di Amy, ma rico-nosce anche il segno della continu-ità e della sua autonomia. Se Diane ripeteva “Amo andare là dove non sono mai stata” il percorso di Amy la porta “là dove Diane non è mai stata, e dove nessuna altra persona è mai stata”. Nel 1986 pubblica il suo primo fotolibro “No place like home”, sulle persone che vivono in luoghi inusuali, e nel 1999 pub-blica “The inconvenience of being born”, sulla sensibilità dei neonati, che fotografa fino dal momento del parto e che accompagna nella crescita e nei continui cambiamenti delle percezioni e delle reazioni al mondo esterno. Nel 2006 viene pubblicato il fotolibro “On the Street”, con una raccolta delle immagini scattate in strada fra il 1980 ed il 1990per la sua rubrica, dallo stesso titolo del libro. Una galleria di personaggi di ogni tipo, giovani o vecchi, da soli, in coppia o in gruppo, non è solo un insieme di tipi, ciascuno con la propria individualità, la propria storia, il proprio “stile”, ma un affresco degli anni Ottanta di New York, di quello che si muoveva in quel decennio sul piano della cultura, dell’arte, della musica, del costume, e non solo della moda indossata, che diventa un pretesto per una ricerca meditata e profonda. Nel 2008 pubblica “The fourth wall”, quel fotolibro che il New Yorker ha definito come il suo ca-polavoro, e che indaga il rapporto fra gli attori di Broadway ed il loro ruolo, oltre la “quarta parete” del palcoscenico. Il suo quinto libro “After Images” è un omaggio ai maestri della pittura del Novecen-to, in un rapporto ambiguo fra il rappresentato e la percezione del reale, condizionata dai dati della memoria. Oggi Amy Arbus insegna ritratti-stica presso lo International Center for Photography di New York e presso il Fine Arts Work Center del Massachussets, ed ha tenuto o tiene dei corsi temporanei presso lo Anderson Ranch Arts Center del Colorado, Nordphotography in Norvegia ed il Toscana Photo-graphic Workshop.

Amy Arbustutta sua madre?

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com’era decorata in origine la statua. L’effetto è incredibile: in un colpo solo capisci l’equivoco di Winckelmann e la necessi-tà di rivedere profondamente il tuo immaginario. In altri musei, quello di arte bizantina per esempio, è tranquillamente diffuso l’utilizzo degli ologram-

mi per ricostruire l’aspetto di un pezzo. Ripeto: ologrammi.Al secondo piano del museo dell’Acropoli c’è un bar ristoran-te fighissimo con vista sul Par-tenone. Verso le otto, che non è affatto tardi, ci hanno fatti uscire perché ospitavano una cena im-portante. Stavano preparavano

il buffet e il tavolo delle grandi occasioni. Una volta fuori ci sia-mo accorti che stavano arrivando le macchine di rappresentanza. DENTRO il ristorante del museo dell’acropoli si teneva una cena politica importante. Mi è un tantino caduta la mandibola e in quel momento ho provato invidia.Ovviamente questo diario non ha la pretesa di essere un saggio di economia o di sociologia, ma se chiedi ai greci della paura del Grexit, almeno quelli che conosco non ci credono proprio. Non sono anti-europeisti. Direi al contrario che sostengono l’im-portanza politica, simbolica ed economica dell’unione europea. Ma non credono proprio che ci sarà un Grexit.In sostanza la Grecia, attual-mente, non è un paese abitato dagli zombies. Non vi beccate una molotov tra capo e collo; piazza Sintagma è tornata alla normalità; i mezzi funzionano (bene); la gente lavora; le strade sono pulite; non si vedono orde di affamati; i concerti continua-no; si inaugurano nuovi musei; i siti archeologici sono visitabili; il pesce è buono; i ristoranti lavorano; le persone non sono vestite come Anthony Quinn. Ma qualche bar per turisti che suona il sirtaki lo trovi sempre.

Abbiamo incontrato italiani che si erano trasferiti lì, come spesso succede, per

seguire il lavoro e di conseguen-za la famiglia. Nessuno voleva tornare indietro. Nessuno si pentiva delle scelte fatte. Quegli italo greci hanno sguardi puliti e voci serene: nessuna incrinatura che tradisca il senso di fallimen-to o di frustrazione. Faticano, ovviamente, così come fatichia-mo noi. Spesso fanno più lavori insieme, come facciamo noi. Ma tutto questo non è necessaria-mente una maledizione biblica. Non so come dire: c’è fermen-to. E non è il fermento della disperazione. Sta la crisi, mica la peste...Se quando sono scesa all’ae-roporto sono rimasta un poco scioccata, perché pensavo di capitare in un paese di zombies, ripartendo sono rimasta ancora più sorpresa. Il concerto c’è stato il 27 maggio e la prestazione è già stata pagata. L’ente, pur da un’altro paese dovendo passare attraverso sistemi fiscali diversi, ha pagato entro i 15 giorni. Non so se vi rendete conto di quanto tempo occorra in Italia per essere pagati nel campo della cultura e dell’arte... È vero, l’Onassis è un cento culturale privato, ma credo ci sia anche una valutazione della cultura diversa, almeno nel cam-po che ho sperimentato. Non so a quando risalgano queste scelte e questa situazione ma nell’estate 2015 è così.Siamo andati a vedere il museo dell’acropoli, peraltro magnifico. Va bene il lavoro, ma quello non lo potevo proprio mancare. Il moderno che abbraccia l’antico a me piace sempre molto. Al terzo piano hanno riprodotto le metope del Partenone mancan-ti, quelle che sono al British. Originali e copie, state disposte disposte in fasce a costruire un motivo continuo per cui si ha un’idea realistica di cosa era quell’edificio.Al primo piano, hanno fatto un lavoro didattico sul colore nella statuaria classica veramente note-vole. Accanto ad alcune statue c’è un monitor su cui gira un video che illustra il rilevamento dei pigmenti fino a ricostruire i colori fronte e retro. A fianco c’è una copia in gesso decorata

di ilaria [email protected]

La crisi greca?Parte 2

Il migliore dei Lidipossibili

Turista tedesco ammira

il rigore nel restauro di una colonna greca.

Disegnodi Lido ContemoriDidascalia di Aldo Frangioni

di lido [email protected]

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sono nemiche Bruco e Giraffa quando l’inimicizia non c’è più da vent’anni (il bello è che lo scrive) e si dimentica quella più antica della storia del Palio tra Torre e Onda. Qui la fonte si tradisce: si capisce bene che è un fiorentino, che si è “fatto battezzare” nella Torre e che gli sarebbe tanto piaciuto nascere a Siena. Lo perdono perché so che ama Siena in modo sincero (e per questo è di parte).Ma lasciamo stare i senesismi. Dirò francamente che quando ho comprato il libro ho letto subito le prime pagine per capire dove andava a parare. La prima sensazione è stato quella di ri-portarlo al libraio che me l’aveva venduto come si fa con la merce scaduta. Poi mi sono fatto corag-gio e sono andato avanti. Dirò che alla fine, spogliandomi delle mie vesti colore della Balzana, se fossi un maestro elementare (che non ci sono più) ma non lo sono, gli darei comunque 6. Un bel voto per un foresto che ha fatto un collage. Il suo, alla fine, è un racconto abbastanza onesto, di cose in gran parte risapute e messe in fila. Però, almeno le ha messe in fila con ordine, chiarezza e onestà. Purtroppo manca il sapore dell’inchiesta che si dovrebbe richiedere a un libro del genere. Sembra un program-ma televisivo di Carlo Lucarelli, di quelli che lì per lì ti appassio-nano e alla fine, ti fanno dire: “E allora?”. Mi sarei aspettato qual-cosa di più su Giuseppe Mussari, sui suoi amici romani, o baristi o gestori di night diventati ban-chieri all’improvviso, qualcosa di più su Franco Ceccuzzi (ex segre-tario del Partito, ex sindaco) che insieme al suo amico Beppino ha delle responsabilità storiche e politiche gigantesche, di tutta la corte di personaggi (tra cui tanti giornalisti) che pendevano dalle labbra di Beppino e Franchino, che li hanno blanditi, consigliati, leccati e qualche volta anche spinti e che ora sono tutti ai loro posti, tranquilli e pasciuti; anzi qualcuno ha anche fatto carriera. E ora magari sono i primi a sputare sull’ex duo delle meravi-glie. Insomma, mi sarei aspettato meno archivio e più inchiesta. Anche a costo di pestare qualche merda. E in un letamaio come avevano fatto diventare Siena, ri-conosco che sarebbe stato facile.

Premessa fondamentale: non sono la persona più adatta per recensire “Siena

brucia” di David Allegranti, edizioni Laterza, 161 pagine, prezzo 18 euro. Motivo sempli-ce: sono di Siena e il tentativo di un foresto di venire a farci le bucce francamente mi piace poco. Per principio. Quindi parto prevenuto. E’ vero che un giornalista dovrebbe guardare il mondo dalla luna e registrare quello che accade. Ma Siena è Siena, è carne viva, anche se molti pensano che sia una città morta. E sopratutto non è un posto come gli altri. Molti foresti (gente che viene da fuori, ma da lontano; quelli che vengono da vicino, tipo la provincia, sono gazzillori) nei secoli si sono divertiti a cercare di farci passare per gentuccia. Qualcuno per tut-ti: Dante Alighieri che ci definì gente vana e poi, magari, Curzio Malaparte che non ebbe certo per Siena parole dolci. Già questi paragoni rendono l’idea di quan-to rispetto (senza ironia) abbia per il buon David Allegranti che non conosco personalmente ma di cui ogni tanto leggo con gusto le cronache. David è uno scoiattolo della categoria che non si è fatto sfuggire l’occasione di scrivere un libro su una storia che ha sconvolto l’opinione pubblica italiana. Quindi un libro di successo “per forza o per amore”, come si direbbe a Siena. Ha cercato di fare un lavoro diligente raccogliendo (citandoli onestamente) articoli scritti da altri, deposizioni, resoconti. Francamente tutte cose che si sapevano. Poi ha parlato con qualcuno che gli ha raccontato qualcosa senza mai uscire dai binari e qualcosa per sentito dire, come che il giorno del funerale di David Rossi volato giù dalla finestra del suo ufficio al Monte pioveva (non c’era un ombrello aperto e nel primo pomeriggio fece capolino anche un tiepido sole) oppure che la vedova era in chiesa. Invece Antonella era a casa, distesa sul letto, circon-data un pugno di amiche che non riuscivano farla smettere di piangere per quanto ci provasse-ro. Ma per noi senesi c’è qualche altro errore blu. Uno su tutti: le inimicizie tra contrade. Dice che

di aleSSandro [email protected]

Scavezzacollodi maSSimo [email protected]

Se Siena brucia, non servivaun pompiere

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Intorno all’anno mille un ricco-ne dissoluto, per grazia ricevuta, si convertì al Cristianesimo, si fece eremita e destinò le sue ricchezze alla costruzione di un grande monastero dedicato a San Donato (non è chiaro se fosse il San Donato vescovo di Arezzo, il San Donato vescovo di Fiesole, o uno degli altri trentadue San Donato dei quali pullula il martirologio) in riva destra del Mugnone, in prossi-mità dell’attuale Via di Novoli.Senza preoccuparsi più di tanto di quale fosse il Santo titolare, inizialmente furono i mo-naci agostiniani a occupare il monastero e il colore grigiastro del loro saio ispirò il nome della zona, che fu chiamata “Polverosa”. Dal monastero di San Donato partirono nel 1187 i duemila crociati fiorentini al comando di Pazzino de’ Pazzi. Nel 1235 il monastero passò ai frati Umiliati, specializzati nella tessitura della lana, che però si trasferirono poco dopo nel convento di Ognissanti, e furo-no soppiantati dalle monache

cistercensi; nel 1529, durante l’assedio di Firenze, le religiose videro il loro monastero trasfor-mato nel quartier generale del conte di Lodrone, comandante nientedimenoche dei lanziche-necchi.Soppresso il monastero nel 1809, nel 1814 la chiesa vendette la struttura al conte Nicola Demidoff. I Demidoff erano una famiglia originaria di Leningrado (nostalgia canaglia) oggi San Pietroburgo, che avevano fatto fortuna con le miniere di argento, diventando “principi dell’Impero”. Lo zar aveva nominato Nicola am-basciatore a Firenze e il conte aveva raccolto nel suo palazzo sul Lungarno Serristori una grande collezione d’arte, poi tra-sferita dal figlio Anatolio nella stupenda villa che era sorta sulle rovine del monastero: la Villa

era talmente sfarzosa da essere nota come “la seconda reggia di Firenze” ed era circondata da un immenso parco, al centro del quale si trovava addirittura un lago.Quanto a parchi, però, niente poteva stare al pari di quello realizzato intorno alla Villa Medicea di Pratolino acquistata dai Demidoff nel 1822 (quello che rimaneva, perché il corpo principale della Villa era andato distrutto). Nel 1981 l’ultimo di-scendente dei Demidoff cedette il complesso di Pratolino alla Provincia di Firenze, che, dopo

lunghi lavori di sistemazione, lo aprì al pubblico e ne fece la sede di numerose manifestazioni, la più singolare delle quali si svolse nell’aprile del 1997.In quel mese pas-sò sulla verticale di Firenze la co-meta Hale-Bopp e l’Osservatorio

di Arcetri allestì un punto di osservazione con dei telescopi a Montili, il punto più alto del parco di Villa Demidoff, del tutto privo di inquinamento luminoso. Alcuni sconsiderati di ATAF organizzarono un servizio di trasporto dal parcheggio della Villa fino a Montili: gli autobus carichi di persone si inerpica-vano nella più totale oscurità lungo i viottoli del parco, in mezzo al bosco e rasentando gli strapiombi. Era allora presiden-te e penalmente responsabile di ATAF tale Aldo Frangioni, ma forse non l’ha mai saputo.

saggista, raffinato collezionista di reperti archeologici e cultore di psicanalisi. In altre parole, un intellettuale versatile che concepiva la musica come punto d’arrivo di un processo culturale variegato e complesso. Naturalmente queste brevi note non possono rendere giustizia al suo valore intellettuale: per questo è necessario leggere i suoi libri e ascoltare i suoi dischi. Il filo rosso che caratterizza la vita

di Sinopoli è il solido legame con la cultura tedesca. Lo di-mostra anzitutto il grande amore per Wagner, morto proprio nella sua città natale. Il musi-cista veneziano gli ha dedicato uno studio

approfondito, oggi raccolto in due volumi: Parsifal a Vene-zia (Marsilio, 1991) e Il mio Wagner (Marsilio,

2006). Non si tratta dei classici testi musicologici, ma di opere che inquadrano il grande compositore tedesco alla luce di un’erudizione polimorfa e mai pedantesca. Molto stimato in Germania, Sino-poli è stato l’unico italiano che sia stato invitato al festival di Bayreuth per dirigere l’intero ciclo del Der Ring des Nibelungen.La monumentale opera (15 ore), con regia di Jürgen Flimm, fu

l’uscita di questo nume-ro coincide con la prima dell’opera multimediale La

voce di Sinopoli, dedicata al grande direttore d’orchestra scomparso nel 2001, che viene messa in scena al Teatro La Fenice di Venezia. Scritto da Valerio Cappelli e Mario Sisti, lo spettacolo è diretto da| Giovanni Sinopoli, figlio del musicista.Gli interpreti sono Manuela Mandracchia e Massimo Popoli-zio, figure tra le più autorevoli del panorama teatrale, che vantano una lunga collaborazione con Luca Ronconi. L’attore genovese non è nuovo ad esperienze di questo tipo, avendo già collaborato con mu-sicisti come Fabrizio Bosso, Jordi Savall e Stefano Saletti.La voce di Sinopoli ricostruisce la personalità di questo musicista ati-pico e affascinante. Nato a Venezia nel 1946, Sinopoli è morto il 20 aprile a Berlino mentre dirigeva l’Aida. Ha diretto le maggiori orchestre, dalla New Philharmonia ai Wiener Philharmoniker, dalla Staatskapelle di Dresda ai Berliner Philharmoniker.Ma è stato anche compositore,

rappresentata in quattro giorni fra il 25 e il 30 luglio 2000.Prima di lui l’avevano diretta fra gli altri Kempe, Levine, Maazel e Von Karajan.  Nell’ottobre del 1999 Sinopoli aveva rotto col Maggio Musicale Fiorentino, ritenendolo poco efficiente e troppo legato a logiche politiche. Pochi mesi dopo, nell’aprile del 2000, aveva annun-ciato che non avrebbe più lavorato in Italia, con la sola eccezione della Scala di Mila-no. Al contrario, il suo rapporto con la Scuola di Musica di Fiesole, dove ha insegnato per vari anni, è rimasto felice fino alla fine.  Il 6 maggio 2001, pochi giorni dopo la sua morte, la prestigiosa scuola fon-data da Piero Farulli ha inaugurato un auditorium intitolato alla sua memoria.Ma se questo è un omaggio che rimane all’interno del mondo musicale, La voce di Sinopoli ha una dimensione scenica e narrativa che lo rende accessibile a tutti.E’ un omaggio doveroso e sincero a questo musicista fuori dagli schemi che ha diretto Verdi e Bruckner, Maderna e Strauss. Ma soprattutto, a un intellettuale che ci ha lasciato un’eredità culturale molto preziosa.

di FaBriZio [email protected] Via della Villa Demidoff

Una cometanel parco

Il venezianodi Bayreuth

di aleSSandro [email protected]

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usati per costruire i padiglioni, alla forma e alla struttura degli elementi di arredo urbano e dei servizi. Dunque l’immagine che da di sé l’Italia, ospitando il mondo, è quella della fiera del divertimento tramite bellezza e cibo. Basta saperlo e saperlo fare bene. Qesta è la sorpresa mi-gliore dell’expo: funziona. Tante code ma che scorrono. Persona-le, volontari, forze dell’ordine sempre gentilissimi. Tanti bagni, puliti, fontanelli con acqua fresca e microfiltrata gratuita, disponi-bili sempre. Se il nostro destino è quello del villaggio vacanze (e io continuo flebilmente a sperare di no) almeno abbiamo dimostrato di essere dei bravi animator

“E ora Orgoglio Brescia vi pro-pone questo spettacolo all’al-bero della vita!”. Sono bastate

queste parole dagli amplificatori a farmi capire il senso dell’Expo dopo che da diverse ore ci giravo in mezzo. Le successive note di una canzone di Renga (cantan-te bresciano) ma soprattutto quelle di Mambo italiano subito dopo, mentre i giochi d’acqua intorno a questo totem (brutti-no) di legno cercavano di stare in sincrono con la musica, me l’hanno confermato. Siamo e vogliamo essere lo strapaese e le stereotipo che gli altri hanno di noi. Non vogliamo uscire da “pizza, mandolino i spaghetti”, forse non ci riusciamo, a questo punto non ci importa più, per cui abbiamo deciso di starci “ammodo”. E’ questo, per me, Expo 2015, a partire dal tema, il cibo, ammantato di un buonista “nutrire il pianeta”; alibi che regge il tempo di entrare in un padiglione (qualunque). No l’Expo italiano non è innovazio-ne, è ristorazione. Una enorme fiera a mezzo tra una festa de l’Unità (di quelle fatte bene di una volta con i padiglioni inter-nazionali) e una mostra dell’arti-gianato, soltanto molto più cara. Nessuna innovazione architetto-nica nei padiglioni, alcuni pure belli, ma niente che non vedi già girando per il mondo. Il trionfo del legno, del lamellare, come già siamo abituati a vedere in ogni nuova palestra dei nostri hinterland. Peggio che mai all’interno dei padiglioni, esercizi di stile più o meno tutti uguali (almeno quelli che sono riuscito a visitare), in cui si mostrano le bellezze turistiche e culinarie del paese, più che proporre una qualche soluzione ai problemi della nutrizione mondiale. Una fera di maxischermi e video proiezioni, con spazi da galleria di arte contemporanea più che da padiglione scientifico. Non resterà nemmeno Palazzo Italia, monolite di bianco rivestito a ricreare (forse) una complicata trama di rami, già vista anche in un autogrill sulla Firenze Pisa Livorno. Per non parlare della forma urbanistica dell’Expo, in cui nulla tace della prossima, futura, lottizzazione dello spazio, dalla “precarietà” dei materiali

Villaggio vacanze Italia

di miChele morroCChitwitter @michemorr

Reportage da Expo 2015

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“Come vedi ti penso” (ediz.Mi-lella) è un libro bello “girato “ da Caterina Gerardi nel Ci-

mitero Monumentale di Milano. Sono trenta foto in un intenso bianco e nero che ritraggono statue funebri di donne databili tra il Liberty di fine Ottocento e il linearismo degli anni Trenta. Ognuna di queste foto, con una scelta casuale ma fortunata, è ac-compagnata dal libero commento di altrettante donne di oggi: intellettuali, scrittrici, poetesse, donne tutte sensibili e impegnate. Donne che hanno attraversato il femminismo e hanno scelto consapevolmente il loro destino. Giuliana Sgrena, Mariolina Vene-zia, Lidia Ravera, Barbara Alberti, Alina Marazzi e tante altre. Tra loro anche una suora. Hanno scritto storie, si sono immaginate un intimo colloquio con le figure ritratte nel marmo, hanno rac-colto un mormorato addio, una sussurrata confessione. Donne di oggi emancipate e volitive ma

empatiche, hanno narrato, si sono identificate nelle tante vite di quando spesso donna voleva dire abnegazione. Uno Spoon River tutto al femminile. Si

parla di morte per parlare di vita : tutta una esistenza di rinunce, di sacrifici, di vane attese. Donne,-spose,figlie sorelle, tutte oblative. Eppure quante speranze, quanti

di riTa [email protected] Pensieri di donne

su altre donnedesideri, quanta vita in quelle delicate mani che lo scultore ha colto raggelate nel marmo. Quan-ta vita in quelle ciocche di capelli sfuggite alla casta modestia delle acconciature. Quanto desiderio di vita anche nel freddo abban-dono. “Sii dolce con me - scrive Mariangela Gualtieri - Sii gentile/ E’ breve il tempo che resta./.Poi saremo scie luminosissime. / E quanta nostalgia avremo /dell’u-mano. Come ora ne /abbiamo dell’infinità./ Ma non avremo le mani. Non potremo/ fare carezze con le mani./ E nemmeno guance da sfiorare leggere!” Spingendo altrove le proprie paure, fugando con i suoi gesti nervosi i pensieri che talvolta ci affliggono nei luoghi dell’addio, Caterina Gerar-di si aggira nei deserti, ombrosi viali del Cimitero Monumentale di Milano: fotografa il ricordo del ricordo, fissa nello scatto gli “amorosi sensi”, la scia leggera che rimane di tante vite perdute. Un nome, una data, la parvenza di un viso che, gli altri, hanno vo-luto ritratto eternamente giovane.

Ciò che sto per scrivere è un’ipo-tesi di lavoro: primo, perché il suo oggetto è la pittura astratta, i cui recessi semantici sempre invocano l’apertura di un’indagine dagli esiti non scontati e men che meno definitivi; secondo, perché si tratterà di percezioni/riflessioni di un profano - appassionato sì, ma pur sempre profano. Così posso parlare delle opere di Roberto Miniati nella mostra che si tiene dal 13 giugno a fine agosto presso la Sala del Basola-to del Comune di Fiesole e dal titolo che già è un programma: “Affinità selettive”. Nel riferimen-to all’opera di Goethe il passaggio dalla ‘elezione’ alla ‘selezione’ - che ripete (depurato dal dramma) il binomio necessità/libertà - pare alludere alla fatica dell’artista, al silenzioso setaccio, alla “media-zione interiore” che sottendono segnatamente l’arte astratta. Lo conferma Miniati (per il quale dipingere è “un cammino tra memorie e sogni, un atto intimo racchiuso dentro un palpito ansioso, ricco di attese e di solitu-dine, alchimia schiusa nelle mani di uno sciamano”) che, fors’anche in virtù degli studi giovanili di psicologia, ben sa come tutto

avvenga “all’interno dell’anima e del nostro inconscio”. Dunque l’opera astratta non deve – e, aggiungo, non può - sorpren-dere, perché “essa è uno specchio d’interiorità”. E concordo con Giovanni Faccenda quando, in

prefazione al bel catalogo, situa la produzione di Miniati “in un ver-sante ‘altro’ e alto dell’astrazione”. Il colore è - qui più che mai - la temperatura di un’anima e tanto mi basta a leggervi un profondo equilibrio – lo stesso che am-miriamo nelle proporzioni della Cupola del Brunelleschi e che invera le origini toscane dell’ar-tista – arricchito da uno sguardo curioso, a volte (auto)compiaciuto - ma con discrezione - sull’esisten-za. Se l’architettura compositiva di molte delle opere di Miniati rinvia immediatamente al suo “la-birinto interiore”, una volta tanto il labirinto – complesso ma anche segnato da linee ampie e distese - non è il luogo dello smarrimento o, peggio, della disperazione, bensì un itinerario da seguire con padronanza e fiducia, senza l’ansia della fuga o il problema d’una via d’uscita. La razionalità, la passio-ne misurata e, a tratti, l’ironia che avverto nei quadri di Miniati, ne esprimono una unità/uniformità di fondo che non esclude strava-ganze (come in “San Pietro senza chiavi” e in “Aperitivo con oliva”) e innovazioni formali (“Il gioco”). La stravaganza è la cifra di tutta l’arte astratta perché, espun-gendo da sé l’imitazione delle

di Paolo [email protected] Opera

astrattaSpecchio d’interiorità

forme della natura, si concentra su quelle dell’interiorità e le porta in superficie con il carico di soggettività ed enigmaticità (ove non indecifrabilità) ad esse connaturato. Per ciò il titolo diventa strumento ermeneutico che guida al combinato-disposto di linee e colori, è estrinseco all’o-pera eppure costitutivo della sua identità. Nell’“aperitivo con oliva” si distingue l’oliva ma non è dato l’aperitivo - se non grazie al titolo. Posso indovinare un bicchiere, il banco del barman e forse i tavoli. Semmai o soprattutto mi pare, a questo punto, di coglierne la situazione impalpabile, così come in “Red carpet” respiro l’atmo-sfera magica, charmante di una rassegna di dive del cinema. Sarà davvero così? E soprattutto, che cosa avrei immaginato con un diverso titolo?Fascino potente dell’arte astratta che, se imita qualcosa, imita alla fine l’entità reale ma inconsisten-te della vita, con gli inganni, le apparenze, l’assurdità di cui è ca-pace! Ed è lo statuto dell’arte tout court che – almeno da Duchamp in poi – concede all’arte stessa tutto l’arbitrio e il capriccio che le sono necessari per ‘rappresentarla’ al meglio.

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Ho conosciuto Marcello Bucci nella prima parte della mia vita, quella totalizzante dell’impe-gno politico, quando invece lui era nella sua seconda parte, quella dell’impegno professio-nale. Oggi che l’avrei raggiunto nell’era del “disimpegno”, un male terribile ce l’ha portato via. Persona notevole Bucci. Uno che nel mondo della politica assoluta, nella tradizione della “fila” , della carriera garantita per più o meno tutti aveva “dirazzato”. Non l’avevano rottamato, aveva semplicemente fatto altro e l’aveva fatto bene. Ricordo la passione, che mi rac-contavano uguale nell’impegno politico e amministrativo, che metteva nel suo mestiere di “co-municatore”, in una stagione in cui non andava ancora di moda definirsi tale. Poi la musica e la cultura, l’amato sassofono. Ave-va stile Marcello Bucci ed era

una gran bella persona, di solito si dice di tutti quelli che se ne vanno, per questo mi dispiace molto non averglielo potuto dire di persona.Il 29 giugno è scomparso Mar-cello Bucci. Dopo essere stato consigliere comunale e assessore fu sindaco di Pistoia dal 1988 al 1992 , presidente dell’ANCI dal 1989 al 1999. Personalità eclettica, interessato alla politica e all’amministrazione delle città è stato un raffinato grafico e un musicista suonatore di sassofono, sempre attento ai problemi sociali ma anche curioso dei fenomeni culturali ed artistici, come ha ricordato l’amico Claudio Rosati, nel suo discorso al cimitero di Pistoia. Il direttore di Culturacomme-stibile.com Simone Siliani e i redattori Aldo Frangioni, Michele Morrocchi e Gianni Biagi si uniscono al dolore della moglie Teresa e del figlio Osman.

un luogo remoto e senza tempo: ecco la “sostanza che diventa soggetto”, il “tutto è già accaduto”; in altre parole Donato Inglese ha il merito di cancellare l’evento, di porlo su un piano differente della percezione, come se questo non fosse mai “stato prima”. E per fare questo, utilizza il paradosso della provocazione - “voi non siete competenti, Io sono competente e dovete fare come dico io!”, oppure “Io sono un grande Maestro di Musica e ne capisco mille volte più di voi fetenti” ecc.- che suscita risa-te furenti nel fruitore, esorcizzando il male tramite il male stesso, ome-opaticamente, inserendo elementi “altri” (“sono un grande cornista classico”) al solo scopo di marcare uno spazio, una differenziazione tra Sé e il Resto del Mondo.Donato Inglese, il quale tutto è fuorché uno sprovveduto, è lette-

ralmente un improvvisatore, un grande talento comico, un fusti-gatore di costumi. E’ un improv-visatore che però utilizza alcuni canovacci, o leit-motiv: l’armadio marrone di casa è un oggetto fetic-cio, la scenografia essenziale di un dramma proletario; oggetti feticcio sono pure i vari gagliardetti sullo sfondo e le magliette da lui indos-sate, vere e proprie àncore in senso lacaniano, o volendo l’”àgalma” de “Il Simposio”, il simbolo che sfug-ge alla simbolizzazione (nel caso di gagliardetti e magliette, simbolo irriducibile di “interisticità”).Un altro grande merito di Inglese è quello relativo all’uso della lingua, il foggiano, che nelle sue invettive diventa idioma universale e com-prensibile, una sorta di “slang” fa-scinoso e ideale per  veicolare  me-glio i concetti. Nel far ciò, Inglese non si preoccupa minimamente

di “indorare la pillola” e il dialetto foggiano diviene il “media” neutro che unisce Soggetto e Oggetto, il collante su cui si scaricano le ten-sioni, le rabbie e volendo i sensi di colpa che stanno alla base di que-sta divisione. Questo genera una scurrilità di fondo che non scade mai nella volgarità fine a se stessa, una proiezione surreale sui fatti che vengono investiti da una “mise en abyme” della parodia stessa.I tempi comici di Donato Inglese sono quelli della nostra comme-dia - Totò e Peppino, Franchi e Ingrassia,- ciò è palese anche nella  maniera di ammiccare alla camera e nella capacità di sostenere il discorso in primo piano, come il mezzobusto del commentatore del TG che tutti noi vorremmo nelle nostre case ad ora di cena. Personalmente, non mi perdo un suo solo video.

Sarebbe troppo semplicistico e riduttivo relegare l’opera di Donato Inglese alla vulgata

dominante dei video-commenta-tori sul web che oramai imperver-sano dopo ogni match calcistico.Inglese usa a pretesto il calcio, il suo è un eterno “funerale al match”, un rito che simboleggia la “fine di ogni evento” e che dà voce all’irrazionale calcistico tramite la celebrazione di ogni accadimento a colpi di insulti e parole scurrili (oltre che da sprazzi di analisi tecnico-tattica pregevoli).“Dovete ascoltare il Maestro! Il Maestro ha sempre ragione! Non capite un cazzo! Mettete subito i ‘mi piace’ a questo video che dobbiamo arrivare a…! Se non partecipate vi cancello!”.Questi sono solo alcuni esempi di come Inglese si relaziona con il suo auditorio, e già questo aspetto, il piglio autoritario che giunge financo al disprezzo del proprio pubblico, mostra la differenza peculiare, oserei dire autoriale, di Inglese rispetto ad altri scialbi epigoni del settore.Tant’è che, a nostro avviso (lo di-ciamo da interisti consumati), Do-nato Inglese raggiunge il suo apice quando l’Internazionale perde o produce prestazioni imbarazzanti (la qual cosa, ahinoi, è fatto ricor-rente negli ultimi anni). Solo allo-ra il campionario di male parole, insulti e invettive contro questo o quel giocatore, raggiunge vette  di rara fantasia cruenta e vibrante, e il passaggio tra innocenza e malizia, purezza e corruzione, si ottiene mediante una catarsi del soggetto che diventa “assoluto”. Il dileggio e la teatralizzazione del dramma cal-cistico - la furia raggiunta in certe “puntate” è davvero enorme,- sono atto di finzione attoriale, crudele in senso artaudiano; “verità”in quanto rappresentazione formale del verosimile, “messa in scena” nella sua più tragica essenza (ricor-diamo il Barthes in “Miti d’oggi”). La faccia e il corpo di Donato Inglese campeggiano assumendo la realtà ontologicamente, quasi a mostrare l’assurda tesi che ogni fatto calcistico è scaturigine che si promana dal “corpo del Maestro”, dalla Cosa Unica che fagocita il Divenire e dunque anche il Passa-to. E’ come se la partita domeni-cale o infrasettimanale fosse stata giocata in un universo parallelo, in

Funeraleal matchdi DonatoInglese

Un ricordodi MarcelloBucci

di FranCeSCo [email protected]

di miChele morroCChitwitter @michemorr

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richieste, offerte e scambi delle più varie cose e la piccolissima percentuale che Omidyar deci-de di richiedere per le transa-zioni raggiunge livelli tali da superare di gran lunga il suo stipendio alla General Magic...il resto è trasformazione nella attuale colosso multimiliar-dario e-Bay, nome attribuito a questo sistema nel 1997. La palma per il maggior numero di oggetti posseduti spetta a un tal Domenico Agostinel-li che con i suoi 600.000 è entrato di riffa nel Guinnes dei primati, fra essi un uovo di di-nosauro di 65 milioni di anni fa (?),l ‘ultima foto inedita di Mussolini all’obitorio, lettere scritte da Maria Antonietta , reperti dalla tomba di Tutan-kamon, un Cinematographe dei Lumière, un ‘auto appar-tenuta alla famiglia di Al Ca-pone, giocattoli, sessantamila bottoni, cappelli, mobili...Tutta questa roba è dislocata a casaccio, senza alcun biglietto esplicativo o classificazione, su tavoli, in terra, appoggiata ai muri, appesa al soffitto in

una palazzina di 3 piani nella periferia di Roma, riconosciuta dalla Sovrintendenza delle Belle arti Museo che testimonia artigia-nato perduto e cultura popolare. Due parole su Renzo Arbore, collezionista di “kitsch se è sublime”, possiede oggetti coloratissimi e improbabili sistemati un pò ovunque in ogni stanza delle sue case e senza un granello di polvere..onore e gloria alla sua colf! Dice di essere il più grande collezionista vivente di oggetti e mobili di plastica, molti in cata-lina, plastica durissima che essendo la sua

lavorazione cancerogena non viene più prodotta, “sembrano cianfrusaglie, ma sono in realtà preziosi reperti di moderna-riato...” Alla sua morte questa collezione andrà ad un Museo Romano ...Se la Redazione mi procurasse un aggancio andrei volentieri a Roma a visitare le sue case, i suoi mobili colora-tissimi e le sue collezioni!!!

di CriSTina [email protected]

Essendomi un po’ per caso trovata a cercare collezionisti di oggetti,

preziosi, strani, nuovi e vecchi per scriverne e a dedicare una rubrica a un appassionato raccoglitore e collezionista di “oggetti bizzarri” leggo cose sul tema collezioni e in mancanza di un “maniaco seriale” a di-sposizione vi parlo di un libro scritto da Giulietta Rovera, giornalista, scrittrice di com-medie, gialli e film catastro-fici, dal titolo “Per hobby e per passione”. Al di là delle interpretazioni psicologiche, dell’ analisi sociologica e delle dotte discussioni sull’origine storica del fenomeno, vorrei raccontarvi delle curiosità che ho appreso leggendolo. Due nascite, una di anni addietro, una recentissima. Hans Sloa-ne, medico dei Reali inglesi, amante dei viaggi e non solo, scoprì in Giamaica una be-vanda indigena fatta con una polvere scura dal gusto amaro, rientrato a Londra provò a renderla più gradevole con latte e zucchero, ottenne la cioccolata e grazie a lei divenne ricchissimo, ammesso ne avesse avuto biso-gno! Oltre che i viaggi amava oggetti, libri e artistiche cose. Alla sua morte, nel 1753, donò la sua imponente raccolta di “preziosità , stampe, cammei, sigilli, monete “etc alla Nazione, chiedendo in cambio soltanto 20.000 sterline per gli esecutori testamentari. Nel 1759 la Collezione fu esposta al pubblico con il nome di British Museum, fu il primo esempio di collezione d’arte non priva-ta visitabile, primo Museo nell’accezione attuale del ter-mine. Pamela Wesley, giovane biologa americana, colleziona i plasticosi contenitori di cara-melle Pez Candy, qui del tutto ignote. Si innamora di un bril-lante informatico di origine iraniana, Pierre M. Omidyar, nel corso di una intima cenetta gli parla della sua innocente

Per hobbyo per passione

passione, comune a tantis-sime altre persone e lui, per compiacerla, decide di creare un sito Internet. Dopo pochi

giorni dalla sua inaugurazione, 5 settembre 1995 giorno del Labor Day, i due fidanzati assistono ad una esplosione di

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Una novità che, per il suo interesse, è all’eviden-za sin dai primi mesi

di quest’anno riguarda il sito www.pianiregolatori.it, dove gli architetti Maffei Cardellini, Montemagni, Pecchioli, - Stud.Urb.A. - propongono piani, progetti, pubblicazioni, propo-ste, riflessioni e ragionamenti sul territorio e sul paesaggio e sulle loro problematiche in evoluzioni nel riferimento locale e regio-nale.A prima vista si evidenzia un approccio nella rappresentazio-ne delle tematiche affrontate in controtendenza rispetto alla prassi corrente, con il rifiuto degli schematismi, semplifica-zioni ed automatismi propri delle consuete elaborazioni da computer: prevalgono interpre-tazioni, anche grafiche e carto-grafiche, più sensibili alla lettura ed all’evidenza delle evoluzioni storiche sul territorio e sul pae-saggio su cui si interviene.Non a caso questa attività professionale parte, negli anni ‘80 del secolo scorso, con la

Per un buon progetto, una buonadocumentazione

mezzo secolo su quel territorio.Tra questi due specifici con-tributi, qui ricordati, il sito riporta ed illustra numerosi altri impegni: piani, progetti, ricerche d’archivio, consulenze e restauri per città, centri storici, complessi immobiliari, architet-ture; espressione del fare e fare bene: farlo sapere - anche con interventi, iniziative editoriali ed articoli - privilegiando una rap-presentazione e documentazione storico - cartografica di contesto ormai di raro riscontro in mate-ria: per un buon progetto, una buna documentazione, come diceva Viollet - le Duc.L’interesse nel seguire nel tempo la gestione del sito, con questa sua specifica caratterizzazione, trova particolare significato nella situazione toscana di oggi, quando il rinnovamento di leggi e piani impone un impegno professionale, sul territorio e nel paesaggio, necessariamente attento ad una evoluzione che si dimostri coerente con un non trascurabile patrimonio culturale ed ambientale alle spalle da con-tinuare a studiare e conoscere.

di anTonello [email protected]

redazione del piano per il Parco Regionale Migliarino - S. Rossore - Massaciuccoli, che allora si distinse per l’originalità dello studio sulla cartografia storica di quei luoghi espressione dell’evoluzione di quegli assetti, con proposte conseguenti poco rispettose dei consueti approcci eminentemente naturalistici.

Più recentemente uguale interesse si ritrova nel sito nella rilettura della storia urbanistica del Comune di Fiesole, oggetto di intervento in un seminario della Fondazione Michelucci, attraverso la ricerca di aspetti di continuità, coerenza, integrazio-ne tra gli atti amministrativi e progettuali succedutisi in quasi

Si è aperta il 1° luglio e chiuderà alla fine del mese, all’Hotel Cellai (via XXVII Aprile 14), la mostra Firenze, dietro la facciata di Rober-to Mosi che prosegue la sua ricerca personale, lontana dai luoghi co-muni, sui caratteri più affascinanti della città. Questa occasione segna per l’autore il passaggio dalla fo-tografia in bianco in nero a quella a colori, con lo studio di toni che sembrano riprendere aspetti della tradizione pittorica fiorentina. Come al solito, l’autore incrocia la lingua della fotografia con quella della poesia e del racconto, carat-teristiche che hanno interessato particolarmente il pubblico che ha partecipato all’inaugurazione. La mostra si sofferma sulla rete di vicoli presente nel centro della città che mostrano anco-ra l’impronta netta medievale. L’esposizione completa una serie di mostre realizzate da Mosi negli ultimi anni secondo un percorso che partendo dalle colline, ha at-traversato le periferie, il centro e i luoghi del “mito”, le tracce di una storia unica e i riflessi delle famose vie della moda, il paesaggio che si rispecchia nelle acque dell’Arno. I passaggi di questo impegno

sono stati pubblicati in un recente e-Book – Firenze, fotografie – delle Edizioni www.larecherche.it, liberamente accessibile dalla rete.Nelle immagini della mostra Firenze, dietro la facciata, si tende a esaltare il movimento dal basso verso l’alto, dell’alzarsi dello sguardo dalle pietre dei vicoli e dei passaggi, su per i muri delle case, per arrivare a scoprire una

striscia di cielo azzurro, la luce rara del sole. Questa aspirazione a liberarsi dalle ombre dei vicoli, è accompagnato nelle riprese foto-grafiche, dal progressivo accen-dersi dei colori, dal movimento verticale verso l’alto, delle docce, degli sfiati di metallo argenteo delle cucine dei ristoranti e dei laboratori. Le fotografie colgono poi come una specie di solidarietà

fra le case, gli edifici, addossati gli uni agli altri, con archi di sostegno aerei che passano da una parte all’altra del vicolo. In una foto occhieggia di lontano uno dei monumenti celebri, il Campa-nile di Giotto. In basso, nei vicoli, scarsi i segni della vita di oggi, un uomo accovacciato, solo, in un angolo quasi schiacciato dall’incombere degli edifici, mucchi di spazzatura, un manifesto di un film con due amanti appassionati, la scritta bianca sul muro di un sottopas-saggio: “BELLA”. Una mostra dunque dedicata al cuore di Firenze e, perché no, alla mano che ha scritto questa parola dedicata, forse, ad un’innamorata. Riflessioni “fotografiche” e “poeti-che”, si potrebbe dire, che l’autore ha cercato di rendere anche con un racconto riportato nell’e-Book sopra citato (“Via del Limbo”) e nella poesia “Il Giullare”, animata appunto dalla figura di un ridente Giullare (lo stesso autore?), che si aggira per la città, in mano una piccola macchina fotografica.

Firenze dietro la facciata

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Sabato 13 giugno a Marradi è stata posta la prima pietra di quello che dovrebbe diventa-

re il parco culturale Dino Campa-na; se il progetto prenderà davvero consistenza non sarebbe un brutto regalo per il 130° compleanno del grande poeta. Si è trattato di una prima pietra… di carta, visto che i Comuni di Marradi e di Scandicci e il Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, del Monte Falterona e di Campigna hanno sottoscritto un protocollo d’intesa in cui “dichiarano il loro interesse alle iniziative di valorizzazione ter-ritoriale teso alla costituzione del Parco Dino Campana” e assumo-no alcuni impegni conseguenti, dall’informarsi reciprocamente delle rispettive iniziative volte alla costituzione del parco alla realizzazione di attività continua-tive fortemente legate al territorio, alle sue economie e impegnate a diffondere iniziative culturali e turistiche”. Importante partner del costituendo Parco sarà un altro parco, già costituito e operante: è il “Terre di Dante”, e non poteva non esserci questo stretto raccordo se si considera che Dante è stato uno dei grandi riferimenti di Dino Campana e che nell’itinera-rio campaniano si incrocia nella località “Acqua Cheta” la memoria della presenza di Dante Alighieri, che ne ha consacrato il ricordo in tre terzine del XVI canto dell’In-ferno.Le firme sul protocollo, che segna la ripresa di un cammino avviato molti anni fa dal marradese Giu-seppe Matulli, oggi assessore alla cultura di Scandicci (chissà se e come evolverà il “contenzioso” tra Marradi, il paese natale di Dino Campana che ha da tempo già pronta una tomba monumentale, e Scandicci, nel cui territorio, a Badia a Settimo, riposa finalmente in pace il poeta), potevano essere apposte anche in pochi minuti e nel chiuso di un ufficio: l’assessore alla cultura di Marradi, Marzia Gentilini, che si è molto adope-rata affinché Marradi entrasse a far parte del parco delle foreste Casentinesi, ha avuto invece l’ottima idea di far sottoscrivere il protocollo al termine di un con-vegno che già nel titolo indicava chiaramente la strada da seguire: “Parco culturale Dino Campana – Leggere il paesaggio guidati dalla poesia”.

Ilpaesaggio tra mitoe cosmoUn Parco culturale per Dino Campana

dalla veduta alla visione, può avvenire grazie alla parola del poeta, ma an-che grazie a chi, avendone compreso lo sguardo, sa reinterpretarlo, sa additare la realtà presente in tutte le sue potenzialità visio-narie. Così, ad esempio, di fronte a una montagna vista da Campana, non dobbiamo semplicemente

usare i suoi testi come didascalie di altrettante cartoline, ma dob-biamo avviare uno scavo, dobbia-mo esplorare il racconto geologi-co, sondare il tempo grande, per aiutare l’osservatore e il viandante a rivivere la stessa emozione orfica di Campana di fronte al paesag-gio”: Marradi come la Pampa, insomma, e le suggestioni possono continuare.Un “caso di studio” di trasfor-mazione della persona attraverso l’azione della poesia sui luoghi è quello di Rita Neri, animatrice dell’Associazione “Strada del marrone”, che è stata “folgorata”, Canti Orfici in mano e maestre sapienti a guidarla, sulle vie di Campana. In un appassionato intervento dedicato agli itinerari campaniani negli Appennini, Rita Neri ha testimoniato come percor-rendo gli itinerari campaniani – così ben analizzati e ripercorsi dal compianto Giovanni Cenacchi in un testo che dovrebbe, insieme a quello di Meschiari, essere preso come “tavola della legge” dal parco Dino Campana (I Monti Orfici di Dino Campana – Un saggio, dieci passeggiate, Polistampa, 2003 e 2011) – “di un poeta un po’ oscuro ho trovato la spiegazione calpestando i sentieri, ascoltando i ruscelli guardando le rive bianche e ferme di Campigno o del Falte-rona e ho chiaramente sentito nel mio corpo il significato dei versi “salire …. salire”. Come non andare col pensiero proprio ad una delle più profonde intuizioni dell’alpinista e scrittore Cenacchi, quando sosteneva che “tutto il problema della compren-sione dell’opera di Dino Campana diventa un problema di lettura della sua esperienza” e concludeva: “in tutta la sua opera Dino Cam-pana ci chiede di essere come lui”. Il parco, se finalmente riuscirà a diventare realtà, potrebbe essere uno strumento formidabile per farci condividere, almeno un po’, la meravigliosa avventura campa-niana.

di dino [email protected]

Se la premessa del Parco, e la legit-timazione dei soggetti impegnati alla sua costituzione, sta nella “piena consapevolezza del rap-porto particolare fra il territorio amministrato e l’avventura poetica e umana di Dino Campana”, il fine perseguito è quello di creare un ulteriore, ma fondamentale, approccio ai Canti Orfici, con la valorizzazione, anche dal punto di vista delle caratteristiche econo-miche e socio-culturali, di quel paesaggio che è tutt’uno con i Canti. Un’impresa non facile e non priva di tentazioni “commer-ciali” – anche se opportunamente Luca Santini, presidente del Parco delle Foreste Casentinesi (nel cui territorio si trovano numerosi itinerari e “mete” campaniani, primo fra tutti La Verna), ha evidenziato il ruolo dei parchi nello sviluppo del territorio - dalle quali ha messo in guardia Matteo Meschiari, docente di antropo-logia culturale e antropologia del paesaggio all’Università di Paler-mo, autore di uno dei più preziosi e originali studi sulla poetica di Dino Campana (Dino Campana – Formazione del paesaggio, Liguori, 2008). Per Meschiari la creazio-ne di un parco culturale “Dino Campana” è un progetto che, proprio in questa fase interlocuto-ria, non può rinunciare a chiedersi come si possano inventare sinergie tra cultura ed economia locale senza derogare alla specificità del progetto. Il riferimento a Dino Campana, infatti, non può e non deve restare un semplice conteni-tore per realtà eterogenee, unite tra loro da una mera allusione cul-

turale e da una corografia limitata. La sfida, invece, è cercare proprio nella vita e nell’opera di Campana una specificità in grado di guidare il progetto. “In altre parole – si è chiesto - cosa ci suggerisce Cam-pana per la creazione di un parco culturale “Dino Campana”? Qual è la peculiarità di sguardo del poeta che può aiutarci oggi nella creazione di un parco culturale?”. Questa specificità lo studioso la individua nella riflessione di Cam-pana sul paesaggio, una riflessione unica non solo all’epoca della pubblicazione dei Canti Orfici (1914) ma anche oggi, cent’anni dopo. La sua idea di paesaggio ha molto da insegnare, e questo inse-gnamento può essere riassunto in 4 punti fondamentali: 1) paesag-gio come ragionamento (cioè non come scenario ma come modello cognitivo per interpretare la real-tà); 2) paesaggio in movimento (mai statico, ma dinamico per le geologie profonde che lo animano e per chi ci cammina sopra); 3) paesaggio come cosmo (perché anche un piccolo frammento di terra è allusivo di tutta la Terra); 4) paesaggio come mito (perché la Terra serba in sé racconti ance-strali che il poeta può leggere e l’uomo comune può immaginare). Per Meschiari questi primi indizi sono già una traccia per guida-re l’azione, per passare alla fase concreta del progetto, un progetto che “non deve limitarsi a giustap-porre citazioni letterarie a luoghi notevoli, ma che deve agire sulle persone, trasformandole attraver-so la poesia dei luoghi. Questa trasformazione, questo passaggio

Per rendere il paesaggio, il paese vergine che il fiume docile a valle solo riempie del suo ru-more di tremiti freschi, non basta la pittura, ci vuole l’acqua, l’elemento stesso, la melodia docile dell’acqua che si stende tra le forre all’ampia rovina del suo letto, che dolce come l’antica voce dei venti incalza verso le valli in curve regali : poi chè essa è qui veramente la regina del paesaggio

Dino Campana

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La cucina greca è semplice ma complicata al tempo stesso. Quella greca è una tipica cucina mediterranea che utilizza olio d’oliva, carne, pesce e svariate verdure. In Grecia non hanno l’abitudine di servire il primo piatto. Il pasto si apre dunque con una serie di antipasti meze-des cui segue un piatto principale che può essere a base di carne o pesce, spesso cucinati alla griglia o alla piastra, oppure un’insalata e dei formaggi. Uno degli antipa-sti greci, tanto gustoso più famosi e gustosi è il Saganaki ,una fetta di formaggio di capra a pasta compatta che si frigge in olio bollente e si condisce con ouzo e succo di limone. Tra le ricette greche a base di carne troviamo il Souvláki , degli spiedini di carne cotti ai ferri e infilzati successi-vamente e il Gyros o una sorta di Kebab che viene servito come Píta Gýros, cioè carne condita con Tzatzíki, pomodoro, cipolla e patate, arrotolata all’interno di una Píta, cioè una sorta di piadina rotonda. Tra i piatti al forno il più famoso è senz’altro la Moussakà, una sorta di parmigia-na nostrana fatta con melanzane, patate, Ragù e Besciamella. Tra le insalate la più famosa è senza dubbia la Khoriátiki Salàda, l’insalata alla Greca, con fette di cetriolo, pomodoro e condita con olio extravergine, origano, olive, cipolle a rondelle, e pezzetti di

formaggio Feta. La cucina greca è inoltre nota per l’utilizzo di yogurt e formaggi. Tra i formaggi il più noto è la Feta, formaggio fatto di latte di capra, a pasta granulosa e di gusto leggermente asprigno. Gli yogurt invece sono serviti per accompagnare i piatti o utilizzato per preparare salse come il noto tzatziki, una salsa di yogurt fatta con l’aggiunta di cetriolo, aglio e olio d’oliva. Tipici della cucina greca sono le ricette di dolci a base di pasta sfoglia ripieni di mandorle tritate e miele come il Baklavás noto dolce anche in Turchia. Tra le bevande, la più diffusa è l’ouzo, un liquore a base di anice.

Moussakà: Ingredienti per 4 persone:600 gr di melanzane 400 gr di carne macinata di agnello 200 ml di passata di pomodoro300 gr di patate 350 ml di besciamella 50 gr di pecorino 1/2 bicchiere di vino rosso 1 cipolla 1 pizzico di cannella 1 noce di burro sale pepe olio evo olio di arachidiPreparazione: Lavare, sbucciare le melanzane e tagliarle a fette

longitudinali di circa mezzo centimetro. Disporre le melanza-ne in uno scolapasta, cospargerle di sale grosso e mettervi sopra un peso per lasciare fuoriuscire la loro acqua. Dopo una mez-zora, sciacquare le melanzane sotto l’acqua fredda e strizzarle. Friggere le melanzane in olio ben caldo finché non saranno dorate da entrambe i lati. Sollevare le melanzane e tenerle da parte. Tagliate la cipolla a velo e fatela imbiondire con olio d’oliva, ag-giungere la carne macinata e farla rosolare. Sfumare con il vino, salare, pepare, aggiungere un pizzico di cannella e la passata di pomodoro. Lasciare cuocere il ragù con un coperchio per una mezzora. Lavare e sbucciare le patate, tagliarle a fettine di 3 mm e farle saltare in padella per qualche minuto. Imburrare una teglia da forno e ricoprirla con uno strato di patate. Stendere ora uno strato di melanzane sovrap-ponendole l’una all’altra e salare. Aggiungere uno strato di ragù di carne. Ricoprire lo strato di carne con un altro strato di melanzane e Infine ricoprire il tutto con uno strato di besciamella e spolveriz-zare con il pecorino grattugiato. Infornare la moussakà a 180° e cuocere per 30 minuti o fino a che la superficie della non sarà gratinata. Servite tiepida.

di miChele [email protected]

Aldo Frangioni presental’arte del riciclo di Paolo della Bella

ScottexL’opera che vedete è solo un frammento. L’artista si è cimentato in una lunghissi-ma pellicola super 8 (gli indigeni digitali pensano che questa tecnica appartenga allo stesso periodo dei graffiti di Lescaux, così almeno dice il sito MentiMedia) il film è la ripresa del disfacimento di un pezzo di carta sotto l’azione di una goccia d’acqua. La liquefazione dura 87 ore. Come potrete immaginare non abbiamo scelto il foto-gramma migliore ma ne abbiamo preso uno a caso. Il prodotto è stato anche pre-sentato al Guiness dei primati per ottenere il titolo del film più lungo e, diciamo noi, più invedibile della storia del cinema.

Sculturaleggera

il doppio volto della grecia27

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lectura

dantisDisegni di Pam

Testi di Aldo Frangioni

Dante incontra Virgilio

Altro che ritornar a riveder le stelle.Speranza ebbi, nel rivedere un pocoqualcosa che calmò le mie budelle

sembrommi un omo con il dire fiocoqualcun che trarmi potea da quell’impicciolungo vestito, come fusse un coco

aiuto mi darà senza capriccioe lo implorai d’aver di me pietate,

disse di sì e non si chiuse a riccio.

Ecco l’amico, ecco qua il mio Vate

l’unico cui fidarsi nel periglio

Tradir non può, chi le vite ha

lasciate.

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L

Siamo ad un altro incrocio, sempre nel downtown di Manhattan, e a distribuire il giornale “The Black Panther” stavolta c’è un’adulto, una vera “Pantera Nera” dal volto duro, l’immancabile maglietta e i famosi occhiali neri di ordinanza. I passanti sfilano a passo di corsa e, a dire il vero, non sono molti quelli che si fermano per acquistare il giornale. il passaggio è frenetico, come quasi tutto qui a New

York. Nella mazzetta dei giornali che il giovane tiene nella mano sinistra si legge chiaramente la scritta in spagnolo “Frente Unido Contra el Fascismo” a testimonianza di come nel tempo si fosse saldato un legame tra la popolazione nera e gli ispanici per contrastare quel razzismo non tanto strisciante che serpeggia da sempre all’interno della società statunitense.

NY City, 1969

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

[email protected]

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